That try — Il momento più memorabile nella storia del rugby

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
7 min readFeb 3, 2018

That try. Quella meta. È così che viene ricordata ancora oggi, in quanto quella è la meta. Con l’inizio del Sei Nazioni di rugby, vale la pena commemorarne l’anniversario non solo in quanto capolavoro rugbystico, ma anche perché gli avversari che la subirono, quella meta, erano i potenti All Blacks.

È un po’ come se il sorpasso più bello della storia della Formula Uno fosse stato perpetrato ai danni di una Ferrari o come se il gol più bello della storia del calcio fosse stato segnato contro il Brasile…. o no, il paragone non può reggere. Questo perché non c’è squadra al mondo che sia l’emblema di uno sport quanto lo sono gli All Blacks — nickname della nazionale neozelandese, per chi non lo sapesse — per il rugby.

Correva l’anno 1973, il mese era gennaio e il giorno era il 27: sono passati 45 anni.

Il campo di battaglia è quello dell’Arms Park di Cardiff, capitale del Galles. Le due squadre in campo sono i già citati Tutti Neri da una parte e i Barbarians dall’altra.

Arrivano i Barbari(ans)

I barbari, senza una fissa dimora. Quello dei Barbarians, o Baa Bas, è un club a invito, unico nel suo genere, che si riunisce solo in poche occasioni speciali e che mette insieme i migliori giocatori del panorama internazionale distintisi per meriti dentro e fuori dal campo. La filosofia alla base del club è giocare un rugby votato all’avventura e all’attacco. Si fronteggiano dunque due squadre ricche di fuoriclasse, ai tempi rigorosamente dilettanti in quanto solo a fine anni ’90 il rugby sarebbe diventato professionistico.

Si fronteggiano, inoltre, due delle uniformi più belle dello sport con la palla ovale e non solo. Completo nero dal quale spiccano il colletto bianco e la cucitura sul petto della felce argentata per gli All Blacks; maglia a bande orizzontali nere e bianche e calzoncini neri per i Barbarians, i quali come sempre indossano calzettoni di colore diverso a seconda del club di provenienza di ciascun giocatore. Per esempio, neri sono quelli di Gareth Edwards, il numero 9, e rossi quelli di Phil Bennett, il numero 10. Ricordateli, questi due nomi.

L’occasione per una storica rivincita

La tensione si taglia con il coltello all’inizio della partita. Normalmente quelli dei Barbarians sono match di esibizione, ma questa volta dietro alla sfida con gli All Blacks si nasconde altro. I Baa Bas che scendono in campo all’Arms Park di Cardiff sono quasi tutti reduci dalla tournée vittoriosa dei British and Irish Lions in terra neozelandese di due anni prima.

Per una squadra come gli All Blacks, il cui record “peggiore” di vittorie contro le altre nazionali si assesta sul 70%, essere risultati sconfitti in due incontri su quattro — più un pareggio — in casa propria nel 1971 è uno smacco da cancellare. Per i Barbarians si tratta invece di un’occasione unica per esibire in campo davanti al pubblico britannico la quasi totalità di quella formazione dei Lions riuscita nell’impresa storica di espugnare la Nuova Zelanda.

I Barbarians giocano doppiamente in casa, sia perché Cardiff è in Gran Bretagna, sia perché l’ossatura di quella squadra è composta da giocatori gallesi, veri e propri local heroes. Saranno proprio cinque di loro — più un inglese — a rendersi protagonisti di quella meta.

La voce di Cliff Morgan a commentare

Il rumore della folla è assordante all’ingresso in campo, con 45.000 spettatori stipati e impazienti di assistere a un match che entrerà nella storia dello sport.

I neozelandesi eseguono la tradizionale haka all’inizio del match, seppur ancora coreograficamente acerba in confronto a quella che siamo abituati a vedere oggi. Il balzo finale ad accompagnare gli ultimi versi Whiti te ra! Hi!, “verso la luce del sole” è tuttavia salutato da un boato assordante.

Anche la voce di Cliff Morgan, telecronista del match, vibra per l’emozione. È stato chiamato per l’occasione solo un paio d’ore prima del match a sostituire lo scozzese Bill McLaren, noto anche come the voice of rugby, mica uno qualsiasi. Morgan invece è gallese ed è un ex mediano d’apertura con 29 presenze in nazionale… Si rivelerà l’uomo giusto per commentare quella meta.

A 42 anni di distanza, nel 2015, ancora se ne parlava con tanto di celebrazioni in loco.

Una partenza bruciante

Pronti, via. Un inizio frenetico con calci da un lato all’altro del campo a esplorare zone scoperte e a tentare di guadagnare terreno. Sono passati due minuti scarsi dall’inizio quando l’ala neozelandese Bryan Williams calcia lungo provando a sorprendere i Barbarians all’interno dei loro 22 metri.

Phil Bennett, il geniale mediano d’apertura dei Baa Bas e della nazionale gallese, corre all’indietro per raccogliere l’ovale arrivato ormai a pochi metri dalla linea di meta. Si avventano subito su di lui quattro All Blacks a caccia di un placcaggio, che metterebbe in seria difficoltà i Baa Bas e darebbe ai Tutti Neri un’ottima chance di andare in meta.

In una situazione del genere, normalmente, si calcia in touche per allentare la pressione, guadagnare metri, riorganizzare la difesa… E soprattutto per prendere fiato, dopo un avvio così dispendioso, con l’adrenalina ancora a mille nel corpo per l’urlo di benvenuto di Arms Park.

“In effetti, pensavo che Phil avrebbe calciato e, anzi, era ciò che avrebbe dovuto fare,” rivela ad anni di distanza Gareth Edwards, mediano di mischia del Galles e dei barbari.

E invece, no. Con due finte fenomenali, Bennett si libera di Alistair Scown e Ian Hurst prima e di Hamish McDonald e del capitano Ian Kirkpatrick poi e, spostandosi verso il lato aperto, apre verso l’estremo, J.P.R. Williams, gallese anche lui, che per la seconda volta nel giro di un minuto viene placcato al collo, riuscendo però con un brillante offload a far scorrere l’azione verso John Pullin, tallonatore e unico inglese a toccare il pallone nell’azione che porta a That try. Siamo ancora all’interno dei 22, ma Arms Park intuisce che si sta facendo la storia e il livello dei decibel prodotto dal boato inizia a crescere. Palla a John Dawes, numero 13 e capitano dei Barbarians quel giorno.

Arriva John Dawes

Si necessita qua una mini-digressione sulla figura di John Dawes. Forse è meglio lasciarla direttamente alle parole del telecronista Cliff Morgan, pronunciate subito prima del fischio d’inizio, quando le telecamere vanno a cercare proprio il centro e leader dei Baa Bas:

A tactical genus. A man of immense talent”.

La traduzione è superflua, credo. Per lui parlano i risultati: mai sconfitto dall’Inghilterra nella sua carriera da giocatore — il che spiega l’immense talent — e mai sconfitto dall’Inghilterra nella sua carriera da allenatore del Galles — qui calza bene il tactical genius. Soprattutto, John Dawes è stato il capitano di quell’unico tour vittorioso dei Lions in Nuova Zelanda datato 1971.

Chissà se dobbiamo soffermarci sul fatto che gli All Blacks abbiano una loro tivù o sul fatto che abbiano fatto una dissertazione tattica su una meta — comunque storica — del 1973.

What a score!

Bene, torniamo a That try. È John Dawes che produce l’accelerazione che inizia a far credere che davvero si stia realizzando qualcosa di grosso. Finta di andare sul lato cieco e scarica verso Tom David: “The half-way line!” esclama Morgan al microfono. Siamo a metà campo. Il tackle di Whiting, pilone degli All Blacks, è implacabile, ma a David riesce un off-load miracoloso mentre cade a terra verso Derek Quinnell, la terza centro che ha seguito a sostegno. Piegando la schiena per non far cadere la palla in avanti, ma mantenendo al contempo lo slancio della corsa, Quinnell avanza con l’ovale. Di ruolo gioca Number 8, come si dice in inglese, il che significa che ha una stazza fisica imponente. Eppure, esegue un capolavoro di coordinazione e destrezza. Si ricompone e va sul lato cieco dove sta arrivando John Bevan, l’ala, verso cui indirizza la palla…

Ma, dal nulla, si fa strada a tutta velocità un lampo. Il suo numero di maglia è il 9 e il suo nome è Gareth Edwards, universalmente riconosciuto come uno dei giocatori più grandi in assoluto nella storia del rugby.

This is Gareth Edwards!” è l’urlo di Cliff Morgan, in estasi insieme a tutto l’Arms Park, che produce un autentico ruggito per spingere il giocatore del Cardiff, beniamino di casa, verso la meta. Prova a placcarlo il fullback, Joe Karam, ma le sue mani riescono soltanto a stringere l’aria.

Va veloce, Gareth, verso la meta, ma ora il pericolo che incombe è quello di Grant Batty, che arriva a grandi falcate con una disperata corsa in diagonale per tagliargli la strada e per spingerlo fuori dal campo prima che schiacci la palla a terra. È allora che il numero 9 si ricorda di essere stato anche un promettente ginnasta, oltre che un rugbista immenso.

Il volo in avanti con le braccia protese a tuffarsi in meta con la palla tra le mani ricorda per stile un esercizio a corpo libero: è una meraviglia estetico-ginnica da guardare e riguardare — grazie YouTube! — con il commento di Cliff Morgan a suggellare quel volo: “What a score!” Eccola lì, That try.

Sarà la prima meta di un match memorabile, vinto dai Barbarians per 23–11 dopo 80 minuti di rugby sublime.

Sullo sfondo, il boato dello stadio saluta la segnatura del ragazzo venuto da Gwaun-Cae-Gurwen, piccolo villaggio di minatori, come il padre di Gareth, in cui la lingua che si parla nella culla è il gallese e l’inglese lo si impara soltanto a scuola.

Dopo aver segnato, si rialza e torna in mezzo al campo di corsa come se nulla fosse, Gareth Edwards, perché il marchio di un grande sportivo (e di una grande persona, aggiungo io) è “vincere con modestia e perdere con dignità,” secondo un’affermazione a lui attribuita dalla sua pagina di Wikipedia. La Via di Mezzo diventa rugby.

Non ci sono eccessi, ma solo rispetto per gli avversari e ricordare quell’azione ancora a 45 anni di distanza è, nelle parole di Edwards, sintomatico di quale stima e di quale considerazione i giocatori britannici avessero nei confronti di quegli All Blacks.

This is rugby, signori. È anche per tutto questo che quella meta è e sempre sarà That try.

Articolo a cura di Daniele Canepa

--

--