The fall and rise of U.S. Latina, l’ultimo Chievo Verona

Crampi Sportivi
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8 min readJun 22, 2013
Latina calcio

Ponendo un’immagine apripista del genere, si potrebbe rischiare facilmente di cadere nella retorica bolsa e facilona. Se poi stai parlando della città più giovane d’Italia, capirai: quella viscida e inopportuna sequenza di otto lettere, che tanto amiamo e tanto facciamo fatica ad ammetterlo, si colora di toni ancor più grevi e inesorabilmente simbolo di un periodo nero, in tutti i sensi — pur filologicamente mal ricostruito, malissimo: la storia pontina NON nasce qui.

Fatte queste premesse, tornerei per un attimo al titolo, cercando di rimettere ordine in un percorso tortuoso e frastagliato. Cadere e rialzarsi: immagini di stampo boxistico che negli ultimi anni sono più appannaggio di un sedicenne in piena tempesta ormonale intento a rifarsi una vita, ormai distrutta, con l’aiuto di Facebook, muscoli e una spruzzata di Vin Diesel che non guasta mai.

Questo è ciò che accade nell’esistenza pura e possibile; poi esiste un universo parallelo, decisamente più falso, ipocrita, chiamato calcio. Soldi, macchine, festini con Briatore, fregna come se piovesse: Bengodi non è mai stato tanto reale. Soprattutto non può essere reale aggiungendo un “te” al mitico paese della cuccagna: perché tra Bengodi e il Bentegodi, l’impianto sportivo che ospita le due maggiori formazioni veronesi, esiste un abisso.

Un abisso, in parte, anche di valori: Chievo ed Hellas sono forse le uniche due realtà calcistiche di medio — alta importanza a rappresentare ancora un manicheismo perduto e grossomodo ben identificabile, pur tra mille contraddizioni; e non è che i giocatori delle due formazioni rappresentino il non plus ultra del mondo calcistico. Però da lì, circa dodici anni fa, è nato un fenomeno degno di una favola dei fratelli Grimm: il miracolo Chievo, che ha dato vita ad una progenie di società in grado di sognare a grandi livelli.

Il momento storicamente importantissimo del miracolo Chievo è questo: aver reagito al nulla della vita e dei luoghi comuni calcistici con una determinazione e un entusiasmo vergini; un american dream, ma concreto. Così concreto da far commuovere, mosso da umana pietas, anche chi calcisticamente si situa — per amor di maglia, non certo per millantato stile — dalla parte di una superpotenza, come il sottoscritto.

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Chievo Verona

Chievo Verona e Pandorosità[/caption]

I clivensi dimostrarono di non essere bravi solo a fare i pandori o a distribuire guide turistiche recanti la dicitura “Come and see where Romeo and Juliet struggled for their love!”; essi fondarono il precedente, dimostrando che non fu culo storico.

Così arriviamo all’ultimo di tutti gli outsider: il Latina. Società fondata nell’immediato dopoguerra, nel 1945, il Latina Calcio è vissuto, per molti decenni, a metà tra l’anonimato e la squadra famosa per aver lanciato Alessandro “Spillo” Altobelli — sulla cui carriera da calciatore poco ci sarebbe da dibattere, a differenza della sua attuale mansione: l’opinionista. Pur rappresentando il polo calcistico di riferimento nell’Agro Pontino, la squadra nerazzurra — azzurra come er mare, nera come er… (cit. inventata ma plausibile) — ha sempre sofferto lo storico duopolio di Roma e Lazio: ecco che allora si ricordano delle grandi annate nella vecchissima serie C (informazione di servizio: essa tornerà in vigore a partire dalla stagione 2014/2015) alternate a periodi di cecità estrema in Interreggionale. Così via fino alla stagione 2005/2006: Antonio Sciarretta, all’epoca presidente del Latina nonché proprietario della televisione “Tele Etere” e del quotidiano “Il Territorio”, dà il via ad una campagna acquisti fastosa con l’obiettivo di puntare in alto; tra i fiori all’occhiello di quel calciomercato, si segnalano Ghislain Akassou e il top player Edoardo “Ciccio” Artistico, ormai a fine carriera. Risultato? Come ogni monumentalismo di bassa qualità che si rispetti, il Latina si trova da subito invischiato nella lotta per non retrocedere in serie D, categoria in cui precipiterà inesorabilmente a fine anno; poi il baratro, diretta conseguenza di una gestione malsana e criminale: la società fallisce e per un anno sparisce ogni punto di riferimento calcistico di un certo peso in provincia. Per un latinense, oltre al danno la beffa: ecco cosa succedeva, in quel periodo, a pochi chilometri di distanza.

Sette anni dopo, 16 giugno 2013: finale playoff di Lega Pro Prima Divisione, girone B. Al “Domenico Francioni” di Latina, la squadra nerazzurra si gioca, per la prima volta nella sua storia, l’accesso in serie B, contro il ben più blasonato Pisa — in grado di eliminare i favoriti per la vittoria finale, il Perugia — ma forte dello 0–0 maturato in Toscana. Il triplete è dietro l’angolo, dopo la vittoria della Coppa Italia Lega Pro e dello scudetto Berretti (la categoria Primavera delle squadre che militano in Lega Pro ndr). Tiziano Ferro, Elena Santarelli, Antonio Pennacchi… forse la città di Latina rischia di spazzare via in un colpo solo tutto questo: per la prima volta dalla fondazione, si avverte qualcosa di molto vicino a quello che Jung definiva inconscio collettivo, con i pro e i contro che questa definizione porta con sé. Come tradizione italiana vuole, a farsi veicolo principale di questa attitudine è ancora una volta il calcio, contenitore sociale sin dalle premesse: e non scopriamo certo adesso che gran parte del successo di questo meraviglioso sport sia dovuto in buona percentuale anche a questo. Cosa è successo, allora, in tutti questi anni?

Come un’araba fenice le cui piume sono banconote, il Latina Calcio è rifondato, ricostruito: riparte dal campionato Promozione senza tradire la storia di provincia che l’aveva accompagnata per sessant’anni; le maglie rimangono nerazzurre, il simbolo è ancora il leone alato di San Marco, patrono della città, l’impianto sportivo casalingo è ancora il “Domenico Francioni”. Inizia dal recupero della vecchia narrazione quella che diventerà una favola che lambisce l’impossibile: in sette anni, il Latina vince cinque campionati, tre anni fa viene ripescato in Lega Pro Seconda Divisione, due anni fa vince il proprio girone ed è promosso, lo scorso anno mantiene la Prima Divisione nei playout contro la Triestina. L’epopea latinense potrebbe finire già qui, e avrebbe comunque toni più che mai mistici. Invece no: si decide di investire seriamente, senza le operazioni scellerate e criminali che caratterizzarono il periodo più nero della società; ecco Fabio Pecchia in panchina, vecchia gloria di Juventus e Napoli: “l’avvocato” assembla una squadra composta da giocatori affamati (Barraco, Agodirin, Bindi, tutta gente che ha vissuto una vita nella vecchia C1 e cerca il salto di qualità), giovani e importanti promesse (Burrai, Bruscagin, Tortolano, Jefferson: provenienti, rispettivamente, da Cagliari, Milan, Roma e Fiorentina) e vecchi leoni pronti a dare il proprio contributo con il loro bagaglio d’esperienza e ignoranza, che in un campionato difficilissimo come quello della Lega Pro non guasta mai (Cottafava, De Giosa, Cejas, a cui si aggiungerà in inverno Danilevicius).

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L’avvocato Pecchia[/caption]

La squadra, con grossa sorpresa di tutti gli addetti ai lavori e forse anche degli stessi tifosi, domina il campionato per lunghi tratti: Perugia, Benevento, Pisa, Nocerina, gli acerrimi nemici del Frosinone e il favoritissimo Avellino fanno fatica ad arginare l’arioso ma solido calcio della compagine del tecnico di Formia; un 4–3–3 equilibrato, efficace e persino divertente: Pecchia ha evoluto il calcio di Zeman laddove questi aveva deciso che i moduli e le tattiche avevano ormai detto tutto nell’anno domini 1999. Il calo, messo in preventivo, arriva tra fine febbraio e marzo: il Latina non vince per cinque partite di fila e perde di vista le primissime posizioni, ma arriva in finale di Coppa Italia contro il Viareggio (trofeo che poi vincerà); la dirigenza decide che non è abbastanza, e sembra compiersi quello che il sottoscritto definì, illo tempore, un suicidio. Via Pecchia: al suo posto viene richiamato, per l’ennesima volta, colui che è considerato un autentico guru del calcio a Latina, Stefano Sanderra; «San Derra», come lo chiamano da alcuni giorni, è il corrispettivo latinense del Lippi juventino, del Sacchi milanista: fautore delle tante promozioni della squadra negli anni della rinascita, è ora chiamato al compito più importante, quello di recuperare posizioni per agguantare almeno i playoff, visto che nel frattempo l’Avellino ha deciso di giocare a calcio, ammazzando il campionato.

Il resto è storia. Il Latina elimina la Nocerina in semifinale, e incontra il Pisa in finale. 0–0 all’Arena Garibaldi, risultato di platino in vista del ritorno, considerando che i nerazzurri sono imbattuti al “Francioni”; clima torrido, tensione a mille, stadio esaurito, telecamere Rai e persino il simpatico Gaby Mudingayi come vip in tribuna: la sensazione di essere arrivati lì dove non era neanche lontanamente pronosticabile pochi anni prima è forte; così come il gol, dopo 19', di Barberis per gli ospiti, sembra quasi dire: “ok, avete sognato, bravi, ma noi siamo più esperti e a salire saremo noi”. Se possibile, questo non fa altro che aumentare i toni epici del match: quelli del Latina paiono assatanati e non ci stanno a fare ancora la parte dei verginelli ingenui. Tirano fuori tutto, vincono 3–1 dopo i tempi supplementari: Jefferson, Cejas e Burrai gli eroi di un pomeriggio storico. A più di cinquecento chilometri di distanza, il Carpi vinceva la finale del girone A contro il quotatissimo Lecce: anche per loro prima volta in B, dopo averla sfiorata in altre due occasioni. Miracoli come se piovesse.

Chi scrive non è mai stato un tifoso del Latina, né è stato mosso da un campanilismo che pure ha colpito molti latinensi saliti sul carro del vincitore appena le domeniche di serie A si facevano più noiose: chi scrive si è appassionato, con gli anni, ad un progetto oculato e serio, che poco ha da invidiare, tolta la pecunia, a quelli mediaticamente ben più sbandierati — e spesso fallimentari — della serie A. Un calcio tra i denti, inoltre, a chi crede che il tifo a livelli malati — nel bene e nel male — possa essere possibile solo in squadre militanti nella massima serie: vedere per credere.

A Latina si è assistito al miracolo sportivo, in tempi in cui questi neanche si vedono col binocolo; ed è forse proprio questo il potere concettualmente dirompente del calcio: reagire al vuoto con entusiasmo e stoicismo ancestrali. Oltre ogni colore: ‘sti cazzi allora se Latina è fascio forever e i latinensi delle macchiette prive di ogni ilarità; esiste il calcio a rappresentare ancora un attimo di vera poesia. Unisce in maniera tremendamente imperfetta e a volte discutibile, ma lo fa.

Il Latina Calcio ha rappresentato l’ennesima declinazione calcistica di questo concetto romantico: e già ne sento la nostalgia, tutto sommato.

Guglielmo Bin

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