We all matter

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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9 min readApr 22, 2017

“Uno direbbe che abbiamo fatto parecchia strada, ed è questo che mi rattrista. Nell’immaginario comune i neri hanno fatto parecchia strada. Abbiamo avuto un presidente nero e quindi non possiamo più parlare di razzismo? Eppure siamo ancora le persone meno rappresentate in questa nazione”.

Quando giocava, Craig Hodges era sì un comprimario con una media da dieci minuti a partita, ma un comprimario dalla mano calda. Nel 1992 eguagliò il record di Larry Bird vincendo la terza Three-Point Shootout di fila. Quello fu anche l’anno in cui vinse il suo secondo anello consecutivo, con la maglia dei Chicago Bulls, da riserva di Michael Jordan. Dopodiché iniziò il suo progressivo allontanamento dai parquet dall’NBA, a causa della sua bocca larga. Più di vent’anni prima del rifiuto di Colin Kaepernick (ormai ex quarterback dei San Francisco 49ers) di alzarsi in piedi durante l’inno americano, Craig Hodges aveva deciso di farsi portavoce attivo delle lotte sociali alle quali aderiva, tentando di coinvolgere i suoi colleghi più in vista.

“Colin (Kaepernick) è da applaudire. Sto cercando di contattarlo per esprimergli di persona il mio sostegno, vorrei dirgli che lo rispetto e che se c’è qualcosa che posso fare per lui non deve esitare a chiamarmi. Sto dalla sua parte. So che ama giocare e che non avere un contratto al momento è doloroso per quella che è la sua essenza di atleta. Il pensiero che non stia nemmeno ricevendo offerte è sconfortante. Conosco bene la sensazione”.

1991–1992, la stagione calda

Nel giugno del 1991, alla vigilia del primo incontro delle finals tra Bulls e LA Lakers, Hodges provò a convincere il compagno di squadra Jordan e l’altra leggenda Magic Johnson a boicottare la partita in segno di protesta contro il brutale pestaggio del cittadino afroamericano Rodney King da parte di quattro poliziotti bianchi, avvenuto tre mesi prima proprio nella metropoli californiana, mentre nel frattempo il censimento annuale dell’Illinois indicava che il 32% della popolazione nera viveva sotto la soglia della povertà.

Craig suggerì perciò ai due più grandi giocatori di basket di tutti i tempi di disertare il match di apertura, come atto di solidarietà che avrebbe smascherato in questo modo anche il razzismo dell’NBA stessa, che all’epoca “non aveva presidenti neri e a malapena aveva coach neri, mentre invece il 75% dei giocatori era afroamericano”. MJ gli rispose che era pazzo, mentre Magic disse: “è estremo, è troppo”. “Quello che succede alla nostra gente nel nostro Paese è estremo”, ribatté Hodges.

Quello fu solo il primo atto (peraltro mancato) di un anno caldissimo per Hodges, che nell’ottobre dello stesso anno decise di portare la sua protesta fin dentro le mura della Casa Bianca, durante un incontro con l’allora presidente George Bush senior. Craig si presentò alla cerimonia indossando un dashiki, l’abito tradizionale africano, e consegnò a Bush padre una lettera di otto pagine in cui affrontava il caso di Rodney King, criticava il bombardamento in Iraq del gennaio precedente, e cercava di parlare a nome di tutti gli afroamericani che non avevano l’occasione di capitare tra quelle mura. All’incontro era presente anche il figlio del presidente, George W., che notando il dashiki gli si avvicinò per chiedergli da quale posto del mondo provenisse, parlando per giunta lentamente come se avesse a che fare con un non anglofono.

“Chicago Heights, Illinois”, si sentì rispondere.

La sua lettera non ricevette mai risposta, ma per tutta la durata dell’anno successivo Hodges non mollò la presa e cercò di stimolare più volte i suoi compagni di squadra a devolvere come lui parte dei suoi guadagni a supporto delle comunità locali, vedendosi rispondere puntualmente picche. Tentò ripetutamente di convincere Michael Jordan a mollare la Nike e aprire un suo marchio in modo da poter creare numerosi posti di lavoro a sostegno delle fasce più disagiate della comunità afroamericana, ma ogni tentativo fu vano.

Il 29 Aprile 1992 per le strade di Los Angeles esplosero drammatiche rivolte popolari in seguito all’assoluzione dei quattro assalitori di Rodney King. Lo stesso giorno, in pieno playoff, MJ segnò 56 punti contro i Miami Heat. A fine partita gli chiesero di commentare il verdetto e lui rispose: “Dovrei informarmi, non ne so abbastanza”.

Poco tempo dopo, durante un’intervista successiva alle series contro Portland, Hodges fu apertamente critico nei confronti di Jordan e della sua mancata presa di posizione, il New York Times riprese le sue dichiarazioni, ci montò su un caso e il suo contratto non fu rinnovato. Da lì iniziò un calvario professionale che lo vide girare parecchio, ma lontano da casa. La prima squadra a riaprirgli le porte di un palazzetto fu Cantù, nel 1993.

Il rapporto con MJ e con Phil Jackson

“La nostra generazione ha lasciato cadere la palla a terra, molti di noi erano più preoccupati del guadagno economico. Eravamo praticamente all’inizio della commercializzazione globale, per cui era più facile venire coinvolti dall’aspetto individuale del branding, più che dalla tentazione di creare un movimento unitario. Ho visto i Chicago Bulls fare la storia nella maniera più significativa possibile. Avevamo anche un giocatore la cui popolarità superava di gran lunga quella del Papa. Se i Bulls avessero deciso di parlare collettivamente come una voce sola, tanto più che era la golden age del nostro sport, il mondo avrebbe ascoltato”.

Non erano tempi in cui era facile emulare Alì, Carlos e Smith: “… ai miei tempi poche persone facevano sentire la propria voce. C’era un’atmosfera parecchio conservatrice e peggiorò, perché gli atleti avevano paura di parlare, soprattutto visto quello che poi sarebbe successo a me. Nessuno mi richiamava mai, a un certo punto”.

Tuttavia, nonostante il suo declino professionale sia iniziato a causa della querelle con Jordan, Hodges non gli porta rancore: “Michael all’epoca non si sbilanciava soprattutto perché non avrebbe saputo cosa dire, non perché fosse una cattiva persona. Oggi è un imprenditore esperto, e sono contento per lui, sul serio, non lo odio per questo. Ma ha acquisito conoscenza e consapevolezza con l’esperienza e recentemente si è lasciato anche coinvolgere in iniziative lodevoli, sono sicuro che adesso è molto più conscio rispetto a certe problematiche”.

Del tutto diverso il suo rapporto con Phil Jackson, suo coach ai tempi dei Bulls ma anche l’uomo che lo richiamò nel giro dopo 13 anni di isolamento, nominandolo suo assistente ai Lakers dal 2005 al 2011. Insieme ottennero vittorie da record.

Phil era un compagno di pensiero, oltre che di lavoro: “In genere si finisce per incastrarsi in questa idea di patriottismo per cui se non marcio a tempo sono subito antipatriottico. Io e Phil invece eravamo diversi. Quando scoppiò la Guerra del Golfo molti nello spogliatoio dicevano ‘ora dobbiamo bombardarli di brutto’. Phil in genere gli lasciava finire le frasi e poi diceva: ‘se sarà così, ricordati che staremo facendo orfano un bambino che crescerà con quel dolore e con propositi di vendetta. Perciò non esultare troppo in fretta, perché gli stai lasciando l’occasione di vivere nell’attesa della ritorsione”.

L’eredità di Hodges

Nel luglio del 2016, durante la cerimonia degli ESPYs, quattro pesi massimi della NBA quali Lebron James, Carmelo Anthony, Chris Paul e Dwayne Wade, hanno deciso di lanciare un appello volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’escalation di violenza che ha visto numerosi agenti di polizia togliere la vita a numerosi ragazzi neri, e di conseguenza generare uno dei più drammatici momenti di tensione razziale nella storia recente degli Stati Uniti. I quattro atleti hanno richiesto la fine degli spari indiscriminati e hanno fatto i nomi delle vittime affinché fossero riconosciute come tali. Hanno accettato pubblicamente il loro ruolo di portavoce “privilegiati”, in quanto atleti, di una comunità. Tra gli atleti che i quattro campioni citano come fonte di ispirazione per il loro gesto, ci sono John Carlos, Tommie Smith, Kareem Abdul-Jabbar e, ovviamente, Muhammad Alì.

Ma non c’è Craig Hodges.

Eppure è difficile pensare che senza il sacrificio professionale di Craig, senza la lettera a Bush, le iniziative bidonate dai compagni di squadra e l’ostracismo dopo lo sgarbo a Jordan, oggi la generazione di Lebron avrebbe la stessa naturalezza nell’esternare le proprie preoccupazioni in merito all’atteggiamento violento dei poliziotti verso la comunità nera, o la stessa facilità nel dichiarare la propria solidarietà a Colin Kaepernick in un momento in cui lo sport istituzionale l’ha praticamente scaricato (sostenuto peraltro da gran parte dell’opinione pubblica).

D’altronde, tra tutte le forme di rappresentazione della realtà è proprio quella sportiva a godere del rapporto maggiormente simbiotico con i vari tessuti sociali. Chi ha vissuto anche solo da spettatore gli anni della violenza e del silenzio ipocrita che correva in parallelo nelle grandi arene, trova difficile negare il proprio coinvolgimento quando la situazione sfugge di mano.

Lebron parla della violenza da parte della polizia

2. Lebron difende la scelta di Colin Kaepernick

A nessuno verrà in mente di ostracizzare Lebron per le sue dichiarazioni, perché è il miglior giocatore al mondo, e le sue parole possono fare la differenza. La situazione era più delicata per Craig Hodges, il quale nel 1992 era la 32enne riserva di un Michael Jordan parecchio evasivo sulle questioni sociali del suo tempo.

Craig oggi

Hodges al momento allena la squadra di basket del suo vecchio liceo e ha rilasciato nell’aprile del 2017 un’intensa intervista-racconto al Guardian, dalla quale sono tratte le dichiarazioni che abbiamo tradotto in questa sede. Ha deciso di tornare nella sua comunità e provare a fare la differenza come guida per i ragazzi in una città difficile come Chicago. Per dire, a uno dei suoi giocatori hanno sparato per strada qualche giorno prima dell’intervista: il ragazzo ha solo 15 anni, è vivo ma non sa quando potrà tornare a giocare.

“La vita di tutti i giorni conta. Non solo Black Lives Matter, tutte le vite contano. We all matter […] Ognuno di noi vincerà la sua battaglia, alla fine. Fino ad allora farò quello che posso per tenere i ragazzi lontani dal pericolo, il più che posso. è la strada giusta”.

Hodges vive ancora di politica attiva. Non è entusiasta della presidenza di Barack Obama: “sono sicuro che abbia fatto delle buone cose, ma non ho idea di quali siano. Forse ha cercato di rendere la sanità più accessibile a tutti, ma qualcuno la gestisce ancora come meglio crede”, ma il passaggio dalla padella alla brace di Trump non gli causa ulteriore sconforto:

“Sono i cicli naturali della vita. Ci hanno educato molto poco a riconoscerli e non ci rendiamo conto che c’è una sorta di risposta suprema a tutto. Come in quella canzone, ‘Age of Aquarius’. Le cose cambiano comunque, non importa quanta resistenza gli si opponga, e stanno cambiando, anche se Trump dice che vuole fare di nuovo grande l’America. Per me, da nero, quando è stata grande l’America? Cosa c’è di tanto grande nei padri fondatori, nella guerra civile, nell’omicidio di Martin Luther King, e di Malcolm X? Nella discriminazione degli atleti neri in quel periodo? Di quale periodi parli quando dici che l’America era grande?”.

Quello che più colpisce, dalle sue parole, è che gli anni di isolamento, abbandono e sconforto non sembrano aver minimamente intaccato lo spirito dell’attivista che all’epoca oltre a essere molto più giovane e idealista, aveva anche le energie di un atleta. E il segreto sta tutto in un incontro che fece proprio all’inizio di quel periodo travagliato, sempre nella sua città.

“Tutte le divisioni tra di noi sono state fatte dall’uomo. E l’umanità sta imparando pian piano a liberarsi di questa merda. E’ stato un sudafricano, Nelson Mandela, a darmi la speranza quando avevo raggiunto il mio punto più basso, quando ero fuori dalla NBA. Lui era stato liberato qualche mese prima dopo 27 anni di prigionia, ed era in visita a Chicago. C’era questa cena in suo onore e Mandela chiese di potersi sedere vicino a me. Non ci potevo credere. Continuavo a chiedergli:’Com’è stato rimanere separato dalla tua gente per tutto questo tempo?’. Lui era incredibile, la verità gli aveva dato la forza di resistere. Non aveva bisogno di essere nessun altro se non se stesso. Questa è la libertà”.

Articolo a cura di Simone Vacatello, le dichiarazioni di Craig Hodges sono state riportate e tradotte da questa intervista-racconto pubblicata dal Guardian.

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