Vladimir Nabokov e i fantasmi del Gobi

Crampi Sportivi
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8 min readApr 9, 2016

E mio padre amava raccontare di quando una volta, durante uno di questi tramonti, nel 1893, proprio nel morto cuore del deserto di Gobi aveva incontrato — scambiandoli sulle prime per fantasmi creati dal gioco dei raggi — due ciclisti in sandali cinesi e tondi cappelli di feltro, gli americani Sachteblen e Allen, che come se nulla fosse, per sport, attraversavano in bicicletta tutta l’Asia fino a Pechino”.

Per chi ha avuto il piacere di leggere il romanzo Il Dono di Vladimir Nabokov, non sarà difficile ritrovare in queste poche frasi una delle tante divagazioni con cui il giovane poeta protagonista, Nikolai Chernyshevski, racconta gli esotici viaggi del padre, immaginario esploratore e lepidotterista, attraverso gli impervi territori dell’Asia Centrale ed Orientale durante gli ultimi anni del diciannovesimo secolo.

La prosa contorta del grande romanziere russo-americano, ci conduce all’effimero contatto con due fantasmi che, a bordo delle loro cigolanti biciclette, si apprestavano a continuare attraverso il deserto di Gobi un viaggio che era partito diversi mesi prima da Istanbul, e che li avrebbe portati fino a Pechino. Questi due ectoplasmi che, come Nabokov ci descrive, componevano una sorta di tutt’uno con i loro mezzi, rispondono nella loro componente umana ai nomi di due giovani neo-laureati americani: William Sachtleben, nato nel 1866 ad Alton, Illinois, e Thomas Gaskell Allen Jr. nato due anni dopo a Kirkwood, Missouri.

Quando oggi si pensa al giorno di laurea, le prime immagini che affiorano alla mente si riferiscono in genere all’ebbrezza non propriamente astemia che accompagna i giovani laureati. I tempi sono decisamente cambiati. Nel giugno 1890, appena un giorno dopo la proclamazione di laurea, i due ectoplasmi sopraccitati intrapresero — ricompensa originale e faticosissima — un viaggio su due ruote che li avrebbe portati dagli Stati Uniti a Londra, Roma ed Atene fino ad arrivare alle remote regioni della Turchia, dell’Armenia e della Cina. Questa sorta di immediata e naturale incoscienza, quel “come se nulla fosse, per sport” che li fece partire appena ventenni con un mezzo di trasporto tecnologicamente acerbo alla volta di territori di cui ignoravano cultura, lingua, tradizioni e la stessa geografia, contraddistinguerà l’intera marcia di Sachtleben e Allen.

Nelle ultime pagine di Across Asia on a Bicycle, il libro — non ancora tradotto in italiano — che raccoglie le loro memorie di viaggio, alle domande indagatrici ed un po’ scettiche del viceré cinese riguardo il reale obiettivo del loro girovagare, il duo di ciclisti risponde: “Per vedere e studiare il mondo e i suoi popoli; per avere un’educazione pratica dopo aver concluso quella teoretica. Abbiamo deciso di adottare la bicicletta come mezzo di trasporto solo perché lo consideravamo quello più adatto per raggiungere il nostro scopo”. Come se pedalare alla fine del ‘800 per più di 15.000 miglia tra i deserti dell’Asia fosse la cosa più naturale del mondo.

Tutti gli sport racchiudono una bambinesca semplicità che guida gesta fisiche che, per la loro innata ambizione, dimenticano i limiti comunemente intesi per affrontare l’ignoto. Tuttavia il ciclismo, nella sua quotidianità fatta di polvere, fatica, pioggia, amare salite e brusche discese, tende, ancora oggi, a essere una fucina privilegiata per questa sconsiderata ricerca dell’oltre. In questo senso, le vicende di Sachtleben e Allen non fanno che racchiudere, come in una sorta di struttura genetica primordiale, gli istinti che tutt’oggi ci spingono a guardare entusiasti i chilometri ciottolosi di una Parigi-Roubaix o ad inforcare una sella e pedalare in salita, e che rispondono a definizioni più o meno articolate di concetti quali fatica, agonismo e storia.

La fatica

La fatica in cui si prodigavano le ruote delle biciclette di Sachtleben e Allen che, scorrendo nel fango turco intorno ai monti di Erzurum “diventavano talmente incrostate che non riuscivamo neanche a spingerle avanti”, è una fatica che si fa febbre tifoidea nel mezzo del deserto del Gobi, dove l’unico riparo è quello offerto dai tetti di paglia e fango della stazione di Bay-doon-sah, e dove i confini sabbiosi si disperdono nel miraggio, nella solitudine e nella disperazione: “Sembrava di essere alla fine del mondo e di guardare verso il regno del nulla”.

Una fatica che si fa vento e poi ventaglio come in qualche tappa olandese del Tour o del Giro, e non un vento qualsiasi, ma il il “vento di Damghan” che ti coglie impreparato nella strada sassosa che divide Teheran da Mashad e che ovviamente soffia in senso contrario, tanto che ti porta ad affermare la ragionevole conclusione: “dovessimo compiere un’altra traversata transcontinentale, avremmo l’accortezza di viaggiare in direzione opposta”.

La fatica che dopo aver provato il fango, il vento e i chilometri di sudore diventa incosciente ostinazione dirigendosi dalle sicure (!) terre di confine russe verso il suolo cinese: “<Non andate in Cina> furono le ultime parole di molti nostri amici quando partimmo da Tashkend”. Quella stessa fatica fisica e allegorica, insomma, che colse Francesco Petrarca durante la sua ascesa al Mont Ventoux, come se i pendii di uno dei templi del ciclismo moderno contenessero già allora una sorta di richiamo primordiale al martirio sportivo che il ciclismo non poteva certo mancare di raccogliere: “volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo”.

Quella di Sachtleben e Allen, quindi, non fu altro che quella fatica disperata e volenterosa che rende la bicicletta non solo “il prolungamento minerale del sistema osseo umano”, come la definiva Alfred Jarry, ma — di più — il prolungamento minerale del suo stesso sistema spirituale.

L’agonismo

Benché i due giovani ectoplasmi americani sbandierino, nell’introduzione alle loro memorie di viaggio, un certo imborghesito disinteresse verso la componente da “record” del loro viaggio (“Non eravamo guidati dal desiderio di stabilire un record per i viaggi in bicicletta, anche se avevamo coperto 15.044 miglia, il più lungo giro del mondo via terra mai compiuto”), c’è un però, o meglio un anche se, che pare sconfessarli. Del resto l’aver attraversato circa 24.000 km a bordo di un biruote non può passare inosservato; magari non avrà rappresentato la motivazione ideale che spinse il duo ad inforcare le biciclette, ma di certo ne ha rappresentato la realtà quotidiana, perché quel record c’è, quel record di fatto esiste.

Bisogna tuttavia credere alla buona fede di Sachtleben e Allen quando affermano che la competizione non faceva parte del progetto iniziale. Ma nel corso del loro viaggio si trovano comunque dei residui di agonismo, di cui la competizione non è altro che una manifestazione adulta. Nell’affermare tra le righe, quasi con pudore, della proporzione della loro impresa, Sachtleben e Allen confessano indirettamente quella sorta di infantile, imbarazzato stupore nel constatare di aver fatto un gesto eccezionale all’interno di quello che fondamentalmente rimaneva un gioco. L’agonismo giocoso dell’infanzia che fa muovere, interagire, correre senza direzione, e che solo in seguito diventa competizione, confronto, superamento dei limiti interni ed esterni.

Un viaggio che si compone di gare con i fantini kirghizi ed i loro cavalli, curiosi di testare le reali possibilità dei “carretti del diavolo” guidati dai due americani. Oppure le gare in territorio cinese dove una città intera, Kuldja, si riversò sui rettilinei petrosi per assistere ed incitare la sfida tra la meccanica metallica e quella animale: tremila persone si assieparono fin sopra ai tetti per poter dire “io c’ero” quando i purosangue dei Dungan sfidarono i purometallo degli americani. Come in una volata tra McEwen e Cipollini, i purosangue, antesignani dell’australiano, erano partiti con una sparata che li aveva portati in testa, ma la potenza della pedalata del duo americano centimetro dopo centimetro aveva riguadagnato la scia dei quadrupedi che, dopo essersi visti affiancare e superare dai bicicli, si abbandonarono rassegnati all’onta della sconfitta, lasciando finanche il tempo ai due forestieri di terminare la gara con le braccia al cielo. Avevano, in parte, ragione Sachtleben e Allen quando affermavano che il loro ciclismo non era solo una caccia al record; infatti, era soprattutto un gioco.

La storia

Cosa succede quando i plotoni copiosi della grande boucle e del Giro o quelli spezzettati e nevrotici delle classiche monumento ci fanno attraversare paesaggi, città, lingue che a noi rimarrebbero altrimenti remote e, quindi, sconosciute? La capacità del ciclismo di muoversi nello spazio geografico coprendo migliaia di chilometri in mezzo alla realtà quotidiana dei Paesi attraversati lo rende l’unico sport che non ha bisogno di un recinto, uno stadio, un campo, un circuito dove potersi esprimere. La naturale aderenza alla realtà e, di conseguenza, al pubblico che lo segue, fa sì che il procedere incessante del gruppo ci trasporti in una sorta di macchina del tempo dove le piccole storie e la grande Storia vengono evocate dal rumore sordo delle ruote che scivolano sull’asfalto. Non è una possibilità accessoria e neanche una risorsa inaspettata per il ciclismo, quella di raccontare le varie vicende che emergono al suo passaggio, ma ne rappresenta una sorta di connaturata inclinazione.

Quando assistiamo alle pedalate pionieristiche di Sachtleben e Allen non restiamo, quindi, sorpresi se dalle scie delle loro biciclette vengono evocate il seggio del re frigio Mida, l’alchimista, che si ergeva nel villaggio di Istanas in Turchia, laddove Alessandro Magno dimostrava al mondo il suo diritto al potere tagliando con la sua spada il nodo gordiano. Allo stesso modo, giunti intorno alle solitudini del Gobi, è impossibile che non ci venga narrata l’impenetrabilità della Grande Muraglia che per un migliaio di anni protesse i territori cinesi dalle scorribande mongole, fino all’arrivo di Gengis Kahn.

Ma cos’è la Storia, se non l’accurata selezione dell’infinito accumulo di storie individuale che la compongono? E allora con Sachtleben e Allen ci troviamo immersi in idiosincrasie locali come l’insostenibile buona educazione cinese, la particolare inclinazione persiana verso la menzogna o la pigrizia atavica dei turchi che però a loro volta non disdegnavano una certa formalità: “Un turco era impegnato nel salvare il mobilio dalla sua casa incendiata, quando nota un passante che sta rollando una sigaretta. Immediatamente si ferma, striscia un fiammifero e gli offre da accendere.”

Tuttavia, una macchina del tempo che si rispetti non va solo all’indietro, ma parte da una solida percezione del presente per avventurarsi in regioni futuribili; e quindi nel ciclismo di Sachtleben e Allen ci scontriamo con l’educazione, quantomeno deficitaria, delle donne armene, oppure con le continue frizioni tra i curdi e i turchi, così come con le tensioni che caratterizzavano il confine russo-persiano intorno a Ashgabat o quello russo-cinese a Horgos.

La storia del ciclismo è ontologicamente legata alla terra su cui i tubulari trasformano la fatica meccanica dei muscoli umani in un movimento rettilineo. Quello stesso movimento che per Jarry costituiva la vera rivoluzione della bicicletta: Il ciclo è un pleonasmo: una strada e la superfluità del parallelismo prolungato delle manopole. Il cerchio, finito, viene superato. La linea dritta infinita nelle due direzioni gli succede.

Tuttavia la natura della bicicletta, come testimoniano le prototipiche vicende di Sachtleben e Allen, non si limita ad una relazione di intimità viscerale con il substrato sabbioso, ciottoloso o asfaltato su cui sviluppa il proprio moto, ma si lega indissolubilmente anche, e forse soprattutto, all’idealizzazione di questo substrato, alla sua figurazione come una vera e propria entità, al suo essere Terra fatta — appunto — di fatica, agonismo e storia.

Questa doppia natura fisica e ideale del ciclismo sembra aver inseminato il corredo genetico della bicicletta fin dalla sua invenzione nelle officine di Karl Drais. Del resto, ogni qual volta godiamo della faccia stremata ma raggiante di un Vincenzo Nibali sotto la maschera di fango accumulatosi tra Ypres e Arenberg, non è proprio la simultaneità della realtà fisica della strada e della sua trasformazione in un’immagine della fatica, del limite umano, del viaggio e dell’impresa sportiva, a ricordarci il perché il ciclismo continui ad affascinarci?

Nelle righe che precedevano l’apparizione, come desertici miraggi ondulanti, di William Sachtleben e Thomas Gaskell Allen, Nabokov descriveva le terre da cui il duo emergeva con un paragone che prefigurava l’origine ed il destino del ciclismo, e che rimane prezioso insegnamento per noi ciclofili del terzo millennio: “era come se in quel deserto agissero ancora impetuose le forze primordiali che hanno plasmato il mondo”.

Articolo a cura di Francesco Bozzi.

Riferimenti bibliografici:

Thomas Gaskell Allen Jr. & William Lewis Sachtleben, Across Asia on a Bycicle, Inkling Books, 2003.

Vladimir Nabokov, Il dono, Adelphi, 1998.

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