Uomo di ferro

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
11 min readOct 23, 2016

Jack Gladney ha paura di morire. Murray J. Siskind lo comprende, non lo può biasimare. Sono due accademici, in una lunga camminata a mezzogiorno. Personaggi protagonisti di un racconto, pubblicato nell’agosto del 1984 su Vanity Fair, partoriti dalla penna di Don DeLillo che però non ha mai conosciuto Alessandro Zanardi.

Jack, insieme alla sua famiglia, ha dovuto evacuare la sua abitazione a causa di una nube tossica sprigionatasi in seguito alla rottura di un serbatoio contenente materiali chimici, di cui ancora non si conoscono precisamente le ripercussioni sugli esseri umani. I due professori universitari s’incontrano ai margini del campus dopo il seminario di Murrey sugli incidenti d’auto (coincidenze?). La loro deambulazione si rivela un intenso scambio di convinzioni, paure, consigli tutti finalizzati alla risoluzione di un unico e irrisolto quesito: come si può vivere la vita quotidiana domando la paura di morire?

Tra le varie affermazioni e labirintici ragionamenti, ne emerge uno particolarmente vicino al personaggio che da qui a poco andremo a descrivere: la tecnologia. Fabio Vittorini, nel libro narrativa USA 1984–2014, analizza tale passaggio di DeLillo con queste parole:

Come la funzione procreativa (…), la morte e perfino la realtà, sono “innaturali” cioè contrarie alla natura del soggetto, mosso da un onnipotente, irrinunciabile principio di piacere. La sua sopravvivenza è possibile solo grazie alla rimozione, al compromesso, al camuffamento. La tecnologia è un’appendice di quel linguaggio, uno strumento di rimozione”.

La storia è piena zeppa d’invenzioni che hanno permesso all’uomo di allungare la propria vita e la tecnologia è solo l’ultima di uno di questi indefiniti prolungamenti verso la sopravvivenza, quindi di protesi verso l’immortalità.

Zanardi è l’uomo del paradosso. L’uomo dalle protesi che più si è avvicinato alla morte. E quei “prolungamenti” ne sono la prova tangibile. L’uomo che al risveglio dal coma non ha pensato “adesso come farò a vivere senza gambe” ma “come farò a fare tutte le cose che vorrò fare anche senza le gambe”.

Ah, per inciso, il racconto pubblicato da DeLillo è diventato, l’anno dopo, il trentasettesimo capitolo di Rumore Bianco (White noise), capolavoro letterario dello scrittore americano. Sapete come venne intitolato l’estratto lanciato su Vanity Fair? Walkman, che in italiano vuol dire “l’uomo che cammina”.

Gli inizi

Il cordolo bianco e rosso scorreva lento, curva dopo curva. Quel giorno l’ha capito. Quel 2 agosto 1980, il giorno della strage di Bologna, si trovava su una pista di kart, a Vado. Era la sua prima gara a bordo di quel trabiccolo che papà Dino, che di mestiere faceva l’idraulico, aveva messo a punto per lui. Lo capì quel giorno, probabilmente nella corsa più lenta della sua carriera, che quella sarebbe stata la sua vita.

Nemmeno il suo esame di guida riuscì ad essere banale. Si trattava di una pura formalità, ma Zanardi era un piccolo enfant prodige locale in fatto di competizioni automobilistiche. Perfino l’ingegnere della motorizzazione non faceva altro che parlare di gare e motori. Tutto filò liscio — compreso il parcheggio, ultimo scoglio prima del rilascio della licenza — sennonché aprendo la portiera per uscire dall’abitacolo, il futuro pilota di Formula 1, colpì un malcapitato anziano a bordo di una bicicletta, di passaggio proprio in quel momento.

Nel 1997 la Honda, per celebrare il titolo ottenuto in Formula Cart, realizzò uno spot proprio su questa sinossi, con il pilota bolognese che chiude dicendo: “In quel momento ho capito cosa fare…guidare auto senza portiere”.

Eppur (non) mi son scordato di te

Quando Anna e Dino, i genitori di Alessandro, sentirono per la prima volta le parole “Formula 3” era il 1988, e probabilmente avranno pensato subito al successo scritto nel 1971 da Lucio Battisti per l’omonima band, l’unica che accompagnò il cantautore nei suoi concerti.

Quell’iniziale entusiasmo mostrato da Zanardi nel comunicare l’inizio della sua prima stagione da professionista, a bordo di una monoposto, fu stemperato da una mancanza: quella della sorella maggiore Cristina, scomparsa in un incidente stradale nel 1979.

Ma Cesare Papis, padre del suo amico corridore Massimiliano, aveva già trovato metà del budget per poter gareggiare e per Alex, che non navigava proprio nell’oro, sembrò l’iniezione di fiducia più grande che potesse capitargli. Non era ingratitudine verso la sua famiglia, non era un modo per dire scordiamoci il passato. È che è sempre stato un sincero ottimista, incapace di sottostare agli scherzi della vita.

Il 1991 (e la F1)

Giuseppe Cipriani, figlio di Arrigo Cipriani — magnate della ristorazione — nel suo trascorso da pilota, si trovava alle prese con una chicane che, cronometro alla mano, faceva registrare tempi disastrosi. Zanardi, suo avversario, proprio in quel punto del tracciato, tra entrata e uscita, dava quattro decimi a tutti i suoi rivali.

“Se un giorno dovessi fare un team — gli disse Cipriani — ti porterò con me”. Così fu.

Con la scuderia “il Barone Rampante”, l’automobilista inanellò importanti risultati, e pur non trionfando nel campionato di Formula 3000, si aggiudicò il Casco d’Oro, assegnato da Autosprint, come miglior pilota italiano.

Lo stesso anno, a tre gare dal termine del mondiale, Michael Schumacher fu “scippato” a Eddie Jordan, e all’omonima squadra di F1, da Flavio Briatore, direttore esecutivo della Benetton. Per sostituire il tedesco fu scelto proprio lui. Aveva detto a suo padre di non presentarsi a Barcellona, location del suo debutto nella massima categoria automobilistica.

“Era una persona estremamente irascibile e perdeva il controllo facilmente. Avevo il terrore che se fosse accaduto un guasto alla macchina potesse prendere Eddie Jordan per il collo, strappandoli il parrucchino”. Durante il giro di rientro, dall’abitacolo di una F1, vide un pazzo aggrappato a una rete alta nove metri che lo incitava come un pazzo. “In quel momento ho pensato: papà, ti voglio bene”.

A dirla tutta, su cinque stagioni disputate (1991–1994, 1999) e 44 Gran Premi corsi con Jordan, Minardi, Lotus e Williams, Zanardi ha conquistato soltanto un punto, classificandosi sesto (suo miglior piazzamento) in Brasile nel ‘93.

La IndyCar: “the pass”, i Donuts e due titoli

A 250 metri sul livello del mare, a 12 km da Monterey (California) si trova il circuito di Laguna Seca. Per gli esperti in materia tale pista vuol dire semplicemente una cosa: Cavatappi. Quello che in inglese prende il nome di Corkscrew, non è altro che una chicane in cima ad una collina, che si affronta (solitamente) a 80 km/h e che si sviluppa su di un dosso molto ripido. Probabilmente è il tracciato-emblema per un pilota, perché mette a nudo tutte le doti tecniche che un campione deve possedere, mescolate a quella dose di sana incoscienza tipica del fuoriclasse.

Non è un caso, infatti, che gli unici che siano riusciti a dare spettacolo proprio in quel tratto di gara siano stati Valentino Rossi, nel 2008, nello storico duello con Casey Stoner e Alex Zanardi che, nel 1996, superò l’esperto Bryan Herta fino a quel momento in testa.

Jimmy Vasser, che in quella stagione si aggiudicò il titolo IndyCar, ha raccontato che durante il tour invernale per gli sponsor l’argomento principale di discussione era il “The pass” di Zanardi e non le sue gesta che gli hanno permesso di aggiudicarsi il campionato. Tanto per evidenziare la monumentalità dell’impresa nel corridore bolognese.

Nelle successive due stagioni, 1997 e 1998, Alex si aggiudicò il titolo iridato di IndyCar. Si può dire che la ciambella col buco gli uscì per ben due volte, dato che uno dei suoi modi preferiti di esultare dopo una vittoria era proprio con i “Donuts” (che in inglese vuol dire proprio ciambelle), ovvero delle sgommate circolari che formavano sulla pista delle perfette circonferenze che mandavano il pubblico americano letteralmente in visibilio.

Il Lausitzring e l’inizio di una nuova vita

Tre giorni dopo il risveglio dal coma era parecchio intontito dai farmaci. Nell’ospedale di Berlino, l’unico canale che si riusciva a vedere era sportivo e quel giorno strepitò la notizia che Hermann Maier, grande sciatore austriaco, rischiava l’amputazione di una gamba inseguito ad un incidente motociclistico.

Poverino”, esclamò Zanardi dopo che un suo amico gli rispiegò l’accaduto. “Ma sei scemo? Ma ti sei visto?” /Per me è diverso”- rispose l’emiliano.

Quello sciagurato testacoda, del 15 settembre 2001, bene o male lo abbiamo visto tutti. Un’estrema unzione, otto arresti cardiaci, tre giorni di coma e sedici operazioni in anestesia totale forse sono un po’ troppe per un sol uomo. Ma questo rappresenta pur sempre il punto di non ritorno della vita di Zanardi. Il giorno “zero”, o meglio, il secondo giorno “zero” del suo percorso su questa terra.

I tredici giri mancanti e il ritorno alle corse

Pochissimi mesi dopo l’incidente, nel dicembre dello stesso anno, Sandro è invitato alla cerimonia di premiazione dei Caschi d’Oro promossa dalla nota rivista Autosprint, in occasione del Motorshow di Bologna. Con una disinvoltura disarmante, si alza dalla carrozzina su cui era seduto e la standig ovation non tarda ad arrivare. Per smorzare l’imbarazzo causato dallo scrosciante applauso, Zanardi dice: “sono così emozionato che mi tremano le gambe”.

Poco da dire. Non stupisce nemmeno che il ritorno alle corse, che già a dirlo oggi come oggi sembra la cosa più normale del mondo, sia stato proprio al Lausitzring. Doveva completare i tredici giri mancanti di quella sciagurata corsa. Roba da esorcisti, insomma.

Era il 2003, poco prima della 500 Miglia IndyCar. Se fossero stati di qualificazione ufficiali, il pilota si sarebbe piazzato al quinto posto della griglia di partenza dato che il suo miglior tempo (di 37”487) era sopra la media dei suoi colleghi piloti normodotati.

Dal 2004 al 2009, con la BMW, è riuscito a vincere quattro gare con la 320si WTCC nel Mondiale Turismo e undici GP nel Campionato Italiano Superturismo di cui si aggiudicò il titolo nel 2005. Ovviamente battendosi contro piloti fisicamente integri.

Da un autogrill alla maratona di New York… in hand-bike

Autogrill nei pressi di Savona, 2007. Un parcheggio per disabili libero. Due auto a contenderselo in un duello alla Sergio Leone: quella del bolognese e quella di Vittorio Podestà, all’epoca campione italiano di handbike. Il posto se l’aggiudicherà Zanardi, con la sua X5 fiammante; l’atleta paralimpico, invece, sosterà qualche metro più avanti. Fatto sta che da quel momento è nata un’amicizia.

Qualche mese dopo, durante una gara del Mondiale Turismo a Brands Hatch, in Inghilterra, il suo sponsor (la Barilla) gli comunica che dovrà partecipare a una cena promozionale alla viglia della Maratona di New York: “Ci vado! E sai che vi dico? Corro anche la maratona”.

Allora via a recuperare il numero di Podestà, che Zanardi “da buon cialtrone” si era anche perso. Spiegata la situazione, dovendo anche tenere a freno l’entusiasmo del ligure — pare sia eccessivamente prolisso all’intero di una discussione — diede il suo benestare:

“Vedrai che troveremo una hand-bike adatta alle tue caratteristiche, magari ti faccio vedere anche come allenarti: tanto hai un anno di tempo”. “Vittorio— esclamò precipitandosi Alessandro —, sto parlando della maratona che c’è tra un mese!”.

Si classificherà come quarto.

L’uomo di ferro

Kona, Hawaii. Palcoscenico surreale della prova fisica surreale per eccellenza: la finale mondiale dell’Ironman 2014. No, non è l’ultimo film della Marvel. È la gara di triathlon più dura al mondo: 3,86 chilometri a nuoto, 180,26 in bici e 42,19 di corsa. Il tutto mescolato a condizioni climatiche e ambientali apocalittiche: l’imprevedibilità dell’oceano, un caldo asfissiante, una specie di paesaggio lunare e un vento violento — “l’”ho’omumuku” che soffia di traverso a 70 chilometri orari — scrive Zanardi nella sua autobiografia “Volevo solo pedalare”.

Gliel’avevano detto. Nella frazione in acqua, essendo “svantaggiato” per non poter far uso delle gambe, alla partenza era meglio posizionarsi il più a sinistra possibile. Ci sarebbe stata più strada da fare per arrivare alla boa, questione di pochi metri, ma lo spirito competitivo ha prevalso:

“No, no, mi caccio qui che vado diritto e risparmio tempo”. Risultato? Un chilometro di calci e pugni a nuotare con gente più lenta di lui.

Il passaggio dall’acqua alla handbike è stato facilitato dalla presenza di Filippo Zanelli, suo amico dai tempi delle superiori, che aveva addirittura fatto le prove a casa per massimizzare i tempi del passaggio. Più che con la distanza, nella seconda parte della gara, è stato il vento la vera minaccia: quando soffiava alle spalle “la bici in piena di scesa raggiungeva i 60 km/h, nonostante tenessi premuti i freni”. A 70 chilometri dalla fine, delle bordate frontali hanno reso quell’ultima porzione un vero inferno.

Non è che per Zanardi sia una novità, ma paradossalmente la parte in carrozzina (quella che i normodotati hanno percorso di corsa) è stata la meno faticosa, ovviamente proporzionata alle due precedenti frazioni. Ma nonostante l’ottimo piazzamento, 273° su più di 3000 iscritti, e 19° nel suo gruppo d’età (45–49), la cosa che più l’ha colpito è stato lo spirito della manifestazione.

Il pubblico, che non si muove fino alle undici di sera, limite previsto per concludere la gara, era ancora lì a incitare e applaudire gli ultimi concorrenti. Lo trovavo commovente”.

Dalla Lupella alle soddisfazioni Olimpiche

Pergamene di carta millimetrata consumate. Scrigni di bizzarri, quanto geniali, bozzetti di bici ideate facendo quadrato su quelle poche reminiscenze trigonometriche apprese ai tempi del liceo. Ad Alessandro è bastato questo.

Questo e quella spolverata di inguaribile curiosità che lo contraddistingue per dar vita alla prima handbike totalmente partorita dal suo ingegno, la Lupella. Nome che nasce dalla crasi dei nomi dei due meccanici del team Ravaglia, che lo supportarono nella messa a punto del mezzo: Luca Zanella e Roberto Giordani, detto “Lupo”. Il gioco è fatto.

Il risultato fu apparentemente straordinario ma nella pratica “diabolico”, dato che Zanardi stesso ne fece le conseguenze schiantandosi contro il muretto di un’abitazione durante la Maratona di Padova del 2008.

“Mio padre diceva sempre: chi copia piglia 5, ma è un buon punto di partenza”. Così l’ex pilota decise di prendere una foto dell’hand-bike del campione statunitense Oscar Sanchez, andare da Christian Breda, figlio di Giorgio titolare della nota azienda di biciclette, e impostare i parametri per quello che pian piano diventerà il mezzo dei suoi più grandi successi: otto ori e due argenti nei Mondiali su strada (tra il 2011 e il 2015) e i quattro ori e i due argenti conquistati tra i Giochi Olimpici di Londra e Rio.

Oggi, nel giorno dei tuoi cinquant’anni una cosa te la devo proprio dire, caro Zanardi da Castel Maggiore.

Mi hai insegnato una cosa, una sola ma di vitale importanza: il saper scegliere da che parte stare dinanzi alle difficoltà che la vita ti riserva.

Perché ognuno di noi, anche se non in egual misura, è destinato a dover farsi carico della propria croce. È in quel momento che devi decidere se conviverci oppure soltanto sopravvivervi.

Zanardi, con quel fare didascalico e un po’ incosciente, ha dimostrato a tutti che vivere in funzione delle proprie difficoltà, provare a salvare il salvabile, vuol dire accontentarsi. Limitarsi a sopravvivere a volte vuol dire annaspare. E questo non ha alcun senso. Bisogna addomesticare i mali e non farsi addomesticare.

Tanti auguri Zanna, ti vogliamo bene.

Articolo a cura di Francesco Saverio Balducci

--

--