Vincenzo Montella e le macchine inutili

Crampi Sportivi
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14 min readOct 2, 2016

Vincenzo Montella vuole lasciare un segno nella storia del Milan, e del calcio in generale. Vuole essere ricordato come un uomo del Destino: uno di quegli allenatori che hanno cambiato il modo in cui le squadre stanno in campo e altrettanto hanno cambiato il ruolo dei propri colleghi fuori dal campo. Gli uomini del Destino non sono in automatico i più vincenti, o quelli i cui nomi vengano ricordati più spesso; ma aggiungono capitoli alla storia del pensiero calcistico, e le loro innovazioni filtrano tanto in profondità nel gioco da diventare paradossalmente invisibili.

Del resto, quello di Montella è un caso peculiare, perché non è detto che il suo segno possa trasformarsi in un’eredità. La rivoluzione a cui aspira, tutta metodologica, potrebbe tradursi in un memorabile avvitamento intellettuale senza altro risultato che quello di introdurre il concettualismo spinto in una Serie A già decadente.

Ho scoperto del progetto di Montella quasi per caso. A cena da amici ho conosciuto un membro dello staff medico del Milan; pochi giorni prima c’era stato il passaggio ufficiale del testimone tra Berlusconi e la nuova proprietà, che aveva impresso accelerazione a un’estate milanista altrimenti ferma come un Ciao in salita, ed ero curioso di carpire qualche pettegolezzo da raccontare agli amici. Pietro — chiamiamolo così — sembrava avere scarsissimo interesse nel cambio al vertice, o comunque nulla di interessante da riferirmi. In compenso, aveva il dente avvelenato con Montella: non si aspettava nulla di buono dalla stagione e continuava ad apostrofare il nuovo allenatore come “un esaltato”, “uno che pensa di poter fare il calcio in AutoCAD”.

AutoCAD è un software per la progettazione bi- e tridimensionale. Se fossi stato più sobrio, a quel punto della cena, avrei razionalizzato questa cosa del calcio in AutoCAD come una figura retorica o come una posizione reazionaria di Piero rispetto a un legittimo utilizzo delle tecnologie informatiche nella preparazione tattica. Invece l’ho voluto compiacere in modo altrettanto reazionario: “E che cazzo ci deve fare con AutoCAD?”, gli ho chiesto. La risposta mi ha aperto un mondo.

Nei giorni successivi sono ripartito da quella risposta, sconnessa e parziale, per ricostruire e riordinare cosa sta accadendo nel Milan e nella testa del suo allenatore. Non voglio fare denunce né psicologismi: l’obiettivo di questa inchiesta è rendere conto di uno slancio filosofico-sportivo che ritengo… eroico? La definizione mi sembra adatta proprio per quanto è ambigua, perché a seconda del punto di vista che abbiamo sugli eroismi promette la velleità o la vittoria, la disponibilità al sacrificio per il bene collettivo o la voluttà dell’autodistruzione.

Il programma con cui Montella prepara gli schemi.

Montella analogico

“Il giorno dopo il suo insediamento”, racconta Pedro, “Montella ha avuto un meeting coi miei superiori. Sono tornati in [Milan] Lab perplessi come non li avevo mai visti”. Quando Montella ha accettato l’incarico, a quanto pare, gli è stato promesso che la situazione relativa alla proprietà sarebbe stata risolta al più presto. Così non è stato; nel frattempo, Berlusconi era convalescente, Galliani era in vacanza, Bacca sembrava in procinto di andarsene. Per prepararsi al peggio — a un mercato inconsistente — Montella stava studiando una strategia che potesse rendere competitiva la stessa squadra del campionato scorso. Voleva un’impostazione inaspettata, radicalmente inaspettata: “Ai medici ha chiesto di ragionare sui meccanismi fisiologici che potessero essere trasposti in meccanismi di gioco”, dice Pinter. “Ma pensare a queste cose è il lavoro suo, mica il loro! È stato fortunato che sono dei devoti, lavorano al Milan da una vita, e hanno deciso di prenderlo sul serio. Gli han fatto delle proposte, ne hanno discusso, le hanno sperimentate in campo”.

Alla perplessità dei medici si è aggiunta quella dei giocatori, quando al posto delle lavagnette Montella ha presentato loro tavole anatomiche e vetrini da microscopio. “Ci hanno anche messo della buona volontà”, racconta Petrus, “ma Montella continuava a complicare le cose. Qualcuno ha chiesto se in pratica dovevano immaginare il centrocampo come una membrana cellulare, o il raddoppio in difesa come una reazione enzimatica; Montella prima ha detto di sì, poi ci ha ripensato ed è diventato no, perché la fisiologia non doveva essere una metafora per spiegare concetti che già conoscevano, doveva essere proprio l’embrione di un calcio nuovo”.

Il rettangolo di gioco secondo Montella.

Nello spiegare gli schemi, tuttavia, Montella si scontrava con la mancanza di un linguaggio per parlare di questo nuovo calcio, che si potrebbe forse definire organicista. Per evitare di esprimersi secondo categorie tradizionali doveva far ricorso appunto a metafore e analogie: quando ne imbroccava una buona, provava a seguirne il filo, perché le cose che diceva sembravano trovare un senso, e allora rispiegava tutto secondo quella metafora. I calciatori seguivano il nuovo binario di significanti, solo che dopo un po’ i meccanismi interni al mondo della metafora si allontanavano dai meccanismi della fisiologia, perché non esiste un parallelo biunivoco perfetto, e Montella doveva riportarli in riga — sia i significanti, sia i giocatori. Il meno disciplinato era lui stesso, perché alcune metafore in effetti producevano un gioco migliore di quello da cui era partito, e così anche la sua idea di fondo si modificava continuamente. Era affezionato alla novità, non all’approccio fisiologico in particolare, e da quello ha sviluppato a catena approcci culinari, metallurgici, econometrici, costituzionali… e di volta in volta si faceva affiancare da un pool di esperti del settore, generalmente sostituito da un altro pool dopo mezza giornata.

Montella e il Metodo

Questa schizofrenia inconcludente ha alienato a Montella la fiducia di una parte dei giocatori e dello staff. Lui, almeno secondo quanto mi è stato raccontato, non ha mai avuto dubbi sul fatto che si potesse disegnare un calcio efficace trovando la chiave giusta per ordinare il gioco. Ho potuto guardare i video di alcune partitelle giocate a porte chiuse durante il ritiro estivo, e sono tragicomiche. Una squadra composta in larga parte da riserve gioca secondo schemi “normali” contro la compagine titolare che invece sperimenta moduli e movimenti improbabili, simili a brutte performance di danza contemporanea. Le riserve crivellano i titolari di reti facili, mentre Montella urla indicazioni come “Emulsionate! Emulsionate!” o “Quando salite, leva finanziaria!”.

Tuttavia, non sono stati i risultati né la diffidenza della squadra a convincerlo che bisognava cercare un’altra strada. Un dirigente del Milan, Claudio Pietro, racconta: “Agosto non è stato un periodo facile da queste parti e le idee eccentriche di Vincenzo non hanno reso le cose più semplici. Sapevamo che c’era maretta giù da basso, ma come società lo abbiamo sempre sostenuto e non abbiamo dubbi che la nostra stima sia ben riposta. Quando arriveranno i punti in campionato, tutti questi discorsi faranno la fine dell’acqua sporca”. Messa così, la fiducia della dirigenza aveva il sapore dei comunicati stampa preconfezionati; eppure ascoltare Pietro, notare la precisione del suo lessico, mi ha persuaso che il progetto di Montella non sia rimasto una sua fisima. C’era piena consapevolezza delle sue riflessioni anche tra gli strati superiori dei rossoneri: “Dopo i primi tentativi di schemi analogici”, mi spiega, “nel senso di schemi disegnati per analogia con meccanismi individuati in natura o altrove, Montella ha capito che doveva battere un sentiero diverso. Perché con uno schema rivoluzionario puoi vincere un campionato, una Coppa Italia, ma poi le altre squadre ti prendono le misure e ti ritrovi al punto di partenza”. Ecco dunque la prima svolta.

Credo che Montella abbia cominciato in quel momento a circoscrivere il problema cui davvero voleva trovare una soluzione nuova. Se l’effetto sorpresa doveva servire a qualcosa, doveva essere ripetibile per un numero di volte potenzialmente infinito. “Montella rifletteva sul cinema, sulle serie televisive”, continua Pierrot, “trovava magari degli elementi che accomunavano l’andamento di certe partite all’andamento di certi film. Con quelle intuizioni lì, però, non ci faceva niente, perché potevano emergere solo dopo le partite, mentre a lui serviva una strategia da adottare prima. Così ha pensato al lavoro dell’attore, alla possibilità che hanno i grandi interpreti, una volta entrati nel personaggio, di improvvisare e in pratica scrivere un copione coerente in tempo reale”.

Per scuotere le fondamenta della Serie A bisognava abbandonare l’identitarismo, l’idea che i giocatori abbiano caratteristiche date e immutabili da valorizzare attraverso il gioco, senza per questo approdare al dogmatismo, cioè allo schema sempre uguale a se stesso in qualunque circostanza. Anche da un punto di vista etico, entrambe le opzioni presuppongono che i calciatori siano degli idioti e questo è inaccettabile, tanto più per un ex calciatore. Voler inventare, in poche settimane, posizioni e movimenti mai concepiti prima, era stato un accesso di megalomania; sviluppare un eclettismo imprevedibile a partire da moduli che altri avevano già collaudato, invece, sembrava l’uovo di Colombo.

“Le faccio un esempio: se domenica giochiamo contro il Palermo, e sappiamo che l’Udinese ha battuto il Palermo 2–0 mandandoli completamente in palla, noi adottiamo lo schema dell’Udinese”, mi spiega Pietro. “Loro si aspettano di giocare contro il Milan e si preparano di conseguenza, invece si ritrovano davanti l’Udinese. Oppure si aspettano di trovarsi davanti un Milan che gioca con lo schema dell’Inter, perché nelle ultime due giornate abbiamo usato lo schema dell’Inter, e in ogni caso li prendiamo di sorpresa”.

In via confidenziale mi è stato mostrato un foglio a quadretti, recuperato credo da un cestino, dove nella colonna di sinistra sono indicati i giocatori del Milan e in quella di destra i giocatori del Napoli. Mi è stato garantito che la scrittura è quella di Montella: di sicuro, è la stessa di altri appunti che ho potuto visionare mentre realizzavo questa inchiesta. A Montolivo è associato Hamsik; a Niang, Callejon; a Romagnoli, Koulibaly; e così via. Accanto a ogni milanista c’è un voto da 1 a 10, e sul fondo la media della squadra: un impietoso 3,9. Non è chiaro a quale prova siano stati sottoposti i giocatori, ma si può intuire che l’esperimento di Montella — almeno quando il Napoli era la squadra da imitare — sia stato un fallimento.

Peter, la mia fonte nello staff medico, usa un’immagine folgorante: “Calciatori staminali. Aveva immaginato degli atleti totipotenti, in grado di prendere qualunque forma e funzione. Una volta ha preso Lapadula e gli ha dato da studiare i movimenti di Ciro Immobile. Gli ha detto che doveva imparare a stare in campo come lui, a pensare come lui… Lapadula era appena arrivato, voleva fare bella figura, ma finiva per sembrare scemo. Prima di fare qualunque cosa si chiedeva cosa avrebbe fatto Immobile al posto suo; ci metteva due secondi anche solo per decidere di inseguire un lancio lungo. Fuori dal campo ha cominciato addirittura a parlare in napoletano, e lì Montella si è risentito, perché pensava che lo prendesse in giro. Non si parlano da allora”.

Montella cartografo

A Pietro, il dirigente del Milan, ci sono arrivato tramite un giornalista sportivo amico di Montella, Marco “Piotr” Casulli. Anche lui aveva qualcosa da raccontarmi, che è poi l’ultimo episodio di questa storia: “Da tre mesi lo invitavo a farsi qualche giorno di vacanza in barca con me, lui però era sempre troppo occupato. Poi è cominciata la Serie A e ho lasciato perdere. Quando c’è stata la pausa per la nazionale mi ha telefonato, mi ha detto ‘Pietro, tra quattro ore sono da te’. E io: agli ordini! [ride] No, sul serio, lo volevo vedere, avevo capito che non stava bene”.

“Dal momento che hanno messo piede al porto, lui e Rachele, l’ho fatto parlare il meno possibile, perché sapevo che altrimenti avrebbe parlato di lavoro. Siamo stati in giro, l’ho portato in tre calette diverse, l’ho fatto sgobbare come un mozzo sulla barca anche se non ce n’era davvero bisogno. L’ho fatto stancare. E infatti, alle otto e mezza era in cabina a dormire. Rachele ci ha raccontato che nell’ultimo periodo Vincenzo faceva tre ore di sonno a notte, lo trovava la mattina esagitato di caffè che le mostrava i De Chirico sul Mac e le diceva ‘Vedi, se io potessi prendere delle mezzali alte due metri e venti, e sistemare il pubblico in un certo modo, alla difesa sembrerebbero più vicini, li andrebbero a marcare, e lì deve salire Carlos’… Queste cose non le poteva nemmeno più provare con la squadra, erano trip solo suoi. Stava alla frutta, Rachele era pure preoccupata. La dirigenza lo lasciava fare, perché se andava male pensavano di poter chiedere più soldi ai cinesi, che ormai avevano deciso di investire”.

Bennato Montella, avo di Vincenzo e cartografo (circa 1964).

“La mattina dopo, Vincenzo mi ha fatto prendere un colpo”, continua Pietro. “La gente, sotto stress, fa le peggiori cazzate. Mi sveglio, trovo un foglio scritto a penna davanti alla porta della mia cabina; io ti giuro, ho perso un battito al cuore. ‘Ho avuto un’idea, devo tornare a Milano, grazie di tutto ieri è stata una bellissima giornata’. Quel pazzo si è fatto a nuoto fino a riva! Autostop fino alla stazione, ed è tornato. Rachele… vabbè, lasciamo perdere. Più tardi, Vincenzo mi ha scritto un’e-mail”.

O Piè, mi devi scusare.

Non vorrei avervi messo in pensiero. Ultimamente dormo poco.

Stamattina all’alba ero sul ponte che guardavo il mare e pensavo che avrei voluto averlo a Milano, il mare. Era una tavola, non mi diceva niente quel mare, io però volevo che mi dicesse qualcosa. Insistevo a guardarlo. Mi sono fissato su un punto solo, nel mare, sentivo che potevo aprirlo a metà col pensiero, sentivo che se volevo potevo separare l’acqua e il sale con la forza di volontà. Ho pensato che un francobollo di mare piatto, in proporzione, è un oceano in tempesta. E ho pensato che il mare in tempesta ha una superficie maggiore rispetto al mare calmo — è una superficie elastica. Le vele no: quelle, se si gonfiano, vuol dire che gli estremi si avvicinano. Quand’ero ragazzetto, giocavamo su una spianata di terra dove dovevano costruire un palazzo. Alla fine non so se l’hanno mai costruito. Già all’epoca era tutto fermo. A ripensarci adesso, in quel periodo sembrava fermo pure il tempo, ma è un’illusione, è come il mare piatto: è piatto perché lo vedi da lontano, mentre ogni centimetro quadrato di quegli anni — e anche di questi che viviamo — era come una tempesta, la tempesta in un bicchiere d’acqua che però era tutto il nostro mondo. Giocavamo su questo terreno che non era davvero in piano, era in salita, e giocare in un verso non era la stessa cosa che giocare nell’altro. Tanto che c’era chi era più bravo da una parte, chi dall’altra, e quelli più intelligenti non cercavano di fare in un verso le stesse cose che gli riuscivano nell’altro.

L’ho capito dopo, perché invece all’epoca io ero buono solo a giocare in discesa e avrei voluto inclinare il campo sempre com’era comodo a me. Negli ultimi mesi avrei voluto farlo per il Milan, piegare il campo come dico io, e non ho trovato un modo per farlo e questa cosa mi sta mandando al manicomio. Ma stamattina ho capito che non è il campo, che devo piegare: c’è un secondo piano, che sta sopra al campo, spesso ci poggia ma non sempre, ed è il piano disegnato dai movimenti del pallone. È un reticolo di rette e curve e ha la superficie che gli dai: più ampia se mandi il pallone più in alto, meno ampia se giochi palla a terra e passaggi tesi. “Quindi?”, dirai tu.

Quindi ho trovato la soluzione al problema che mi ha fatto uscire di testa fino a oggi. Il problema dell’allenatore è trovare una struttura ripetibile non prevedibile. Ripetibile non prevedibile. Ci penso in continuazione. E la struttura è quel reticolo là! Lo devi immaginare come una cartina geografica coi rilievi, o come una porzione di mare in computer grafica. Per vincere a lungo senza che le altre squadre capiscano mai bene come difendersi, dovrei applicare tutte le settimane un gioco completamente diverso. Ma ci vorrebbe un genio al posto mio, per inventarne ogni settimana uno che funzioni, e comunque la squadra non avrebbe il tempo di assimilarlo. Il problema allora è trovare una struttura ripetibile non prevedibile, e in più memorizzabile; magari intuibile dai miei giocatori, ma non dagli avversari, nei suoi sviluppi e nelle sue variazioni. E stamattina, mentre che guardavo il mare, mi è venuto un flash: è sufficiente uno schema solo, un’immagine di base del piano ondulato che i giocatori devono far seguire alla palla — o più probabilmente un’animazione, di quel piano ondulato — e ogni domenica imprimere a quella forma una flessione, una traslazione, una torsione.

Trovati gli automatismi sulla figura di base, secondo me, le singole variazioni ai ragazzi vengono facili, anche se l’effetto esterno sarà quello di un gioco del tutto diverso. Mi sono spiegato? Gli altri tirano fuori la mappa dal paesaggio, io tiro fuori i paesaggi dalla mappa! E piegando una mappa sola, posso creare paesaggi infiniti. Capì?

A Milano ce lo porto io, il mare.

Il progetto calcistico a lungo termine di Montella.

Non si sfugge alla macchina inutile

Qualche purista della geometria sarà forse scandalizzato dal lessico di Montella, ma il suo discorso è chiaro. Curioso, che ci abbia permesso di pubblicarlo: sarà stato un errore? Se i suoi progetti avranno successo, sarà comunque impossibile per i suoi avversari risalire al “reticolo” originale e tantomeno conoscerne le variazioni settimanali. Se invece sarà stato tutto inutile, perché Montella non sarà riuscito a mettere in pratica la sua visione o perché questa non sarà premiata dai risultati, la colpa non sarà stata nostra.

Piuttosto, come valutare l’efficacia del suo nuovo metodo? In qualche modo bisognerà pur decidere se al tecnico del Milan spetta davvero un posto nel pantheon del pallone. Per usare un’immagine tratta dalla e-mail, potremmo concepire il pensiero come una superficie elastica: alcuni tra noi ne accoglierebbero con favore la torsione, purché ne aumenti l’estensione. Del resto, chi ci dice che l’immagine sia accurata? E in ogni caso, è un’idea da speculatori quella per cui l’aumento dello spazio disponibile (a beneficio di chi?) sarebbe sufficiente a giustificare un abuso edilizio: il destino migliore, per certi palazzi, è quello di restare irrealizzati.

Come se non bastasse, c’è una complicazione ulteriore. Qualunque sarà l’esito del campionato del Milan, Montella potrà sostenere di avere applicato il proprio metodo oppure no, e sarà comunque impossibile verificarlo. Ha scavato fino alla radice del gioco, per cercare una forma “ripetibile ma imprevedibile”, peccato che il gioco funzioni già così. Non solo il reticolo, la cui visione ha folgorato Montella, è sospeso sul rettangolo di gioco da sempre, ed è sospeso sul Camp Nou come sul campetto di asfalto della scuola media qui dietro — anche la forza di gravità c’è sempre stata, eppure scoprirla è stato utile –; il problema è che tutto dipende dalla specifica forma di partenza e dai singoli movimenti che Montella vorrà far fare a quel reticolo. O almeno, così sembra; è possibile che a Pietro non abbia rivelato tutto, è possibile che nei prossimi tempi sarà il Milan a folgorare noi. Ed è possibile, per assurdo, che Montella ottenga la fama per aver inventato un metodo che in realtà era già stato adottato in passato.

Articolo a cura di Daniele Zinni

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