Tra Futbol Club Barcelona e indipendentismo catalano

Crampi Sportivi
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12 min readNov 19, 2014

Il 9 novembre si è tenuto in Catalunya un referendum popolare per stabilire se i catalani volessero l’indipendenza dallo Stato Spagnolo o meno.

Numerose polemiche hanno accompagnato questo referendum, così come hanno accompagnato i precedenti. Non è infatti detto che quanto emergerà dal risultato del referendum in Catalunya verrà preso in considerazione dal governo di Madrid. Neppure la leggitimità dell’atto referendario è certa, tanto che il quotidiano spagnolo El País si è chiesto se fosse legale utilizzare gli spazi pubblici per la consulta.

Queste polemiche, però, non ci importano: ciò che ci interessa è analizzare e capire la posizione di una delle società sportive più note e vincenti del mondo che partecipa a uno dei più ricchi campionati di calcio.

Questo perchè, come scrisse il giornalista Santiago Ramonet:

El fútbol no es solamente un juego; constituye un echo social total, ya que analizando todos sus componentes — lúdicos, sociales, económicos, políticos, culturales, tecnológicos — se puede descifrar mejor a nuestras sociedades contemporáneas, identificar mejor los valores fundamentales, las contradicciones que conforman nuestro mundo. Y comprenderlo mejor.

Vien da sè che il campionato in questione sia La Liga e la società il Futbal Club Barcelona.

Un po’ di storia

Il Fútbol Club Barcelona è nato sul finire del XIX Secolo, nel 1899, anni in cui il calcio è andato sviluppandosi oltre i confini della nazione che gli ha dato i natali, l’Inghilterra, ed è stato fondato per iniziativa di Hans Gamper, uno svizzero che viveva nella città di Barcelona, che ha riunito attorno a sé un gruppo di inglesi e catalani e ha formato la prima squadra. I colori sociali del club, blu e rosso granata, furono scelti da Gamper per richiamare i colori del Basilea, squadra di calcio svizzera dove aveva militato prima di trasferirsi in Catalogna.

Fin dalla nascita, dunque, il FC Barcelona si presenta come un elemento esterno della cultura spagnola e catalana. Uno sport nuovo, giovane, impiantato da stranieri, appassionati, in una realtà diversa.

Hans Gamper.

È interessante notare come l’altra squadra della città di Barcelona, il Reial Club Deportivo Espanyol de Barcelona (fondato col nome Sociedad Española de Football nel 1900) nasca proprio come reazione alle compagini calcistiche formate da stranieri, in prevalenza inglesi, tedeschi e svizzeri, che si andavano creando in quel periodo.

Se i due club nascono con queste direzioni ben definite — di stampo locale il RCD Espanyol e globale il FC Barcelona — , nel primo ventennio del Novecento il Barcelona si integra nella vita culturale e politica della Catalogna che di sua natura, popolo di mercanti e navigatori, gradisce le aperture verso l’esterno. Il club apoggerà in quegli anni gli ambienti più attivi della vita politica catalana, che già portavano avanti istanze autonomiste. Nel 1924 la rivista sportiva Xut scriveva:

“El glorioso FC Barcelona de esta época es francamente exótico. A lo largo de los años se catalanizó, y veninticinco años de constancia le han permitido comprar al pueblo” (1).

Se il FC Barcelona, squadra di stranieri, si integra nella vita sociale e politica della città, di fatto trasformandosi nel simbolo della Catalogna, il RCD Espanyol — club di autoctoni — rappresenterà in quegli stessi anni l’anti-catalanismo. Negli anni del governo di Primo Rivera, il club calcistico del Barcelona si era convertito in una delle poche possibilità consentite, all’interno del contesto sociale di repressione determinato dalla dittatura, per esprimere un sentimento maggioritario di protesta e di disaccordo.

Durante le manifestazioni politiche la Senyera, la bandiera catalana, viene sostituita dalla bandiera del FC Barcelona: una protesta simbolica. I valori dell’identità nazionale catalana vengono investiti sui colori di un club sportivo, di giovane fondazione e di background esterno, straniero. La bandiera di un gruppo sociale all’interno di una singola città, per quanto la più importante della regione, diviene espressione dei valori e delle istanze autonomiste di una porzione di territorio che ha bisogno di sentirsi rappresentata. I valori messi in campo dal gioco calcio, collettività e identità, si integrano totalmente quindi con le esigenze e i valori della società in cui si andava sviluppando.

Alla fine della guerra civile del 1936–39, con la sconfitta della República, si apre un periodo di crisi identitaria del FC Barcelona. Proprio per il valore simbolico che era riuscito a incarnare, il club viene sottoposto a una de-catalanizzazione. Il nome viene cambiato in Club de Fútbol Barcelona e il consiglio di amministrazione è deciso dal governo centrale del nuovo regime franchista.

La privazione di quell’identità catalana — che era divenuta tratto distintivo del FC Barcelona — e la persecuzione di qualsiasi forma di catalanismo durante quarant’anni di dittatura franchista determinano, per inverso, una proiezione ancora maggiore del sentimento nazionalista catalano sul club calcistico. Non era consentito in nessun luogo radunare migliaia di persone attorno a un’idea di autonomia catalana, ma questo fenomeno era possibile solo nello stadio del FC Barcelona. Dunque è ancora l’istituzione sportiva venuta dall’esterno che si fa carico dei valori, delle ambizioni e delle pulsioni politiche di una massa sociale che ha bisogno di fare gruppo, collettività, attorno a un’idea identitaria contraria a quella dominante.

L’opposizione interna alla città di Barcelona tra RCD Espanyol e FC Barcelona si mantiene durante gli anni dell’emigrazione interna alla Spagna degli anni ’60-’70, dove i lavoratori spagnoli immigrati in Catalogna — non integrandosi nell’identità catalana locale — si trovano rappresentati dal club con istanze meno localiste (RCD Espanyol, non integrato localmente) rispetto al FC Barcelona (rappresentazione ormai non solo di un gruppo locale cittadino, ma emblema di una nazione senza stato).

Lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, figlio di lavoratori della Galizia andati a cercare fortuna in Catalogna, scrive:

El Barça fue el símbolo de la posición politica de la burguesía nacional y de la pequeña burguesía catalana hasta la guerra civil; después, fue la única forma de expresión elíptica de un conjunto de sentimientos. La prueba principal de esta afirmación reside en el echo de que los inmigrantes integrados son seguidores del Barça, los no integrados, del Español” (2).

Al suo interno il FC Barcelona, come la Catalogna, riesce a unire istanze di apertura verso l’esterno — sport straniero, club fondato da stranieri, tifosi non locali che accettano i valori del club; nazione priva di stato che accetta cittadini di ogni luogo che ne abbracciano gli ideali autonomisti e anti-centralisti — pur mantenendo l’opposizione netta verso il centralismo politico spagnolo, rappresentato da Madrid e dal club calcistico principale della capitale, il Real Madrid.

Questa presa di posizione ideologica del club e della Catalogna rimangono ancora attuali, nonostante la caduta sul finire degli anni ’70 del regime franchista. Pur partecipando alla lega calcistica spagnola, della quale negli ultimi anni è risultato il club più forte, il FC Barcelona mantiene la sua forte opposizione verso la capitale e la sua squadra. La sfida calcistica più importante, sia come valori calcistici e sportivi che come valori politici, è infatti il Clasico, la sfida tra FC Barcelona e Real Madrid.

El Clásico.

FC Barcelona e Real Madrid sono le due società calcistiche più importanti e più vincenti della Spagna e rappresentano, per certi versi, due realtà antitetiche. Il Real Madrid è il simbolo del potere centrale, l’hispanicità; il Barcelona rappresenta gli impulsi autonomisti delle periferie dello Stato, l’indipendentismo, e ciò gli permette di riscuotere simpatia anche presso altre realtà locali con le stesse ambizioni di autonomia.

In Spagna sono più di una le zone che, politicamente, cercano di liberarsi dalla monarchia parlamentare: oltre la Catalogna propriamente detta e i cosidetti paisos catalanes — che comprendono anche la comunità valenciana e le Isole Baleari — ci sono anche le isole Canarie e soprattutto i paesi Baschi, che comprendono le regioni del nord della Spagna, famosi per gli atti di violenza commessa in nome dell’indipendenza. La Catalogna, dal canto suo, dopo la guerra civile non è ricordata per atti di questo genere; il dissenso veniva espresso all’interno del campo da calcio.

Oltre all’opposizione autonomia/centralismo tra i due club, essi rappresentano due realtà antitetiche: il popolo del Real Madrid — giocatori e tifosi detti Blancos per i colori della loro maglia e bandiera — sono detti anche Galacticos, galattici, per la linea societaria che tende a comprare sempre i giocatori più in vista all’interno del mercato calcistico globale. In maniera opposta, il FC Barcelona tende a sostenere una politica societaria che punta a valorizzare i “giovani di casa propria”. Una sorta di autarchia che nasce nella masía, il settore giovanile della squadra dove giovani calciatori convivono, studiano e si allenano con la stessa impostazione dei ragazzi più grandi, seguendo lo stesso modello della prima squadra. Giovanissimi calciatori catalani in prevalenza, ma non solo.

Masìa, come significato della parola, sta a indicare un casolare di campagna, tipico della Catalogna e simbolo della semplicità rurale.

Nelle strategie di mercato e nelle scelte tecniche riguardo chi debba guidare la prima squadra del FC Barcelona, questa tendenza a guardare chi è cresciuto nella realtà locale catalana (della masía) o chi per attitudine può abbracciare il progetto viene mantenuta. Numerosi ex giocatori vengono reintegrati nello staff tecnico come allenatori, vice-allenatori, osservatori o ruoli di appoggio e anche giocatori che, dopo esser passati per le giovanili del club, hanno fatto esperienza in altre società, spesso vengono reintegrati.

È il caso di Pep Guardiola, del defunto Tito Vilanova e del più recente Luis Enrique, divenuti allenatori del FC Barcelona dopo aver militato come giocatori nelle loro fila. O il caso di Piquè e Fabregas, due giocatori che son stati “riportati” a casa a suon di milioni dopo esser stati ingaggiati da club stranieri. E non è una tendenza recente, anzi.

Emblematico è il caso di Johan Cruijff, uno dei giocatori più forti della storia del calcio. Esponente del total football olandese, negli anni ’70 è arrivato in Catalogna, che come abbiamo già visto ha nella sua natura l’apertura verso l’esterno, assieme a un gruppo di olandesi. Con il Barcelona vince da giocatore, ritorna da allenatore a fine anni ’80 (vincendo) e viene nominato Presidente Onorario del Club. Crujiff ha chiamato suo figlio Jordi, come il Santo patrono della Catalogna.

La famiglia, la collettività, la coesione attorno a un’identità blaugrana di contro a una compagine forte e assortita di Galacticos che hanno come tratto comune l’essere eccellenti e voler vincere, ma non un progetto di gruppo e di vincere assieme.

Il passaggio di un giocatore da un club all’altro — fatto che sarebbe normale nelle logiche del mercato calcistico, all’interno di questa sfida tra culture opposte, quella dei Galacticos e quella del Barcelona — è un atto denso di significato.

Per le questioni che abbiamo visto in precedenza, non è pensabile che il FC Barcelona accetti tra le sue file un giocatore con dei trascorsi nel Real Madrid (a meno che non ci sia stato per poco e da giovanissimo, dunque come corpo estraneo a quello della Galassia Madrid, come nel caso di Samuel Eto’o). Invece, è capitato che giocatori del Barcelona siano passati alla squadra rivale.

Emblematico è il caso di Luis Figo, giocatore lusitano che ha militato per un lustro nelle file blaugrana (‘95–2000) e passato poi agli eterni rivali del Real Madrid. I tifosi della sua ex squadra hanno ricevuto questo trasferimento come un tradimento; tradimento della bandiera, della filosofia, dell’appartenenza e della cultura del FC Barcelona.

Per Luis Figo, che da sempre si era definito un professionista del calcio, era un trasferimento lavorativo; per i suoi vecchi tifosi no. Era una colpa irrecuperabile tanto che, durante un Clasico, hanno lanciato in direzione del loro ex beniamino una testa di maiale, fresco di decapitazione.

La tifoseria del Barcelona vede il Clasico come rappresentazione della guerra: la vittoria contro il Real Madrid è come dimostrare la loro potenza, aprire una possibilità identitaria indipendente. E se un giocatore/soldato passa all’altro schieramento, è un disertore e un vile traditore e perde qualsiasi tipo di rispetto, perché il Barcelona non è solo un club sportivo, è més que un club.

Dal calcio alla politica: il caso di Joan Laporta

Joan Laporta è stato presidente eletto del FC Barcelona dal 2003 al 2010, vincendo in sette anni 12 trofei tra nazionali e internazionali con la sezione calcistica e altri 42 tra pallacanestro, pallamano e hockey su rotelle: il presidente più vincente del club più forte del mondo. Ho detto “presidente eletto” perché il FC Barcelona è composto da una assemblea di soci che ogni quattro anni elegge il presidente, a seguito di una campagna elettorale all’interno della quale gli acquisti e i programmi sportivi assumono già un valore programmatico e di caratura politica. Solo posteriormente alla guerra civile, dal 1939 al 1953, il presidente era scelto dalle autorità governative.

Nel 2010 Joan Laporta ha lasciato la direzione della società sportiva per lanciarsi nella carriera politica tra le file del partito recentemente formato Solidaritat Catalana per la Independència, venendo eletto all’interno del Parlamento Catalano.

16 anni dopo il caso italiano e ben noto di Silvio Berlusconi, passato dall’imprenditoria e dalla presidenza di un club sportivo alla politica, in Catalogna avviene un processo molto simile con Laporta. Le premesse sono differenti: Berlusconi era il padrone del Milan, mentre Laporta non era il proprietario del club, bensì un rappresentante eletto dal popolo dei soci. Il primo ha utilizzato le vittorie della società per dare mostra di sé come uomo dalle scelte giuste, vincenti (Io sono il Milan); il secondo — utilizzando i valori del club, di identità e collettività, che lui incarnava in quanto presidente del club — ha portato in alto all’interno di un ambito sociale prettamente politico, traslandoli dall’ambito culturale di appartenenza (Noi, collettivo identitario, vinciamo).

Riporto una interessante intervista rilasciata dall’ancora presidente del Barcelona Joan Laporta a un’emittente francese nel marzo 2010, qualche mese prima di intraprendere la carriera politica:

“Il Barcelona è la miglior rappresentazione del catalanismo nel mondo. Noi diciamo més que un club perchè è l’espressione della nostra cultura. Il Barcelona ha come missione quella di rappresentare la catalanità nel mondo. Il Barcelona è globale, anche se di origine catalana. Oggi si è spagnolo, europeo, africano, americano.. però siccome la naziona catalana non ha Stato, nè squadra nazionale per competere internazionalmente, il Barcelona compie questa funzione. Quella di essere un simbolo. Il Barcelona, durante tutta la sua storia ha contribuito alla difesa dei diritti e delle libertà della Catalunya. Per me il Barcelona è un club catalano. Credo sia una verità, un fatto, perchè il FC Barcelona è nato in Catalunya e sempre è stato un simbolo della Catalunya. Per questo il Barcelona è catalano. La questione è che la Catalunya non ha uno stato, e la nazione catalana, al momento, si trova nello Stato Spagnolo. Quindi ci considerano una squadra spagnola. Però, in realtà, il Barcelona è una squadra catalana.”

Alla successiva domanda dell’intervistatore riguardo la possibilità, in caso di indipendenza, per il Barcelona di partecipare a una lega calcistica catalana, Joan Laporta risponde così: “Vedremo, vedremo. Ci sono molti esempi di squadre che giocano in leghe condivise con altri stati”.

La prima parte dell’intervista che ho riportato mostra chiaramente il tentativo di traslare dal campo calcistico a quello politico gli ideali del club, affidandogli un valore storico di lotta politica e il ruolo di ambasciatore dell’identità catalana nel mondo, non di identità di club sportiva. La seconda parte dell’intervista è, a mio avviso, la più interessante: se da un lato il Barcelona, dalle parole del suo presidente, è completamente aperto all’indipendentismo, dall’altro rimarca la necessità di partecipare a qualcosa che sia altro rispetto alla semplice lega calcistica di un’ipotetica Catalogna indipendente.

Perché questo? Perché il FC Barcelona, come ogni cultura, ha bisogno del suo antagonista culturale per vivere. Nel caso di un universo di valori condiviso da tutti, quello che si prospetta in uno Stato Indipendente Catalano, e dove come abbiamo visto il Barcelona si presenta come simbolo di quegli stessi valori, l’esistenza del club blaugrana cadrebbe dalle fondamenta, perderebbe il suo ruolo di incanalatore di valori collettivi e identitari.

E caduti ormai i valori identitari che la vogliono simbolo della Catalogna, non potrebbe che diventare qualcosa di radicalmente differente da sé. Per il FC Barcelona è necessaria la presenza del suo Antagonista, il Real Madrid.

1Il glorioso FC Barcelona di quest’epoca è francamente esotico. Durante gli anni si è catalanizzato, e venticinque anni di costanza gli hanno permesso di comprare il popolo.Xut 1922–1936, Ll. Sola (ed), Bruguera, Barcelona, 1971. Traduzione mia

2 “Il Barça è stato il simbolo della posizione politica della borghesia nazionale e della piccola borghesia catalana sino alla guerra civile; successivamente, è stata l’unica forma di espressione ellittica di un insieme di sentimenti. La prova principale di questa affermazione risiede nel fatto che gli immigrati integrati sono tifosi del Barça, quelli non integrati, dell’Espanyol” Manuel Vázquez Montalbán in Fútbol y pasiones politicas, a cura di Santiago Segurola, pag. 174. Traduzione mia.

Articolo a cura di Emmanuel Cossu

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