Usain Bolt. L’uomo della savana

Simone Nebbia
Crampi Sportivi
Published in
4 min readAug 8, 2017

Ogni giorno nella savana quando sorge il sole una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più di un leone.
Se vuole avere salva la vita.
Ogni giorno nella savana quando sorge il sole un leone si sveglia, con una reattività decisamente minore, ma sa che dovrà correre più di una gazzella.
Se vuole fare colazione.

Ogni giorno Usain Bolt si è riletto questo aforisma un po’ abusato, ha considerato la vita del leone e quella della gazzella, coinquilini dello stesso luogo ma con una dieta rigorosamente separata. Si è fatto due calcoli sul rapporto tra struttura osseo-muscolare e prestazione aerodinamica, poi, soltanto dopo, ha iniziato a correre per stare al passo delle gazzelle e fuggire le bocche dei leoni, per misurare l’evoluzione del corpo umano al divenire, per imporre parametri mai visti prima nel rapporto tra tempo sequenziale e spazio percorso.

Non stiamo dunque salutando la fine della carriera di un fuoriclasse della propria disciplina, ne verrebbe un articolo banale molto simile ad altri scritti per ogni atleta che decida di smetterla, stiamo lasciando nell’epoca precedente dello sport e della storia umana colui per il quale gli scienziati di tutto il mondo hanno prodotto i pensieri più approfonditi nel rapporto tra corpo e velocità, colui per il quale i pubblicitari e gli idioti dello stesso contraddittorio mondo hanno raffigurato scenari di confronto con cose, animali, città no, macchine nella maggior parte dei casi, poi alla fine anche con un incomprensibile vecchio autobus di linea del servizio pubblico di Buenos Aires…

Ma partiamo da un dato sostanziale: Usain Bolt si piazza al settimo posto nel mondo animale dopo il ghepardo che guida la classifica con 112 km/h, il leone del proverbio all’ultimo gradino del podio a 80 km/h, 18 meno dell’antilope che insomma può stare parzialmente tranquilla a brucare la poca erba rimasta in savana, sempre che il ghepardo arrivi già mangiato; medaglia di legno per la sorpresa della giornata: l’alce che raggiunge i 72 km/h e se non fosse per quelle corna a frappa di carnevale che frenano il vento sarebbe da podio, seguono a pari merito sui 48 km/h l’orso grizzly e il gatto generico, che però non pare abbiano mai gareggiato insieme nella stessa batteria. Bolt tra i 60 e gli 80 metri dei 100 stravinti a Berlino 2009 con record del mondo di 9.58 ha raggiunto una velocità di 44,72 che arrotondiamo ai 45 km/h, sotto di tre punti rispetto al grizzly da cui scappare perché magari gli è venuto un languore allo stomaco o al gatto da rincorrere perché ti ha rubato una salsiccia dal tavolo. Comunque, di fame si tratta.

Dopo aver polverizzato i record di 100 e 200 metri, nonché quelli di staffetta 4x100 con la sua Giamaica (in ultima frazione ai Giochi del Commonwealth 2014 ha fatto 8.65, per dire), a Usain Bolt nipote del vento (perché il figlio era quell’altro là che ci pareva irraggiungibile negli anni Novanta) non restava che una cosa da fare, oggi che insomma aveva scelto di smetterla: dimostrare che, nonostante i confronti con varie specie produttrici di velocità dalle lucertole alle botticelle del Colosseo, tutto sommato fossimo di fronte a un essere umano. E c’era un solo modo per farlo: perdere.

È successo a Londra, Mondiali di Atletica Leggera 2017. Quelli annunciati come i suoi ultimi. Finale classica, cioè con lui al centro e poi tutti gli altri. Di fianco un ragazzino — forse il più — promettente che si chiama Christian Coleman e guarda caso è nato ad Atlanta nel 1996, anno e luogo di un’Olimpiade da record del mondo su entrambe le specialità di Bolt: quel “modesto” 9.84 del canadese Donovan Bailey che stracciò in casa gli americani sui 100; il maestoso 19.32 di Michael Johnson sui 200 che mise finalmente in soffitta il precedente firmato ancora Pietro Mennea. All’ultima corsia invece il rivale di molti anni, lo statunitense Justin Gatlin, fischiatissimo dal pubblico perché ancora pesa su di lui la (tuttavia scontata) squalifica doping, quello che una volta in Giappone per raggiungere certe velocità “boltiane” si è fatto 9.45 spinto da un ventilatore a 20 m/s, per dire.

Ma stavolta non ce n’è stato bisogno. Non perché avesse limato i centesimi per raggiungerlo, ma perché stavolta a quei livelli non avrebbe corso proprio l’unico in grado di arrivarci. L’aveva detto che i blocchi non gli piacevano, che doveva capirli meglio, e infatti ci è rimasto quei millesimi in più, fatali per arrivare una volta ancora davanti a tutti. E allora, davvero, pare fosse studiato. Cedere al vecchio rivale e all’astro nascente, non è forse il modo più spettacolare e inatteso per uscire di scena? Ricevere la riverenza di entrambi a fine gara, l’inchino di Gatlin di fronte al sovrumano, non è questo che almeno ipotizza — fa pensare a — l’umano? Usain Bolt ha chiuso — salvo improbabili ripensamenti — con l’atletica leggera. Ogni giorno, da oggi, quando sorgerà il sole e si sveglierà, saprà che ha corso più veloce di tutto, che leoni e gazzelle dovranno continuare in eterno, mentre a lui basterà rifare a ritroso una strada lunga dieci anni. Cento metri alla volta. Ma con calma, ormai, senza correre.

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