Tour de France 2013: Il dominio di Chris Froome, il Keniano bianco
Questo articolo è già uscito per il Dude Magazine, Illustrazione di Andrea Chronopoulos di Studio Pilar
Tutti lo davano come il favorito numero uno, nessuno però poteva immaginare come e con quanta facilità Chris Froome potesse conquistare la centesima edizione del Tour De France. Un keniano bianco, nato a Nairobi, cresciuto in Sud Africa e naturalizzato britannico. Il capitano della Sky ha dettato legge sin dall’inizio.
Qualsiasi avversario che ha incontrato lungo le ventuno tappe della grand boucle è caduto sotto i colpi di azioni spettacolari, ai limiti dell’umano, che hanno portato in più occasioni (e non senza sospetti) a chiedersi quale sia stata l’arma segreta in grado di flagellare i suoi avversari.
Dopo appena una settimana con il primo arrivo in salita ad Ax 3 Domaines, Froome ha conquistata la maglia gialla serrandola con lucchetti in acciaio puro. Nessuno è più riuscito a trovare le chiavi adatte per aprire il forziere del capitano della Sky e togliere dalle sue mani quello scettro giallo che ha saputo difendere senza timore.
Nemmeno la cronometro di Mont Saint Michel è riuscita a cambiare le cose, anzi: proprio in quell’occasione, in quella corsa disperata contro il tempo, Alberto Contador — l’unico vero avversario in grado di respingere le sue offensive — ha iniziato a cedere. Il corridore madrileno ha avuto il merito di essere stato l’unico a movimentare una corsa già chiusa dopo sette giorni attraverso attacchi disperati ma commoventi, accompagnato da due uniche certezze: le gambe ma soprattutto il cuore.
Come nella battaglia di Termopoli, tra i Persiani guidati dall’esercito imponente di Serse e i trecento soldati di Leonida re di Sparta; Alberto Contador, consapevole dei propri limiti, ha tentato il tutto per tutto: attaccando in salita, tirando la squadra in pianura e rischiando in discesa. Ma, a differenza della gloria di quei soldati di antica memoria, ha dovuto inchinarsi al vincitore e tornare a casa da sconfitto.
La vera scossa al Tour De France avviene però lungo l’ascesa finale verso il Mont Ventoux.
Bisognerebbe rileggere i versi del Petrarca per capire che quelle salite, quei tornanti, sono in grado di dischiudere nuove realtà, nuovi spazi di una fenomenologia umana che si apre gradualmente a dimensioni superiori.
Fu in questa salita che nel 1967 Tommy Simpson in una giornata eccezionalmente calda fu stroncato da un infarto che lo lasciò a terra inerme insieme alla sua bici, circondato dal pubblico sotto shock.
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Monumento a Tommy Simpson[/caption]
L’autopsia sul corpo il giorno dopo stabilì che le cause della morte erano dovute ad un mix fatale tra alcol e anfetamine, assunte per migliorare le proprie prestazioni. Fu di fatto uno dei primi casi certificati di doping che cambiò negli anni successivi le regole e inasprì i controlli.
Quasi come uno scherzo del destino o come un ponte invisibile gettato tra due epoche diverse, ma in fin dei conti accomunate dagli stessi problemi, anche l’ascesa sul Ventoux — quarantasei anni dopo la morte di Simpson — ha alimentato un’infinità di sospetti che hanno avvolto come un’ombra il prosieguo della corsa.
Negli ultimi cinque km verso il traguardo, Chris Froome compie qualcosa che forse non ha precedenti, qualcosa di mai visto, un’azione quasi sconosciuta per i semplici esseri umani.
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In pochi secondi uno scatto improvviso lascia sul posto Alberto Contador, il quale prova a rispondere andando però fuori giri in un attimo. Una frequenza di pedalate impressionante che arriva a sfiorare le centoventi al minuto, gli dei del ciclismo scendono dal cielo sollevando in aria il capitano della Sky e trasformando la sua bici nel motore di una Ferrari impazzita.
Froome sembra andare in discesa mentre tutti gli altri si arrampicano a fatica, per un attimo quasi ci si dimentica di essere sul Mont Ventoux, una delle più terribili salite del Tour: 1598 metri di dislivelli ripartiti in quasi ventuno km di ascesa con pendenze medie negli ultimi km che si aggirano tra il 9 e l’11%.
Un salita epica, resa famosa da un vento impetuoso che non lascia mai tregua ai corridori, costretti a raddoppiare la fatica. Sullo sfondo un paesaggio unico, avvolto in un deserto di pietre e rocce che lo rende più simile ad un satellite lunare che ha una montagna vera e propria.
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La Luna (o il Ventoso)[/caption]
Come un alieno proveniente da orbite galattiche distanti anni luce, Chris Froome ha imposto la propria legge, nessuno è più riuscito a seguirlo: nemmeno Nairo Quintana, il colombiano della Movistar, scalatore puro, addestrato sin da bambino ad arrampicarsi sulle alture andine.
Il giorno dopo cambia la storia del Tour.
Quelli che erano sospetti iniziano a diventare accuse a viso aperto, tra i social network, tra diversi quotidiani sportivi e tra quel pubblico troppo spesso tradito, si inizia a fare strada il sospetto che le prestazioni di Froome non siano del tutto naturali. Nella conferenza stampa del giorno dopo il suo nome viene di fatto accostato a quello che oggi per il ciclismo è l’innominabile per eccellenza: Lance Armstrong.
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Lance facce un saluto[/caption]
Affrontare il tema doping e ciclismo sarebbe utile a sfatare molti luoghi comuni e approfondire alcuni aspetti poco noti ma sarebbe una parentesi troppo lunga da aprire in questo momento. Ci limitiamo qui ad un’unica considerazione: Chris Froome non è mai stato trovato positivo ad alcun controllo antidoping; anzi, il giorno dopo il team manager della Sky Dave Brailsford ha reso disponibili i dati sulle prestazioni del proprio corridore per essere approfonditi dagli esperti e dalla comunità scientifica, chiamando in causa la stessa Wada (world anti doping agency) alla collaborazione. Un segnale di trasparenza impensabile fino a qualche anno prima.
Molti potrebbero sostenere che neanche Armstrong è stato mai trovato positivo ai controlli antidoping nei sette Tour vinti e successivamente revocati. Ed è proprio partendo da questa considerazione che possiamo percorrere due vie separate e inconciliabili tra loro: da una parte considerare le prestazioni della maglia gialla come frutto di un doping accurato, innovativo e in grado di sfuggire ad ogni tipo di controllo; d’altra parte invece possiamo dare fiducia, o quantomeno attenerci all’evidenza che ogni accusa diretta o indiretta verso Froome è unicamente il frutto di una passione tradita, di un’era che ha lasciato aperte ferite troppo fresche e profonde per essere rimarginate del tutto. Noi scegliamo la seconda via, forse quella più difficile da percorrere, forse la più ingenua: consapevoli però che la cosiddetta “cultura del sospetto” non giova a nessuno, né a chi legittimamente richiede chiarezza e trasparenza, né a chi ha deciso, nonostante tutto, di crederci ancora, di dare fiducia ad uno sport dove gli intoccabili non esistono, dove si è deciso di fermarsi e affrontare il problema.
Alimentare sospetti continui porta solo a creare confusione, a generare quell’insieme di luoghi comuni che troppo spesso riempiono la bocca di chi al massimo ha visto un paio di gare durante tutta la sua vita. Questo ovviamente non significa che bisogna chiudere gli occhi e fare finta di nulla, ma accusare un corridore in modo esplicito e senza una stralcio di prove in una conferenza stampa internazionale; associare il suonome alle recenti vicende che hanno coinvolto Tyson Gay e Asafa Powell, i due campioni dell’atletica, (quelli sì casi che non lasciano spazio ad interpretazioni) è una strada sbagliata e soprattutto pericolosa.
Chris Froome ha dimostrato di essere il padrone assoluto della corsa e nemmeno la doppia scalata sull ’Alpe D’Huez è riuscita a scalfire il suo dominio nonostante una crisi di fame che negli ultimi km lo ha lasciato senza riserve rendendolo più umano di quanto non sembri.
Quello che per il calcio è il Maracanà di Rio de Janero, per la Formula Uno le pericolose curve di Montecarlo e per il tennis i prati curati di Wimbledon, per il ciclismo è l’Alpe D’Huez.
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L’attesa sull’Alpe D’Huez[/caption]
In Francia la chiamano semplicemente l’Alpe: ventuno tornanti ricolmi di storia, di imprese e tragedie sportive. Uno stadio a cielo aperto in grado di ospitare migliaia di appassionati provenienti da ogni parte del mondo (soprattutto la quantità di olandesi è impressionante).
Ogni comunità, tra tende e camper, alloggia ai margini del proprio tornante, quello italiano è il numero sette, dedicato a Fausto Coppi il primo a vincere qui nel 1952.
Bandiere di ogni luogo, persone, odori e suoni diversi accomunati da un unico motivo: condividere una passione, incitare i corridori, essere semplicemente li.
Moreno Moser, nipote del campione Francesco, regala un sogno all’Italia: scollina in testa al primo passaggio, cede però nella seconda parte, salendo comunque sul podio della tappa regina del Tour.
I Francesi non smentiscono la loro acredine verso gli italiani e decidono di staccare la telecamera che lo segue e ignorandolo per tutti gli ultimi dieci km, nonostante il prestigioso piazzamento.
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Campi Elisi vestiti a festa[/caption]
Dopo una giornata relativamente tranquilla si arriva all’ultima salita del Tour. L’ascesa finale verso Annecy Semnoz, accompagnata dalla solita incredibile cornice di pubblico, emette la sentenza finale: Alberto Contador rimane attardato e viene scaraventato giù dal podio dal forcing di un ritrovato Joaquim Rodriguez e di un splendido Nairo Quintana, che in dieci km conquista la tappa, la maglia a pois e la seconda posizione della classifica generale. Sentiremo parecchio parlare di lui nei prossimi anni.
Il Tour De France finisce con l’arrivo serale sugli Champs-Élysées Per celebrare il centenario della grande boucle una Parigi notturna e illuminata a festa non poteva che essere l’epilogo migliore.
Andrea Minciaroni studia discipline etno-antropologiche presso La Sapienza di Roma. Segue il ciclismo, il calcio e qualsiasi altro sport se accompagnato da un divano comodo, un televisore full hd e una birra ghiacciata. Sogna un italiano in maglia gialla e una città senza più automobili.