Un ricordo di Wimbledon prima dell’età dell’oro

Crampi Sportivi
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6 min readJul 1, 2014
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Avere 9 anni in estate è molto semplice. Giochi, mangi e dormi. Oppure mangi, dormi e giochi. Non cambia molto nelle tue giornate, solo un progressivo intrattenimento che ti accompagna verso l’autunno e l’inizio della scuola. L’aspetto femminile non è ancora entrato nella tua vita e i problemi si limitano ai compiti di matematica che difficilmente svolgerai perché come ribadito in precedenza, mangi, giochi e dormi. Se la tua passione è il tennis, puoi comodamente guardarti il torneo più prestigioso al mondo, Wimbledon. È il 2001, Pete Sampras arriva dopo aver vinto le quattro precedenti edizioni da assoluto dominatore e re del torneo in cerca di conferme dopo una stagione fino a qui non brillantissima. Testa di serie numero 1, poiché nel torneo Inglese non viene tenuto conto del ranking offerto dall’ATP. Subito dietro ci sono Andre Agassi, Patrick Rafter (finalista nella passata edizione) i giovanissimi in ascesa Marat Safin e Lleyton Hewitt e l’eroe di casa, finalmente pronto al successo dopo quasi 70 anni di ricerca disperata da parte della Gran Bretagna, Tim Henman.

Spirito Wimbledon 3

La mattina sveglia presto, qualche tiro al campetto e poi pranzo abbondante prima di incollarsi davanti alla televisione con la coppia Clerici — Tommasi pronta a insegnare qualcosa di nuovo a tutto il mondo degli appassionati di tennis. A 9 anni è il momento didattico della tua stagione, non attendi altro che quel momento in cui i semplici giocatori diventano supereroi. Ed è così per l’Inglese Barry Cowan, uno che nella sua mediocre carriera arrivò come miglior ranking alla posizione numero 162 qualche settimana dopo quel torneo. Barry Cowan, era una delle wild card del torneo. Mancino, ottimo servizio e poi il nulla. Ma che sarebbe stata l’edizione delle wild card mancine con il servizio lo si intuì proprio dal match di secondo turno, quello fra Pete Sampras e Barry Cowan. I primi due set volano via in un amen. Il campo centrale assiste al solito trattore di Sampras capace di lasciare appena 4 game in poco più di 60 minuti alla vittima Inglese. Poi nel terzo set si arriva al tie-break, Sampras cede un servizio e manda uno dei suoi rovesci sotto la rete. Si entra nella quarta frazione con il primo break ceduto dal re con Cowan in stato di grazia. Servizio, ace o discesa a rete e punto. 2–6 / 2–6 / 7–6 / 6–4 ma il quinto set si gioca sul filo dei nervi. Sampras non si spezza, prende il servizio e trionfa 6–3, ma quanta fatica e che spettacolo.

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Nella parte alta si muovono bene in modo affidabile, Tim Henman, Marat Safin e il sorprendente Goran Ivanisevic. Uno che il meglio pare averlo già dato tanto che David Foster Wallace lo definì così: “Goran Ivanisevic è alto e abbronzato e sorprendentemente carino — almeno per un Croato; io i Croati me li immagino sempre devastati ed emotivamente compressi, come usciti da una litografia di Munch — se non fosse per un taglio di capelli a scodella incongruo e totalmente assurdo che lo fa assomigliare a un membro di una cover-band dei Beatles.” Nella parte bassa invece arrivano ai quarti di finale senza grosse paure, Andrè Agassi e Patrick Rafter, forse destinati a prendere il posto di un Pete Sampras in grandi difficoltà dopo i primi turni. Uno dei primi incontri degli ottavi di finale, vede un giovanissimo Svizzero chiamato Roger Federer affrontare Pete Sampras in un mitologico incontro terminato in 5 set, che vedrà il passaggio di testimone fra chi è stato Re e chi poi ha deciso di superarlo. Ai Quarti di finale, nonostante l’entusiasmo, il giovane Svizzero cede a un Tim Henman che finalmente, una volta abbattuto, vede la strada per la finale in discesa. Un paese intero, crede nel sogno mentre nell’altra semifinale Patrick Rafter la spunta su uno dei miei personali beniamini, Andrè Agassi. Un tipo che quando hai 9 anni, non possiede nulla di educativo. Mio padre per anni mi ha narrato dei suoi capelli, dei problemi personali e dello spettacolo generato dalla sua ascesa. Un punk in mezzo al mondo garbato del politicamente corretto. Una carriera passata a sfidarsi con Sampras e quasi sempre a perdere sui campi Inglesi.

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È molto caldo e questo lo ricordo bene. Avevo un cappellino bianco del centro sportivo con scritto “Go Tim Go!”; non era una gran bellezza ma simpatizzavo per l’Inglese. Mio nonno si addormenta quasi subito, mio padre sta lavorando e la nonna preparava una merenda afosa. Io ero lì, che mano a mano che la partita prendeva una piega di certo non sperata, mi entusiasmavo sempre di più per l’anima di Goran Ivanisevic che prima della partita dichiarò: “Il mio problema è che in ogni partita ho 5 avversari: l’arbitro, la folla, i raccattapalle, il campo e me stesso. Non c’è da meravigliarsi se a volte la mia mente vaga.” Ma oggi tutta la Gran Bretagna, nonostante il povero Tim Henman, eterno incompreso di fronte, non poteva che tifare per lo straniero partito da oltre la posizione numero 100 al mondo, ormai all’ultima curva della carriera con la spalla che a ogni servizio vincente usciva dal proprio corpo. Era diventata una questione di vita o di morte, giocata sull’entusiasmo e con la consapevolezza che uno stato di grazia tale non sarebbe mai più potuto capitare al Croato. Ivanisevic vinse con il pubblico in delirio, nonostante giocasse anche contro loro stessi. Una scena che ricorda il pittoresco Rocky con l’Unione Sovietica ma più spensierato e con molta meno morale. Ora c’è solo Patrick Rafter (che ha sconfitto Agassi in 5 lunghissimi set) a separare Ivanisevic da quel trionfo sfiorato nel 92 e nel 96 con due finali perse. Erano altri tempi pensavano in molti. Ivanisevic era acciaccato, mancava dal tennis che conta da circa tre anni, non avrebbe retto lo scontro contro un giocatore affidabile come l’Australiano Rafter. Entrambi non avevano mai vinto un torneo del grande Slam e questa cosa fece riflettere non solo i cronisti ma anche mia nonna “si vede che non sono mai stati all’altezza oppure non ne avevano voglia”. Cosa sapesse lei di tennis mi è sempre rimasta una materia oscura ma parzialmente non aveva torto. La finale dura 5 set e qualche giorno, il pubblico non ha dubbi su chi tifare. Piove, poi smette, diventa buio e ricomincia a piovere. Si arriva al quinto set ed è proprio qui che la profezia di mia nonna riscopre tratti emblematici. Uno non ha mai avuto voglia, l’altro non è mai stato all’altezza. Vince Ivanisevic, perché in quelle giornate sapeva di dover vincere, nonostante la spalla distrutta e i nemici della sua testa; mentre Rafter perse una delle ultime occasioni per restare inciso nella storia del tennis. Troppe le occasioni gettate. Goran vinse e dedicò la vittoria a quel Dražen Petrović, cestista e suo grande amico scomparso in un incidente stradale nel 1993.

Wimbledon

Una volta tornato in patria, a Spalato ci furono 150.000 persone pronte a festeggiarlo. Questo il finale perfetto per due settimane che troppe volte ci sono sembrate scontate per via della contemporanea età dell’oro del tennis, ma in fondo, a un bambino di 9 anni come a un uomo di 50 anni, questo non interessa. Wimbledon è molto più di un teatro dei sogni, è il vero motivo per cui persino le casalinghe di una certa età vittime delle televendite si sentono in dovere di appassionarsi laddove un mancino con la wild card è stato capace di farle innamorare (ma non ditelo a mio nonno che sta ancora dormendo).

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Teo Filippo Cremonini nato a Bologna il 30.11.91 quando fuori pioveva. Cresce, gioca a tennis giornate intere, fonda il Collettivo HMCF scrive in giro per il web di musica e urban culture, poi si laurea e dorme.

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