To America With Love

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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10 min readNov 4, 2015

Se si guarda la storia dell’umanità nell’ultimo secolo, non si può negare che gli americani abbiano giocato un ruolo fondamentale, nel bene e nel male. Sempre al centro dell’attenzione, con quella superiorità che loro si sentono addosso e che a volte le vicende del mondo ha dimostrato.

Non si parla più degli stessi Stati Uniti d’America, ovviamente. L’entrata nel XXI secolo ne ha ridotto parzialmente il potere, ne ha cambiato leggermente l’immagine e l’american way of life sembra un attimo in crisi. E questo non vale solo in geopolitica o nell’industria, ma persino nello sport.

Da che sono sempre stati “nazionalisti” e attaccati ai loro sport, ora l’America si è aperta a qualcosa di diverso. La Major League Soccer ha fatto registrare un’impennata d’attenzione (nonché di spettatori) e gli ultimi vent’anni hanno dimostrato agli americani che, sì, forse il calcio può esser uno sport passabile. Basta pensare alla partecipazione popolare per l’USMNT tra il Mondiale 2014 e la Gold Cup 2015.

Ma c’è un ambito europeo che ancora non riesce ad affascinare gli americani: la Formula 1. Tanto amata in Europa e forse in Sudamerica, ma negli Stati Uniti no. Eppure il circus bazzica da quelle parti da decenni, senza però esser mai riuscito a entrare nei cuori degli americani. E qui entra in gioco il 2016, forse l’anno decisivo per capire se quest’amore potrà mai sbocciare.

Nel suo universo di contraddizioni e problemi, la Formula 1 si prepara a riabbracciare gli Stati Uniti. In pista e fuori, con le macchine e con i circuiti. Ma non si può capire il futuro se non si inquadra il passato.

Tom Cruise che testa un Red Bull è quello che NON deve accadere.

Un amore mai nato

Se chiedete agli americani cosa pensano quando si parla loro di macchine, non c’è dubbio che vi citeranno la 500 Miglia di Indianapolis o la emozionante (almeno per loro) Nascar. Già il Super Bowl è uber alles, figuriamoci se la Formula 1 abbia mai lontanamente attraversato le menti e soprattutto i cuori degli appassionati negli States.

Un esempio concreto di quest’immaginario sui motori lo si vede da un evento apparentemente secondario: basta guardare “Cars”, lungometraggio animato della Pixar che ha già avuto un secondo episodio e si prepara a un terzo (ma ce n’era bisogno?). Il protagonista è Lightning McQueen, una macchina talentuosa che partecipa a un’imitazione del campionato Nascar.

Quando la realtà supera l’immaginazione.

La Formula 1 è rappresentata nel primo film solo dal meccanico Guido, fanatico della Ferrari e da una comparsata di Micheal Schumacher nel finale. Nel secondo, dove ci troviamo in una sorta di ibrido tra James Bond e un Mondiale itinerante, la Formula 1 c’è, ma è contorno.

Lewis Hamilton fa Lewis Hamilton, per cui è una macchina super-accessoriata presente ai party più in. Jeff Gorvette prende la voce di Alonso in Spagna e di Vettel in Germania, ma c’è anche una macchina da F1 come protagonista. Tale Francesco Bernoulli, macchina colorata con il tricolore e cresciuta vicino l’Autodromo di Monza. Nessun tratto eroico o particolarmente simpatico.

E c’è la voce di Alessandro Siani. Perché? Dov’è Gianfranco Fisichella quando serve? Per altro, non ricalca per nulla gli stereotipi italiani…

Once upon a time

Questa grande distanza tra F1 e il mondo americano delle corse è stata anche superata da qualcuno. Per esempio Mario Andretti, che ha corso in tutte le categorie possibili e immaginabili, tra cui anche la 24 ore di Le Mans. Lui è stato anche iridato in F1 nel 1978 con la Lotus-Ford. Molti potrebbero però puntare sul fatto che Andretti è per metà italiano e quindi la passione per la Formula 1 sia normale.

In effetti, la Formula 1 è stata negli Stati Uniti molte volte. Il problema è che non ha mai avuto una casa fissa: i GP si sono corsi al Glen Watkins, a Long Beach, a Phoenix e a Detroit. Persino a Dallas (una sola volta) e al Caesar’s Palace di Las Vegas (due edizioni). Negli ultimi dieci anni, la Formula 1 si è spostata anche altrove, ma di questo parleremo più avanti.

Pare l’Indy Car, ma è Formula 1.

Se la Formula 1 non se ne è mai andata dalle piste statunitensi, con i piloti è andata molto peggio. Se togliamo Mario Andretti, il panorama è desolante ed è andato peggiorando con l’avvicinarsi ai giorni nostri. Eppure non sono stati pochi i piloti americani ad aver partecipato ad almeno una gara di F1: ben 152!

Anche per le statistiche l’importanza degli USA nella storia della Formula 1 è imprescindibile: in almeno 45 delle 66 stagioni di questa categoria c’è stato almeno un pilota a stelle e strisce in griglia, mentre gli statunitensi hanno messo insieme 915 GP disputati, 33 vittorie e due titoli Mondiali. Tutte statistiche che mettono gli USA nella top-10 delle nazioni che hanno fatto la storia della F1.

Il problema, però, è che quei dati vincenti risalgono soprattutto a due piloti: il già citato Mario Andretti e Phil Hill, campione nel 1961 con la Ferrari. Anzi, il titolo di quest’ultimo vale di più agli occhi degli americani, perché Andretti era nato a Montona (Istria italiana nel 1940), mentre Hill senior è di Miami ed è stato un signore sempre amato in tutto il paese. Forse non tanto per i suoi numerosi titoli, seppur potrebbe fregiarsi anche di tre vittorie nella 24 ore di Le Mans.

Più che altro perché si è dimostrato sempre un realista. Dopo l’incidente che tolse la vita al suo compagno di squadra e rivale Wolfgang von Trips, Hill avrebbe potuto festeggiare il titolo nell’ultimo round a Glen Watkins, sulla pista di casa. Invece lui si fermò per il 1961 e l’anno successivo disse: «Non ho più quella spinta, quella fame che serve. Non sono più disposto a rischiare di morire per vincere».

Dagli anni ’70 in poi, gli USA hanno cominciato a contare sempre meno nelle gerarchie della F1, incapaci di fornire nuovi protagonisti. Eppure di esperimenti ce ne sono stati tanti: dal figlio di Mario Andretti, Michael, a Eddie Cheever, nove podi in dieci anni di F1. Da Mark Donohue a Peter Revson, entrambi morti in due incidenti di pista rispettivamente a Graz e Kyalami.

L’ultimo americano a partecipare a un Mondiale di F1 per molto tempo è stato Scott Speed, che onestamente non ha lasciato quasi nessuna traccia. Per due anni in forza alla neonata Toro Rosso, Speed — strano caso di nomen omen al contrario — verrà cacciato per far spazio a un tedeschino niente male: Sebastian Vettel.

Va detto che in Nascar non se l’è cavata meglio e anche in Formula E è durato appena quattro gare. Del suo anno e mezzo in Formula 1 rimarranno una multa da 5000 dollari per aver “apostrofato” Coulthard dopo la sua gara d’esordio, zero punti, l’aver fatto incazzare Raikkonen.

…e questa perla.

A distanza di otto anni, un pilota americano è tornato in pista grazie ad Alexander Rossi, tesserato dalla Manor dopo diversi anni da collaudatore tra Catheram e Marussia. Attualmente è anche secondo in GP2. Purtroppo, anche Speed era arrivato terzo in quella categoria nel 2005. Il mistero sui piloti americani rimane.

IndyGate

Al di là di circuiti e piloti, l’amore mai nato tra gli americani e la Formula 1 passa necessariamente da un episodio fondamentale: la gara del 2005 a Indianapolis. Chiamarla “gara” è un complimento, ma è un pezzo di storia che gli americani non hanno mai mandato giù.

Indianapolis è uno storico circuito per gli USA. Anzi, il più storico, visto che ospita la 500 Miglia e la IndyCar, eventi sacri per gli americani. Tuttavia, Bernie Ecclestone avrebbe voluto una Formula 1 seguita anche negli Stati Uniti: così nel 1998 si trova l’accordo per tornare negli States dopo sette anni, proprio a Indianapolis.

Il circuito viene persino modificato per adattarlo alle Formula 1 (no, non si può correre in tondo per 80 giri). Le prime due edizioni del GP sono un successo: basti pensare che nel 2001, a due settimane dall’attentato alle Torri Gemelle, Indianapolis fa registrare un’affluenza di ben 185mila spettatori.

Una Minardi che supera il campione del Mondo. Ci volevano gli Stati Uniti per il cliffhanger.

Sono gli anni di Juan Pablo Montoya, del dominio Ferrari, di una Formula 1 che si sta espandendo sempre più. Ma le controversie sono dietro l’angolo. La prima capita nel 2002, quando di fronte a un pubblico sbigottito Schumacher — già campione del mondo — fa passare Barrichello sul traguardo. Appena 11 i millesimi di differenza.

Nel 2004, ben due cedimenti delle Michelin causano incidenti pericolosi per Alonso e Ralf Schumacher. L’anno dopo, è sempre Schumacher jr. a subire un brutto incidente nelle libere del venerdì, ancora una volta a causa dei pneumatici Michelin. È solo il preludio al più strano GP della storia.

Le regole impongono l’obbligo di usare la stessa mescola per tutto il weekend di gara. Dopo l’incidente di Ralf Schumacher, in Michelin capiscono che quella gomma non potrà reggere più di un giro il curva numero 13, quella che porta al rettilineo del traguardo. La FIA prova a raggiungere un compromesso con la casa francese, senza però riuscirci.

Sotto gli occhi di molti americani sbigottiti (e abituati ad altri rischi), tutte le vetture equipaggiate con le gomme Michelin imboccano la corsia dei box dopo il giro di formazione. Tanti i fischi dalle tribune, ma per la gara in pista rimangono le macchine con l’altra gomma, la Bridgestone: le Ferrari, le Jordan e le Minardi.

Una corsa senza storia, con le due Ferrari sempre davanti, con il rischio persino di tamponarsi dopo il secondo pit stop di Schumacher. La Michelin offrirà ben 20mila biglietti per il GP dell’anno successivo, un tentativo di risarcimento mai veramente apprezzato dagli americani. I due della Rossa neanche esultano sul podio, mentre Monteiro della Jordan è terzo e felice.

Primo podio in carriera; primo podio di un portoghese in Formula 1; ultimo podio della Jordan. Ci credo che Monteiro festeggia.

Ci saranno altre due edizioni del GP d’Indianapolis, ma ormai qualcosa si è rotto. Non basta un emozionante duello tra Hamilton e Alonso nel 2007 per far riappassionare la gente del Midwest. Nel 2010, consci del danno fatto, la Formula 1 annuncia che dal 2002 si sposterà ad Austin: per ora in Texas tutto bene e tanto pubblico al Circuit of the Americas.

Gene Haas in missione per conto di Bernie

In una stagione che avrà pochi cambiamenti nelle caselle dei piloti, il ritorno di un team americano è certamente la novità più grande. L’Haas F1-Team entra in F1 dal 2016 e sarà un ritorno col botto. Dietro c’è un’attenta programmazione, che prevede un motore Ferrari e una collaborazione che porterà soldi (60 milioni di euro) e molta attenzione al Cavallino sul mercato statunitense.

A spingere per questo ritorno è stato Gene Haas, già uomo importante nell’ambiente Nascar per il suo team, l’Haas CNC Racing. Con la sua Haas Automation, l’americano si è fatto un nome nel settore automobilistico e ha deciso che è ora di portare questo prestigio a stelle e strisce anche nel mondo della Formula 1.

La FIA e Bernie Ecclestone, dopo essersi trasferiti ad Austin per correre, non attendevano altro che qualche eroe dagli States pronto a lanciarsi nuovamente in F1. Si sperava che il loro debutto arrivasse già nel 2015, ma alla fine è stato posticipato di un anno. Meglio così: giusto in tempo per assicurarsi le strutture della defunta Marussia.

La squadra si dividerà tra la sede americana di Kannapolis, North Carolina e quella inglese di Banbury. Sarà la prima squadra targata USA in F1 dopo l’addio proprio della Haas-Lola, che corse nel biennio 1985–86, e la prima proposta (accettata) dopo il tentativo di iscrizione dell’US F1 Team, respinto nel 2010.

Le cose procedono al meglio, anche perché non c’è solo l’ambizione, ma anche un materiale umano e tecnico con il quale lavorare al meglio. Prima l’Haas si è garantita Gunther Steiner come team principal (già in passato in F1 con Jaguar e Red Bull), poi ha messo le mani su Romain Grosjean, che si è liberato dalla Lotus dopo quattro stagioni trascorse a Enstone.

Molti vedono l’arrivo del francese come l’anticamera del suo passaggio in Ferrari nel 2017 al posto di Raikkonen, ma la verità è che gli americani hanno messo sotto contratto uno dei piloti che sta vivendo il miglior momento di forma della sua carriera.

Anzi, forse il francese è stato uno dei più positivi in questo 2015, visto anche il podio conquistato a Spa. Con l’arrivo di Esteban Gutiérrez dalla Ferrari, annunciato giusto l’altro giorno (non a caso alla vigilia del GP del Messico), la line-up della Haas per il 2016 ha alle spalle un totale complessivo di sei stagioni e mezza di F1. Insomma, tutto tranne che inesperti.

Per altro, Haas è stato chiaro sulle prospettive della squadra nella sua prima annata: «L’obiettivo è confrontarsi con i migliori». Se pensate che in griglia ci saranno la Manor, la McLaren ancora alle prese con il motore Honda, la Sauber e la Red Bull indecisa sul da farsi, le prospettive non sono poi così brutte.

New Jersey dreamin’

Se ad Austin le cose vanno bene, Ecclestone non vuole comunque accontentarsi. E così ha realizzato uno dei suoi tanti sogni. No, non stiamo parlando del malaugurato GP di Azerbaigian (beffardamente rinominato GP d’Europa, svalutando la geografia) o dei suoi commenti sul fatto che la democrazia sia sopravvalutata. Parliamo del GP d’America, che il buon Bernie vorrebbe realizzare nel New Jersey.

Ci ritroveremmo con un altro circuito cittadino, che però ha tutto per riscuotere i pareri positivi di critica, pubblico e piloti. Prima di correre la gara d’esordio ad Austin, Sebastian Vettel ha girato in New Jersey nel 2012 ed è rimasto entusiasta: «Questo posto è eccezionale: non c’è paragone con il resto del mondo. Questa sarà una corsa che ogni pilota vorrà vincere».

Alla fine c’è scritto “2013 GP d’America”: in realtà ancora si deve correre in New Jersey.

Nonostante siano stati garantiti tutti i permessi del caso e la voglia matta di Ecclestone di conquistarsi anche l’America bene, la corsa sul fiume Hudson non s’ha da fare. Molto probabilmente neanche il 2016 vedrà in calendario la corsa: si spera che il 2017 sia l’anno buono per iniziare questa nuova tradizione.

L’America si sta riaffacciando nuovamente al mondo della Formula 1. Ma sarà la volta buona o il Titanic di qualunque speranza di successo?

Articolo a cura di Gabriele Anello

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