Vent’anni di Wenger

Crampi Sportivi
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4 min readSep 30, 2016

GO ON SON EP. 5 — Vent’anni di Wenger

A suggerire il nome di Wenger come nuovo manager dell’Arsenal a David Dein, allora vice-presidente, fu una bandiera del Tottenham, Glenn Hoddle. L’ex centrocampista della nazionale inglese era rimasto così ben impressionato dalla maestria tattica dell’alsaziano, che lo aveva allenato ai tempi del Monaco, da esser certo che avrebbe potuto risollevare le sorti del team bianco-rosso.

Il presidente Peter Hill-Wood non ci mise tanto a convincersi che valeva la pena provare la carta del manager straniero (il primo nella storia del club), dopo i disastri combinati da Bruce Rioch, che con soli 14 mesi stabilì il record negativo di longevità alla guida dell’Arsenal. Cacciato prima dell’inizio del campionato 1996–97, Rioch fu sostituito dall’allenatore ad interim Stewart Houston, coadiuvato dalla vecchia gloria Pat Rice. Wenger doveva terminare la stagione con il team giapponese Nagoya Grampus Eight, e per qualche mese serviva un sostituto. Un ruolo che Houston non gradiva troppo, visto che si dimise quasi subito, preferendo il contratto offertogli dal Queen’s Park Rangers. Dove peraltro il suo assistente era Rioch (guarda tu le stranezze del calcio).

Fortuna volle che la dirigenza del Grampus Eight si convinse a lasciar libero Wenger con un po’ di anticipo. Dalle parti di Avenell Road non ci furono certo manifestazioni di giubilo collettive, per l’arrivo del francese. In pochi lo conoscevano, sebbene girasse voce che fosse molto preparato. Nessuno immaginava che sarebbe divenuto il tecnico più vincente della storia del club. A Londra lo soprannominarono ben presto il professore perché una delle prime foto rimbalzate sulla carta stampata lo ritraeva accanto a una libreria. Peccato che sugli scaffali non ci fossero le opere immortali di Charles Dickens o William Shakespeare, ma vecchi programmi dell’Arsenal.

La stagione 1996–97 si concluse senza trofei e con un posto in Champions League sfumato sul filo di lana. Ad arricchire la rosa erano però state messe sotto contratto due giovani promesse francesi: Patrick Vieira (prelevato dal Milan) e Nicolas Anelka. Un chiaro indizio su quale sarebbe stato il modus operandi il futuro: puntare forte su giocatori stranieri a inizio carriera.

Le premesse per un 1997–98 pieno di soddisfazioni c’erano tutte, almeno a giudicare i primi mesi di lavoro di Wenger. La sua opera di rinnovamento fu massiccia, a 360 gradi. Grazie alla sentenza Bosman non c’erano più limiti all’acquisizione di calciatori comunitari, ragion per cui la rosa dell’Arsenal iniziò a popolarsi di stranieri come pochi altri club della Premier. La continentalizzazione dei Gunners era improntata sulla massiccia presenza di francesi, meglio se allenati da Wenger in passato, e di qualche olandese dai piedi buoni. A centrocampo, oltre al tuttofare Manu Petit, preso da Monaco, fu acquistato il trottolino Marc Overmars, grande talento un po’ penalizzato dai frequenti infortuni.

I nuovi schemi imperniati su un calcio offensivo, fatto di possesso palla, sovrapposizioni e tagli continui, erano una evidente rottura con un passato all’insegna di un football cinico e concreto, a tratti addirittura catenacciaro. Wenger non si limitò alla tattica, ma impose forti cambiamenti un po’ ovunque. Convinse il board a investire una decina di milioni di sterline per un nuovo centro allenamenti all’avanguardia; mutò le abitudini alimentari della squadra (niente più cucina inglese, ma tanta verdura, riso e pasta) al punto che adesso c’è un dietista che stila un piano personalizzato per ogni giocatore; non mise un veto esplicito sull’alcool, ma fece di tutto per “scoraggiare” il suo consumo; infine, istituì un approfondito studio delle statistiche relative a ogni gara disputata, tanto che Billy Beane (il leggendario coach di baseball che ha ispirato il famoso film Money Ball) si è detto un suo grandissimo fan. Per citare un esempio, a fine carriera Dennis Bergkamp veniva sostituito sempre al settantesimo perché Wenger sapeva, dati alla mano, che negli ultimi venti minuti di match rendeva pochissimo.

Nella prima decade, anche grazie ai goal di Henry e alla maestria a centrocampo di Vieira, l’Arsenal wengeriano piazzò in bacheca tre campionati (compreso quello del 2003–04 da imbattuto), quattro FA Cup e altrettante Community Shields. Poi c’è stata una inquietante pausa di nove anni, fino alla doppietta in Coppa d’Inghilterra nel 2014 e nel 2015. Sfiorato l’eterno sogno della Champions League nel 2006 (finale persa di misura contro il Barcellona), la squadra inanellò solo una serie infinita di mezzi-flop. Mezzi, perché alla fine nelle prime quattro arrivava sempre, ma di solito si scioglieva come neve al sole alla fine di marzo. Questo aspetto, unito ai ricorrenti errori difensivi, una tattica monotematica che non dava più i frutti sperati e vari errori (o mancati acquisti) nelle finestre di mercato hanno segnato la seconda metà dell’avventura di Wenger sulla panchina dell’Arsenal.

Una consistente fetta di tifosi e di addetti ai lavori ha iniziato a chiedere la sua testa, mentre la Football Association ha provato più volte ad assicurarsi i suoi servigi. Dopo un principio di stagione balbettante, ora la squadra, finalmente arretrata nel reparto arretrato, sembra in grado di competere in campionato e in Champions League. Aspettiamo la controprova a fine marzo e, soprattutto, ci chiediamo Wenger arriverà o meno a celebrare le nozze d’argento con il suo amato Arsenal. Dalle voci che girano sempre più insistentemente in quel di Londra sembrerebbe di no, che il 2016–17 sarà l’ultimo capitolo della storia dell’alsaziano con il club che fu del grande Herbert Chapman. Un altro grande allenatore rivoluzionario e vincente.

Articolo a cura di Luca Manes

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