Un ottimo lavoro

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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10 min readSep 9, 2015

Il mondiale tedesco è alle porte quando un giornalista svedese, nel disperato tentativo di ottenere da Lars Lagerbäck qualcosa di minimamente interessante da mandare in stampa, chiede insistentemente al selezionatore della nazionale scandinava di sbottonarsi, di dire finalmente qualcosa di personale, di confessare qualcosa di suo che gli svedesi ancora non sanno.

“Ecco, sì. Stiamo per cambiare marca di automobili in Federazione”, risponde lui guardandosi gli occhiali. “Tra poche settimane avremo tutti una Nissan. Non penso che molte persone lo sappiano.”

Nessuno ha mai scoperto se il mister stesse scherzando o meno, quel giorno, se stesse prendendo in giro il giornalista recitando la parte di se stesso davanti ai microfoni o se invece, all’interno suo personalissimo mondo traboccante di minimalismo, ritenesse davvero rilevante la notizia del passaggio alla Nissan. Lars Lagerbäck, detto Lasse, è un uomo che ridefinisce la locuzione “basso profilo”. La sua condizione di understatement perenne lo induce a declinare ogni tipo di aggettivo che odori anche lontanamente di incenso: dice spesso di non provare orgoglio per quanto ottenuto in carriera, semplicemente perché il termine orgoglio è troppo pretenzioso per i suoi gusti.

Hammar e Wikingsson, conduttori di un famoso show satirico svedese, lo hanno eletto tempo fa uomo più noioso di Svezia, e lui non ha fatto una piega. Anzi, prima di ogni conferenza stampa, Lasse ha cominciato ad avvertire la platea con un sorriso appena accennato, e mai troppo convinto: “Non aspettatevi granché da me, sono pur sempre l’uomo più noioso di Svezia.”

The English way

Eppure, alla fine degli anni ’70, sulla panchina del Kilafors (quarta divisione svedese), il giovane Lasse doveva essere tutt’altro che noioso.I suoi giocatori dell’epoca lo definiscono “calmo, ma non quando si giocava. Si sbracciava di continuo, urlava, protestava contro le decisioni arbitrali.”

La realtà è che Lars Lagerbäck, a quel tempo, era un fondamentalista. Quel gioco che aveva provato a praticare senza troppo successo, lo aveva sedotto già da diversi anni. Ai tempi della scuola, Lars organizzava partite e stimolava, curioso, la discussione calcistica con gli amici.

In un’epoca di ideologizzazione totale, anche le posizioni teoriche sul mondo del calcio non potevano essere concilianti. Lui si era innamorato follemente del grande Malmö di Bob Houghton che stravinceva in Svezia e metteva paura alle grandi d’Europa, e decise che sarebbe stato il suo modello di riferimento. In effetti il 4–4–2 tutto pressing di Houghton (che poi sarebbe stato anche la tattica-base del suo successore Hodgson) stava rivoluzionando il calcio scandinavo — tradizionalmente legato alla scuola tedesca — attraverso un modulo innovativo, la difesa a zona, metodi di allenamento mai visti.

Bob Houghton alla guida del Malmö negli anni ‘70.

Nel dibattito intorno alla strada che avrebbe dovuto intraprendere il calcio svedese per tornare ai fasti degli anni ’50, quando quelli della sua generazione avevano 10 anni e tifavano per Gren e Hamrin nella finale dei Mondiali, Lasse stava convintamente dalla parte degli inglesi. La storia gli avrebbe dato ragione: qualche anno dopo, a riprova dell’insolubile legame anglo-svedese, Sven Goran Eriksson, un suo coetaneo, sarebbe diventato allenatore dei maestri britannici.

Dopo un breve peregrinare su panchine di serie minori, nel 1990 Lasse diventa collaboratore federale e coordinatore delle nazionali giovanili. Tra le decine ragazzini che seleziona, ce n’è uno in particolare che lo colpisce per capacità di corsa e intelligenza tattica: si chiama Fredrik Ljungberg, e sarà per anni un pilastro della sua Svezia. Meglio: della Svezia di Lars Lagerbäck e di Tommy Soderberg.

The Swedish way

Il duo si compone nell’estate del 1998, quando Soderberg sceglie Lagerbäck come suo assistente sulla panchina della nazionale maggiore. Due anni dopo, Lasse viene promosso co-allenatore, e per quattro anni la Svezia del calcio è nelle mani dell’insolito sodalizio. “Non ho nessun problema a condividere il ruolo”, dice subito Lars. “A me non serve il titolo di numero 1.”

Se Lagerbäck è la mente, fredda e tattica, Soderberg è il cuore e l’anima. I calciatori lo adorano. Johan Mjallby definisce Baloo (questo il soprannome di Tommy) “un motivatore fantastico, capace di creare un’atmosfera incredibile nella squadra”.

Dopo il disastroso Europeo del 2000, con l’eliminazione nella fase a gironi, la Svezia cambia marcia. Ai Mondiali successivi, in Giappone e Corea, i gialloblù, con in squadra gente come Ljungberg, Larsson, Daniel Andersson e un giovanissimo Zlatan Ibrahimovic, riescono addirittura a vincere quello che era stato definito il girone della morte, comprendente Argentina, Inghilterra e Nigeria.

Agli ottavi di finale la Svezia incrocia il Senegal. Gli scandinavi soffrono terribilmente e, a metà del secondo tempo, la televisione intercetta un memorabile scambio di battute tra i due co-tecnici:

“Tommy, non è che dovremmo togliere Allback?”
“Sento che se lo facessimo, lo distruggeremmo.”
“Ma noi abbiamo bisogno di tenere di più il possesso palla, e di far salire un po’ la squadra…”
“Sto solo dicendo (mettendosi la mano sul cuore) che il fatto che lui stia passando un brutto momento mi rende molto triste.”
“Ok.”

Il Senegal supera il turno grazie al golden goal di Henri Camara e i due vengono messi inevitabilmente sotto accusa dalla stampa svedese, che ne chiede le dimissioni. Confermati dalla federazione, Lagerbäck e Soderberg guidano Larsson e compagni anche a Euro 2004, dove vengono eliminati ai quarti di finale dall’Olanda, dopo i calci di rigore.

In vista dei successivi mondiali di Germania, alcuni addetti ai lavori inseriscono la Svezia tra le candidate più autorevoli alla vittoria finale. Questa volta Lasse sarà l’unico allenatore in panchina, perché Tommy Soderberg nel frattempo ha deciso di defilarsi, dedicandosi esclusivamente all’Under 21 (che allena tuttora, a oltre 10 anni di distanza).

The Zlatan way

Per comprendere gli ultimi, complicati anni di Lars Lagerbäck sulla panchina della nazionale del suo paese, non si può prescindere dall’ingombrante sagoma di Zlatan Ibrahmovic.

Prima della rivelazione universale dell’estro del gigante di Malmo, infatti, Lasse aveva le idee molto chiare sul ruolo delle individualità all’interno della squadra: “Penso che gli svedesi soffrano nelle squadre di club perché non sono abbastanza egoisti. Gli svedesi, per natura, non vogliono emergere, né in allenamento né a parole. La maggioranza di essi vuole solo fare il proprio lavoro in pace.”

La maggioranza, appunto. Poi c’è Ibra. Nel 2006, dopo una notte di eccessi in città, Zlatan, insieme a Mellberg e Wilhelmsson, viene cacciato dal ritiro della nazionale. Secondo Lasse, la decisione più difficile della sua carriera da allenatore: “Ho cambiato idea più volte, a riguardo. In passato ero dell’opinione che tutti dovessero essere trattati allo stesso modo, ma negli anni ho capito che non può essere così.”

In uno spot incredibilmente sopra le righe per il suo personaggio, Lars Lagerbäck invita i suoi giocatori a scatenare l’inferno.

In molti attribuiscono le responsabilità del crollo verticale della nazionale all’incapacità di Ibra di essere decisivo nei contesti internazionali. Il peccato originale risalirebbe proprio alla gestione di Lagerbäck, colui che, in un’ideale scala di caratteri umani, si collocherebbe all’esatto opposto di Ibrahimovic.

Lasse, nonostante tutto, non è d’accordo: “La gente è convinta che lui possa segnare gol spettacolari ogni partita, ma il calcio non è così. Ibra è sottoposto da sempre a pressioni enormi, e questo lo ha fatto crescere tanto come calciatore e come uomo. Oggi posso dire che è una delle persone che rispetto di più in assoluto”.

Lasse viene esonerato dalla Federazione svedese a fine 2009, dopo dieci anni ininterrotti alla guida della nazionale e il record assoluto di 5 qualificazioni consecutive: la sua Svezia ha preso parte a tutti i tornei in programma in quegli anni. Al termine della conferenza stampa di addio dichiara: “Spero vi dimentichiate presto del recente fallimento. Io sono fiducioso, il mondo corre velocissimo, di questi tempi.”

Il mondo corre talmente veloce che passano solo pochissimi mesi prima che la Nigeria offra a Lasse la propria panchina, in vista della coppa del mondo sudafricana. Nonostante l’ultimo posto nel girone con Argentina, Grecia e Corea del Sud (complice questo errore di Yakubu), gli viene offerto un prolungamento del contratto. Lasse ringrazia e rinuncia: “Ho imparato molto nei mesi in Nigeria, ma le differenze con il calcio europeo sono enormi. I calciatori sono molto professionali in campo, ma estremamente diversi fuori. In più, sono terribilmente sensibili alle critiche, ed è controproducente rimproverare qualcuno davanti al resto della squadra”.

Quando, nell’ottobre del 2011, Lasse accetta l’incarico offertogli dalla KSI (la federazione calcistica islandese) forse non immagina che, a due passi dal Circolo Polare Artico, avrebbe trovato un’organizzazione calcistica non troppo dissimile, per approssimazione e dilettantismo, da quella di Abuja. Né può immaginare, il nostro, che quell’isola dell’Atlantico sarebbe in poco tempo diventata il teatro di un’impresa sportiva irripetibile, e la perfetta quadratura del cerchio della sua carriera.

The Arctic way

Da quando Arsenal e Liverpool, a metà degli anni ’60, volarono per brevi tournée a Reykjavik e dintorni, tra il popolo vichingo per eccellenza e il calcio inglese è sbocciato un amore tanto insolito quanto intenso.

Complice la brevissima durata della stagione calcistica islandese, inversamente proporzionale alla durata degli inverni, le trasmissioni televisive delle partite delle Premier League sono da sempre seguitissime tra i geyser. Nell’isola, tutti i club inglesi (anche Sunderland, WBA e Norwich) contano un buon numero di supporters. Di più: fuori da stadi come Anfield e Old Trafford, prima di una qualsiasi partita di campionato, non è affatto infrequente cogliere l’aspro accento della lingua islandese, parlata da appassionatissimi tifosi in trasferta.

Forse per via della comune passione per il football o forse — più probabilmente — grazie alla possibilità di poter lavorare con continuità, il taciturno guru svedese decide di trasferirsi a Reykjavik. Per la KSI, è una rivoluzione totale.

Freyr Alexandersson, selezionatore della nazionale femminile, spiega che “non solo Lasse è meticoloso nel lavoro con i calciatori, ma presta attenzione a ogni singolo membro dello staff, dal fisioterapista (che prima di ogni partita della nazionale si accerta della condizione dei calciatori andandoli a visitare presso le rispettive squadre di club) fino al magazziniere. Poi, non ho mai visto così tanti meeting: durano dai 30 ai 40 minuti, e al termine ciascun membro della squadra è più sereno, perché sa che non può accadere nulla che lo trovi impreparato.”

Il lavoro quotidiano di Lagerbäck contribuisce a rimuovere definitivamente l’alone di dilettantismo che circonda la nazionale islandese (che fino a pochi anni prima era vista dai calciatori come poco più che una pausa-relax durante la stagione), e si inserisce all’interno di un processo di modernizzazione calcistica che a Reykjavik dura ormai da diversi anni, e che è partito dalle strutture di allenamento e dalla formazione degli allenatori.

Oggi sono circa 150 i campi di calcio sintetici islandesi e ce n’è uno indoor (fondamentale per non sospendere le attività in inverno) ogni 15.000 abitanti. In Norvegia, paese paragonabile all’Islanda per clima e tradizione sportiva, ce n’è uno ogni 224.000.

Nel 2014 si sono tenuti in Islanda 26 seminari per allenatori: la percentuale di tecnici con il patentino UEFA A è di gran lunga la più alta dell’intera area scandinava.

Ai “vicini” norvegesi e svedesi che si chiedono come mai gli islandesi siano improvvisamente diventati bravi col pallone e abbiano iniziato a produrre calciatori di qualità in gran numero, quasi come fossero diventati una succursale di Spagna, Germania o Belgio, Alexandersson risponde così: “Negli altri paesi i club più piccoli non investono direttamente nei settori giovanili; gli unici soldi che investono sono quelli generati dai settori giovanili stessi. Qui è diverso.”

Ma c’è dell’altro. Quando gli osservatori stranieri contattano le squadre di Reykjavik e dintorni, prima di chiedere quali giocatori siano tecnicamente più dotati, chiedono quali giocatori abbiano la mentalità islandese.

Viðar Halldorsson, sociologo dello sport, sostiene che “la gente islandese è mossa da motivazioni più intrinseche che estrinseche. Significa che, per loro, lo sport ha un grandissimo valore in sé, e questo incoraggia il divertimento e l’unità della squadra. Non sono qualità che si acquisiscono, o ce le hai dentro o non ce le hai.”

La generazione d’oro del calcio d’Islanda, formata da calciatori nati tra il 1985 e il 1992 che oggi militano in gran parte in squadre straniere, di mentalità islandese ne ha da vendere, e l’ha messa a completa disposizione di Lasse Lagerbäck, l’uomo giusto al momento giusto.

Hannes Þór Halldórsson, portiere titolare dell’Islanda appena qualificatasi a Francia 2016 e calciatore professionista da tre sole stagioni, nel 2011 ha diretto il video di questa struggente canzone, presentata ufficialmente all’EuroSong Festival (occhio anche al primo commento sotto il video).

Gylfi Sigurðsson, considerato in patria la versione islandese di Tiger Woods, dice di non aver vissuto mai nulla di simile: “In ogni squadra c’è sempre qualcuno che ti irrita, ma qui siamo tutti grandi amici.” Il centrocampista dello Swansea è al centro del progetto tattico di Lagerbäck che, per consentirgli di muoversi liberamente dietro le punte, spesso e volentieri rinuncia al 4–4–2 e si affida a un 4–3–1–2 disegnato su misura per lui.

“Il calcio moderno è una questione di equilibrio e di realismo”, ha dichiarato Lasse pochi mesi fa, in vista della campagna di qualificazione a Francia 2016. “Se noi giochiamo contro la Spagna e pretendiamo di giocare come la Spagna, perdiamo. Dobbiamo fare le cose che sappiamo fare. Per fare bene nel calcio servono solo una buona organizzazione e una chiara idea di gioco.”

Dopo lo spareggio perso contro la Croazia prima del mondiale brasiliano, l’Islanda di Lars Lagerbäck (e di Heimir Hallgrímsson, co-allenatore e noto odontoiatra delle isole Vestmann) ha dominato il girone di qualificazione agli europei del prossimo anno e si è qualificata con due turni di anticipo. Ha scalato quasi 100 posizioni del ranking FIFA (oggi è 23a) e non ha intenzione di fermarsi.

Qualche sera fa, quando nello stadio Laugardalsvollur i calciatori islandesi si sono disposti al centro del campo per intonare un coro popolare di festa, Lars Lagerbäck ha preferito defilarsi. Sotto una pioggia battente che annunciava inequivocabile l’avvento del freddo autunno atlantico, il sessantasettenne Lasse si è chiuso un po’ di più la zip della giacca a vento e poi ha sollevato i pollici in direzione dei fotografi, in un gesto di giubilo contenuto, straordinariamente ordinario, un po’ com’è lui.

In sala stampa gli hanno chiesto cosa provasse ad essere uno degli allenatori più vincenti d’Europa, ma lui ha ringraziato i suoi collaboratori. Gli hanno ricordato che l’Islanda ha appena 329.000 abitanti, ma lui ha sottolineato che in 3.000 hanno seguito la squadra in Olanda. Gli hanno detto che è un eroe, ma lui ha detto che non è vero, Martin Luther King e Nelson Mandela sono degli eroi. Gli hanno detto di aver fatto un miracolo, ma lui ha ribattuto che è stato soltanto un ottimo lavoro.

Infine qualcuno gli ha detto che ora dovrebbe scrivere una bella biografia, e lui ha detto gentilmente di no.

“Ci sono delle cose che non voglio svelare, apparteranno per sempre al rapporto di fiducia tra me e i miei giocatori. E poi, per il resto, penso che ne verrebbe fuori un libro parecchio noioso.”

Secondo un recente sondaggio, il 93,8% dei tifosi svedesi rivorrebbe Lars Lagerbäck alla guida della nazionale del proprio paese.

Articolo a cura di Leonardo Piccione

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