The America’s Game: cosa vedono gli Americani quando guardano il Football
Domenica a mezzanotte andrà in scena il SuperBowl numero XLVIII . In Italia verrà trasmesso in diretta da Italia2 e Fox Sports2 ma solo pochi nerd dello sport USA lo vedranno. E stiamo parlando di un evento che negli Stati Uniti tiene davanti al televisore ogni anno più di 90 milioni di spettatori.
Lo sport americano dalle nostre parti non ha mai riscosso un gran successo, nonostante lo si tenti di esportare a varie ondate attraverso operazioni televisive discutibili e malriuscite.
1. Il Football e l’Americanità in Italia
I primi tentativi di vendere il football agli italiani risale agli anni ’80, un decennio nel quale si è cercato di importare, negli ambiti più disparati, la cosiddetta american way of life.
Nel 1984 esce il film Vacanze in America dei Vanzina; nel 1986 lo stesso cast dà vita a Yuppies, film in grado di simboleggiare il modo un po’ casereccio con cui abbiamo declinato una filosofia di vita molto statunitense. Nel 1982 era invece nato Burghy, primo fast-food italiano fondato dal gruppo GS, attorno al quale bazzicava tutta la gioventù paninara, sottocultura italiana ma intrisa di simbologia statunitense, dai giacchetti Avirex alle cinture cowboy di El Charro.
In quest’orizzonte di contaminazioni culturali, nel 1981 va per la prima volta in diretta in Italia il Superbowl, con cui l’americanità avrebbe dovuto fare il proprio ingresso anche nel nazional-popolare mondo dello sport. Alla testa dell’operazione c’è Canale 5, nata da solo sei anni e da subito in prima linea nel processo di americanizzazione della società italiana.
L’evento, oltre alla diretta, prevede una replica integrale il giorno dopo in prima serata, presentata da Mike Bongiorno, in qualche modo ancora simbolo di una certa creolità italo-americana.
Aveva un certo fascino vedere quegli omaccioni vestiti da alieni scontrarsi dentro uno stadio strapieno (in nessun evento sportivo gli stadi sono pieni come nel Football Americano), la divisa a righe dell’arbitro (con cui poi impareremo a familiarizzare da Foot Locker), le cheerleader, lo spettacolo dell’intervallo. Però un sacco di regole da imparare, tempi spezzettati, ritmo che non decolla e dopo qualche anno la tv generalista smette di trasmettere l’evento in diretta, fino al 1993, quando la diffusione si assesta su parametri più consoni a un evento sostanzialmente di nicchia.
Dunque l’Italia, sin dagli anni ’80, appare piuttosto refrattaria ad assorbire gli sport statunitensi, ad eccezione del Basket, che però nasce di per sé più globalizzato e meno radicato nel ventre americano: anche grazie a una sintassi di gioco naturalmente più spettacolare.
Spesso chi discute questo dato tende a lagnarsi della presunta mancanza di “cultura sportiva” del nostro paese, afflitto da un ingestibile calcio-centrismo. In realtà la nostra ossessione per il calcio è in grado di spiegare solo in parte l’incapacità del pubblico, non solo italiano, ma europeo, di apprezzare sport come il Baseball e il Football.
Un modo più interessante di affrontare il problema è capire quanto questi sport siano espressione della cultura statunitense che li ha generati e che li continua a fruire in modo rituale. Bisogna capire che tentare di esportare uno sport come il Football a livello mainstream in Italia è come pretendere che in Europa diventino prassi cose come i riti Orixas afrobrasiliani, la cerimonia del tè giapponese e la danza dei dervisci. Una cosa che risulta assurda ed estemporanea a chiunque abbia un po’ di dimestichezza con l’antropologia, o solo col buon senso.
Insomma, bisogna capire che lo sport, come ogni evento simbolico-rituale, è espressione della cultura da cui proviene. La forza simbolica di una determinata manifestazione sportiva perde forza e senso cambiando contesto culturale, non si tratta solo di spettacolo. Come non riusciremmo mai a comprendere perché i Giapponesi costruiscono dei cessi per NON usarli, non essendo giapponesi, non capiremo mai in profondità il fascino dei tempi morti del baseball, non essendo americani.
Non sto dicendo che poi il Baseball non possa comunque essere apprezzato da uno spettatore nato in Italia, ma che il Baseball non potrebbe mai diventare uno sport di massa, realmente seguito nel nostro paese.
Perché, per l’appunto, non stiamo parlando solo di sport: quando guardiamo una partita di Football o di Baseball non stiamo solo guardando una partita, ma una particolare messa in forma rituale di alcune strutture profonde della cultura statunitense. Gli sport ci parlano delle culture che li amano: come l’attitudine brasiliana al gioco del calcio è espressione della figura letterario-antropologica del malandro, così il Football è espressione di qualcosa di significativo di cui è intrisa la cultura a stelle e strisce.
Riprendendo una domanda del professor M. Mandelbaum: cosa vedono gli americani quando guardano il football?
2. Il Football e la celebrazione dello spazio
Potremmo dire che se il Baseball è denominato Past Game per la sua capacità di rinviare agli Stati Uniti delle origini: al contatto con la natura, ai grandi prati, ai ritmi ciclici e compassati dell’agricoltura; il Football è denominato America’s Game per il fatto di rimandare a un certo spirito nazionalistico proprio della tradizione statunitense.
Innanzitutto il Football ha esattamente a che fare con la grande celebrazione dello Spazio di cui si è resa protagonista la cultura a stelle e strisce sin dalle sue origini, dall’arrivo dei coloni europei alla beat generation, passando per l’adrenalinica corsa verso ovest dei pionieri. Lo Spazio, per gli americani, è stato miticamente, sin dalle origini, sinonimo di diversi valori quali la Libertà, il Sogno, il Rinnovamento. Il cosiddetto American Dream, nella sua origine, è strettamente legato al possedimento dello spazio, del territorio: emigrare in America significava soprattutto emanciparsi dal lavoro della terra di Altri per poter lavorare la Propria terra. Così, ad esempio, Lord Denmore parlava del frenetico spostamento dei pionieri verso il West:
non giungono a nutrire alcun attaccamento per un luogo: il vagare anzi sembra cosa innata alla loro natura… e alla loro immaginazione le terre che giacciono più avanti paiono sempre migliori di quelle sulle quali essi sono già stabiliti.
Il Football celebra lo spazio anche grazie alle linee che compongono il suo campo, non a caso denominato Gridiron (graticola). Le linee semantizzano il prato come misurazione dello spazio da conquistare. Obiettivo delle squadre è lanciarsi all’attraversamento di queste linee, alla conquista di quel territorio che le farà approdare alla end-zone e al touchdown. Come dichiarava, in maniera un po’ vitalistica, uno storico linebacker dei Miami Dolphins: “c’è una sensazione migliore del correre prendendosi il campo aperto?”.
3. Lo strategismo militare
Questo aspetto della conquista del territorio accomuna il Football al Rugby, sport di cui è in qualche modo figliastro e con cui il pubblico europeo ha maggiore familiarità. La differenza tra i due sport racchiude il problema culturale che ci stiamo ponendo, e riguarda più che altro il modo in cui avviene questa conquista dello spazio. In fondo la domanda è anche un po’ questa: il rugby è uno sport bellissimo di per sé, fluido, agonistico, straordinariamente aggressivo; perché gli statunitensi l’hanno dovuto ingabbiare in quella cornice di cerebrale strategismo che anima il football americano?
La differenza sostanziale che il Football ha apportato sul Rugby è che in quest’ultimo non è in nessun caso consentito passare la palla in avanti con le mani mentre nel Football è possibile farlo, anche se solo tramite un solo e determinato giocatore: il quarterback.
Questa innovazione, apportata agli inizi del ‘900 al fine di smorzare la ruvidezza del gioco, ha avuto delle conseguenze fondamentali all’interno del gioco stesso.
Nel Rugby, durante il possesso, la divisione in ruoli è minima e tutti i giocatori devono partecipare all’azione, il pallone può essere passato solo all’indietro e dunque per effettuare una meta occorre che la squadra si muova compatta e in blocco; a rendere il gioco più fluido e dinamico c’è anche il fatto che la difesa può contrastare solo i giocatori che portano la palla, e che lo fanno in velocità. Al contrario, nel Football, dove le due linee si contrastano vicendevolmente in tutti gli effettivi, con o senza palla, il quarterback — potendo effettuare dei lanci in avanti — inizierà tutte le azioni cercando di imbeccare i giocatori che si inseriscono nella “linea” avversaria, il resto della squadra avrà il compito di proteggere il lancio del suo quarterback.
Il gioco appare frammentato in piccole sequenze che ricordano degli assalti militari: ogni qualvolta la palla va per terra — va down nel gergo — l’azione si interrompe e le due squadre si ridispongono una di fronte all’altra componendo due linee definite di scrimmage (traducibile all’incirca con: mischia, zuffa, scazzottata) e la squadra in attacco dovrà, tramite la gestione della palla da parte del quarterback, cercare delle traiettorie di gioco che sappiano eludere la linea di scrimmage avversaria. Queste strategie sono sempre elaborate dal coach, il cui compito è di studiare i punti deboli degli avversari, i punti di forza della propria squadra e pianificare delle azioni di attacco o di difesa che non lascino nulla al caso. Ciascuna azione, nel Football, è studiata e ordinata dal coach al suo quarterback che ne curerà l’attualizzazione.
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La sconfinata complessità dello strategismo nel football[/caption]
È evidente dunque come nel Football esista una rigida gerarchizzazione dei ruoli nella squadra, che non si limita comunque solo alle due figure “di comando”: in ciascuna azione infatti ogni singolo giocatore è modalizzato per agire solo nel suo specifico ambito. Nel Football esiste una iper-specializzazione dei ruoli nella squadra che fa sì che ad ogni azione un determinato giocatore svolga, in maniera disciplinata, solo ed esclusivamente quello a cui è stato destinato dal coach.
È un meccanismo che ricorda la gerarchia dell’esercito, il suo rigido disciplinamento, la sua divisione per ruoli, così come le azioni d’attacco a sopravanzare lo scrimmage avversario ricordano degli assalti bellici alle linee nemiche.
Il Football, detto questo, ci appare come una forma disciplinata, “strategizzata” del Rugby, di cui viene smorzato l’agonismo. Se il Rugby funziona per continuità, per prolungate azioni di gioco, il Football lavora per discontinuità e sequenzialità, per strappi e affondi. Le differenze fra i due sport trovano una loro rappresentazione simbolica nelle divise indossate.
La divisa del Rugby, non solo a causa del diverso regolamento, tende all’essenzialità: un piccolo caschetto protettivo, per il resto solo pantaloncini e maglietta. La divisa del Football rievoca invece un immaginario militare: i giocatori sono vestiti fino all’irriconoscibilità, il casco è enorme e le protezioni sono sparse quasi su tutto il corpo dando l’idea di un corpo gonfiato all’inverosimile e, soprattutto, iper-equipaggiato. Se i giocatori di Rugby sembrano dei guerrieri primitivi, quelli di Football somigliano a dei militari specializzati.
4. Il Football e l’esercito: una storia d’amore
Il football quindi riesce a esprimere una cultura della conquista del territorio che privilegia lo strategismo militare alla carica agonistica, la programmazione cerebrale del collettivo alle capacità fisiche del singolo. Tutte cose che accomunano, in un certo modo, il Football all’esercito, con cui del resto intrattiene dei legami storici che perdurano tuttora. Durante le guerre mondiali — e specie nella seconda — il Football è stato utilizzato per rinsaldare non solo il legame all’interno delle truppe ma anche quello tra le truppe e il popolo americano: è in questi periodi che un crescente numero di cittadini si reca alle basi militari per assistere agli incontri.
Il Football, oggi, è ancora così popolare e riveste una tale importanza nell’esercito che esso mette in scena, nel mese di gennaio, un personale evento Superbowl: l’All-american bowl. Il Football nasce dunque nei college ma assume la fisionomia e le forme che oggi conosciamo proprio in un contesto militare, forme che rendono, non a caso, una partita di Football molto simile ad una battaglia, come possiamo leggere dalle parole dello storico della guerra John Keegan:
close-range almost to the point of intimacy, noisy, physically fatiguing, nervously exhausting and, in consequence of that psysical and nervous strain they imposed, narrowly compressed in time.
La passione dell’esercito per il football è contraccambiata da molti coaches , che sono spesso non a caso degli appassionati di storia militare. Ne è un perfetto esempio l’ex coach dei San Francisco 49ers Bill Walsh, che nel suo manuale per coach include citazioni del generale Patton, di Omar Bradley e di Sun Tzu.
Cercando di rispondere a R. Barthes quando si chiedeva, in Lo Sport e gli Uomini: “non si potrebbe stabilire un rapporto, un legame, tra l’apogeo di uno sport e la sua provenienza storica e sociale?”.
I periodi cosiddetti “aurei” del Football Americano e della sua popolarità sono contemporanei a periodi in cui gli U.S.A. sono impegnati in guerra. Il periodo autenticamente aureo per il Football Americano è stato quello della Guerra Fredda, durante cui la classe dirigente del paese era composta proprio dai reduci delle guerre mondiali. La grande popolarità del Football, insomma, tra gli anni ’60 e ’70, corrisponde al più lungo periodo in cui gli U.S.A. sono stati impegnati in un conflitto armato. Questi elementi sono confermati dagli studi di R. Sipes che dimostrano come la popolarità del Football negli U.S.A. aumenti in corrispondenza di periodi di guerra come la Seconda Guerra Mondiale, la guerra di Corea e quella del Vietnam.
È forse tendenzioso, ma di sicuro interessante notare anche come i presidenti maggiormente guerrafondai della storia degli U.S.A. siano stati grandi appassionati di Football. A partire da Richard Nixon, che poteva vantare tra i suoi migliori amici George Allen, allenatore dei Washington Redskins a cui chiedeva di provare specifiche tattiche di sua invenzione. Oltre che nella famosa “operation linebacker”, la passione di Nixon per il Football ha potuto trovare espressione nel suo nome in codice durante la campagna in Vietnam: Quarterback. Altri presidenti repubblicani come Gerald Ford e Ronald Reagan sono stati, all’università, giocatori di Football. Arrivando invece ai giorni nostri, il responsabile della sicurezza nazionale dell’ultimo governo repubblicano, Condoleeza Rice, ha dichiarato in un’intervista che, una volta terminati gli incarichi di governo, le sarebbe piaciuto diventare commissario della NFL (National Football Association). La Rice è “attracted to two fundamental similarities between football and warfare: the use of strategy and the goal of taking territory.”
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Un giovane Richard Nixon a calcare i campi[/caption]
5. No: Il Football non vi rende persone peggiori
Che cosa vogliamo dire con questo? Saremmo pazzi naturalmente a voler sostenere che un appassionato di Football è un guerrafondaio, un violento, un sanguinario. Non vogliamo neanche sostenere che a chi piace il football piace automaticamente la guerra.
Vogliamo solo dire che valori come la conquista dello spazio, l’astuzia strategica, l’iper-specializzazione dei ruoli e la disciplina sono molto importanti per la cultura statunitense, e il football e la guerra sono due forme simboliche di messa in forma espressiva di questi valori. Solo che l’uno può essere infinitamente più divertente e meno dannoso dell’altro. Con questo lungo percorso speriamo di aver risposto almeno in parte alla questione del perché il football rimane poco esportabile in europa, e di aver dimostrato anche quanto lo sport non sia davvero solo sport, ma un’espressione culturale tout court, da guardare, se serve, con la serietà che gli appartiene.
Emanuele Atturo Semiologo scarso, fantasista discreto, ha giocato una vita a Tennis per potersi raccontare di un talento calcistico inespresso. Vive e studia a Bologna. Oltre a dirigere Crampi Sportivi collabora perAtlas Magazine, Nuovi Argomenti e Dude Magazine @Perelaa