The rise and fall of Rudi Garcia (and the secondi posti from Mars)
Un terzo anno sbagliato che non sarebbe dovuto nemmeno cominciare. Dal vertice societario di questa estate a Londra senza la sua presenza, alla querelle sul preparatore atletico imposto direttamente dal Presidente Pallotta, era chiaro a molti come il Garcia 3.0 fosse un allenatore volutamente confinato alle questioni di campo: tattica e risultati. Queste erano le richieste della dirigenza romanista. Queste sono state le cause del suo esonero. Le stesse cause che però lo hanno tenuto in sella fino a mercoledì scorso.
Quando la tattica e il gioco venivano a mancare erano i numeri e i risultati a venire in soccorso dell’allenatore di Nemours. Un girone di Champions chiuso con una sola vittoria, con la seconda peggior difesa di tutta la manifestazione è passato in secondo piano rispetto al raggiungimento del risultato richiesto: i primi ottavi di Champions League della proprietà americana. Anche in campionato prestazioni ai limiti del soporifero, debàcle inspiegabili contro avversari alla portata e vittorie buttate al vento negli ultimi minuti, non hanno avuto il peso che meritavano rispetto ai numeri che offriva la Serie A: ritmo scudetto basso, nessun vero padrone e dirette concorrenti sempre nel mirino. Alla fine però la misura è stata colma, anche per la dirigenza. I numeri e i risultati non sono più bastati a Garcia. La Roma presentava troppe lacune, figlie degli errori tattici del suo allenatore e l’esonero risultava essere il finale naturale del ciclo targato Garcia.
Il gioco
Una produzione diventata monotona, monotematica e prevedibile rispetto al gioco scintillante, veloce e concreto messo in mostra nel primo semestre giallorosso. La Roma era ormai capace di soffrire anche le piccole squadre, bastava un buon ritmo nel pressing ed una minima organizzazione difensiva per mandare in crisi il suo possesso palla e rendere ogni attacco una confusa e anarchica azione del singolo. Una lenta ma inesorabile parabola discendente iniziata probabilmente nel gennaio del 2014. Il primo Juventus-Roma dell’era Garcia. Quella di allora era una Roma che volava, una Roma che si sentiva pronta a confrontarsi alla pari con i bicampioni d’Italia. Forse però quella sfida creò la prima vera crepa nel gioco romanista. Conte si presentò con un atteggiamento difensivo e attendista che mandò in crisi tutte le certezze del gioco di Garcia, incapace di riadattare la squadra alla nuova situazione messa in campo dalla Juventus. Fu dominio bianconero: un 3–0 fatto di ripartenze e pressing asfissiante. Le parole di Conte, rilette oggi, fanno sorridere: “Che impressione mi ha fatto il suo calcio? Intanto io ho vinto due scudetti e due supercoppe. La Roma ha sicuramente un tasso qualitativo alto, ma diciamo che oggi un allenatore italiano è stato bravo a preparare la gara tatticamente”. Parole che, aggiunte all’ormai nota analisi del 2013 del giornalista Andrew Gibney, iniziano a far pensare che il gioco di Garcia dei primi sei mesi fosse “drogato” dall’effetto novità e che la realtà risieda nell’ultimo biennio, forse, superficialmente, definito “di crisi”.
Gli schemi su palla inattiva
Nel gioco di Rudi Garcia è sempre sembrato mancare uno straccio di schema su calcio da fermo. Lo schema “ci pensa Pjanic” non è assimilabile ad una situazione di gioco studiata in allenamento. L’emblema è stato il match perso a Genova con la Sampdoria: diciotto calci d’angolo battuti hanno portato ad una sola parata di Viviano. Il resto sono stati palloni calciati alla rinfusa e basici movimenti dei calciatori dentro l’area di rigore (tagli sui due pali o distacco dalla mischia), che hanno sempre portato ad una facile lettura della difesa blucerchiata. Per capire meglio questa casualità nello sviluppo della palla inattiva, prendiamo ad esempio una situazione concettualmente contraria: la punizione di Pjanic per il gol di Rudiger contro il Milan. Risulta palese come il gol arrivi solamente per una totale disattenzione della difesa del Milan, che inspiegabilmente perde tutte le marcature sui giocatori della Roma. Guardate i giocatori segnati con i numeri dall’uno al sei. Tutti corrono dritti verso la porta, senza blocchi, senza un movimento particolare, solo attratti dalla palla di Pjanic, che risulta sì telecomandata, ma non verso un compagno particolare ma semplicemente verso il centro dell’area di rigore.
Anarchia sulle ali, solitudine in attacco
Se il problema nella produzione di gioco è risultato strutturale, come parzialmente analizzato prima, l’altra grave lacuna tattica risiede nella totale dipendenza della proposta offensiva delle ali. Superata con difficoltà la mediana, i giallorossi evidenziano poche idee anche nelle azioni offensive. I movimenti senza palla sono ridotti all’osso e ogni giocatore pretende la palla sui piedi. Questo, inevitabilmente, porta a non liberare gli spazi e si traduce in un estenuante possesso palla per vie orizzontali. Se si accendono le ali, con la loro velocità ed imprevedibilità, la Roma può creare qualcosa di pericoloso. Se invece i gol giallorossi dipendessero esclusivamente dalla prolificità delle azioni manovrate, difficilmente li conteremmo con entrambe le mani. La cosa più grave è che l’acquisto di Dzeko sarebbe dovuto servire proprio per avere un’alternativa all’anarchia di Salah-Gervinho-Iturbe. O almeno avrebbe dovuto tramutare in gol le loro sgroppate solitarie. In realtà il bosniaco lo si è visto più come rifinitore per le ali che come finalizzatore delle ali. Pensare di far fare ad un giocatore alto oltre il metro e novanta, Totti, Higuain e Gattuso nella stessa partita è da visionari. Sperare che lui lo faccia, senza offrirgli nemmeno un gioco che ne valorizzi le caratteristiche migliori, è da folli.
La difesa
La difesa è passata da punto di forza del gioco di Garcia a primo grande responsabile del suo esonero. Senza Benatia, con Strootman assente da due anni e un Castan solo lontano parente di quello del 2013, l’alibi della fragilità difensiva causata dallo smembramento di un intero reparto potrebbe anche reggere. Ma tra la ricerca di un sostituto (Yanga-Mbiwa, Astori, Rudiger) e l’urgenza di dare alternative al gioco d’attacco, l’allenatore francese ha perso di vista la cosa più importante nel pacchetto arretrato: la solidità. Se da una parte i due nuovi terzini (Digne e Florenzi) hanno risolto il problema di ampiezza nel gioco di Garcia, offrendo velocità e qualità nelle proiezioni offensive, dall’altra, tutto il reparto ha perso chili e centimetri nella fase di non possesso. Allo stesso modo però questa perenne alternanza al centro della difesa non ha potuto creare quell’affiatamento e quell’intesa così fondamentali per i difensori centrali.
Il modulo
Ultima causa del fallimento è stata la fissazione del francese, al limite del morboso, per un solo modulo: il 4–3–3. Sia che avesse un reparto falcidiato dalle assenze, sia che gli mancassero gli interpreti giusti per un determinato ruolo, Rudi Garcia non ha mai cambiato la disposizione in campo dei suoi giocatori. Le linee di pensiero su questo argomento sono due. La prima sostiene che un allenatore debba avere un modulo di riferimento, con una disposizione in campo nella quale credere ciecamente. Una linea di pensiero molto ideologica che porta come bandiere i vari Zeman, Guardiola e Sacchi. Di contro c’è il pensiero di chi ritiene fondamentale che un allenatore debba adattarsi al modulo più congeniale al materiale umano posseduto in squadra. Simbolo di quest’altra corrente è Carlo Ancelotti, capace di schierare in campo qualsiasi formazione, rendendola comunque competitiva e vincente. Garcia è riuscito a metterli d’accordo entrambi, facendo giocar male la Roma utilizzando il proprio modulo e non provando a cercarne di alternativi.
Ci sarebbero da sviscerare anche altre concause che hanno portato a questo fallimento. Partendo da tutta la parte psicologico-comunicativa che è stato il vero marchio di fabbrica del trienno “garciano”. Terminando con la particolare idiosincrasia per tutti i giovani calciatori passati da Trigoria, tranne Verde, Sadiq e Soleri, gli unici, guarda caso, non imposti da terzi, in prima squadra.
articolo a cura di Marco Juric