Werner Seelenbinder, un anti-fascista

Crampi Sportivi
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7 min readDec 6, 2013

Alle porte di un piccolo stadio di Bezirk Neuköll, sobborgo situato nella periferia meridionale di Berlino, una targa recita:

“In memoria di Werner Seelenbinder, lottatore olimpico, che si batté contro la guerra e il fascismo”.

In pochi conoscono la sua storia. Dal 1989, con il crollo del muro e la caduta della DDR, ogni indizio del suo passaggio sembra essere scomparso: cancellato da una storiografia ufficiale (e asservita), che si è subito premurata di rimuovere dagli spazi urbani e dalla memoria collettiva le tracce di un legame ancora vivo, pericolosamente stretto, con il comunismo. Adolf Hitler, al contrario, non dimenticò mai i suoi pubblici affronti verso il nazismo. I travolgenti successi sportivi, congiunti alla mai celata militanza comunista, facevano della sua irrefrenabile popolarità una minaccia al consenso e alla stabilità del regime.

Uno dei più forti campioni di lotta greco-romana dell’intera Europa: per i nazisti nient’altro che un “cane rosso” da eliminare; per la storia, invece, soltanto un altro reietto, fra i tanti suoi figli indesiderati e abbandonati all’oblio, infine rimossi. Eppure, quelli stessi sono stati accolti nei cuori di quei pochi che ne hanno condiviso gli ideali, le lotte, i dolori.

“Se mai riuscirai a tornare a casa, toccherà a te raccontare ciò che abbiamo vissuto. Devi dire tutta la verità, soprattutto ai giovani. Solo così, forse, non si ripeterà più”: queste le parole che Werner Seelenbinder sussurrò, con rabbia e sconforto, ad un compagno di cella, dopo essere stato torturato dalla polizia.

Un appello, la cui eco si propaga nel tempo, fino a raggiungere le nostre vite. E continuamente ci coinvolge, impegnandoci in una prassi che, gravida di ricordi e speranze, è orientata quotidianamente verso l’avvenire. In essa il passato si redime. Il dramma è l’ordito della narrazione, talvolta gloriosa, talaltra tragica, di esistenze consacrate a ideali di libertà e di uguaglianza. Accanto ad essi “si staglia la dignità, a compenetrare l’atteggiamento di militanti (…) che tentarono prosaicamente di tradurre” quei nobili principii “nel cuore del mondo” (cit. Gianfranco Ragona).

L’intera storia di Werner Seelenbinder pare essere pervasa da un orgoglio fervido, appassionato: quello che gli consente di vincere le Spartakiade, i Giochi Olimpici operai a Francoforte nel 1925, a Mosca nel 1928 e nel 1929, nonché a conquistare due medaglie di bronzo nei campionati europei e sei medaglie d’oro in Germania. Lo stesso con cui porta cucito sul petto un triangolo rosso, il marchio dei deportati politici comunisti. Lo stesso, infine, con cui ascolta, senza tremare, la sentenza di morte pronunciata dal giudice che, poco prima, lo aveva insultato, rivolgendosi ai giurati in preda a un impulso rabbioso: “Guardatelo, è il nostro pericolo pubblico numero uno”.

Il ricordo di chi lo ha conosciuto di persona — benevolo e soffuso di tenerezza — ci descrive, invece, nient’altro che un umile ragazzo di provincia: la corporatura possente, le mani callose, provate dalla durezza della fatica, un temperamento mite, un animo generoso. Per molti un compagno di lavoro instancabile e altruista. Per altri, semplicemente il figlio di un muratore. E, più in generale, del proletariato tedesco: quello di Stettino, in Pomerania Occidentale. Lui stesso è costretto ad “arrangiarsi”, facendo un po’ di tutto: operaio, facchino, falegname. È poco più che diciottenne quando si iscrive all’Arbeiterathletenbund, un’associazione atletica proletaria, legata ai partiti di sinistra. A 21 anni arrivano i primi successi. E poi il primo viaggio a Mosca nel 1928: è qui che si convince ad entrare nel KPD, il partito comunista tedesco.

La situazione attorno a lui, però, diviene ben presto insostenibile. La Germania, in quegli anni, è infatti dilaniata da un insanabile dissesto economico, le cui ripercussioni sul tessuto sociale si manifestano sotto forma di scioperi, crisi di governo, tentativi di golpe: una conflittualità permanente, che progressivamente finisce per smembrare il corpo politico, erodendo la dimensione collettiva. Il graduale restringimento della sfera pubblica, legato a un crescente clima di tensione, contribuisce a far vacillare gli assetti della già fragile repubblica di Weimar, favorendo in tal modo l’ascesa delle destre radicali. Il 30 gennaio del 1933, Adolf Hitler ottiene l’incarico di formare un nuovo governo. È la fine: tutte le organizzazioni operaie vengono sciolte immediatamente. Migliaia di attivisti finiscono in carcere, mentre altri passano alla clandestinità. Soltanto l’affetto del popolo e l’indiscusso valore atletico consentono a Werner Seelenbinder di non venire arrestato.

Passano pochi mesi e Werner, a Dortmund, in uno stadio gremito e scrosciante d’applausi, conquista il suo primo titolo di campione di Germania. Durante le premiazioni l’orchestra, ai piedi del ring, esegue l’inno nazista. Tutto il pubblico si alza in piedi, con il braccio teso per il saluto romano. Werner Seelenbinder, con fierezza, non canta: rimane immobile, con lo sguardo fisso, i pugni stretti, le braccia conserte dietro la schiena.

Il biografo Walter Radetz racconta che “qualcuno, quella sera, gli donò un grosso mazzo di rose rosse. Lui le alzò in alto, di fronte alla platea. Poi ne prese alcune e le distribuì al secondo e al terzo classificato. I due poveracci erano troppo terrorizzati: non ebbero il coraggio di rifiutare”. Una piccola, ma significativa, rivincita sul regime, un atto di solidarietà per tutti i compagni detenuti. Gli costeranno una squalifica sportiva di 16 mesi e una reclusione di dieci giorni nella Columbia-Haus, una delle prime carceri della Gestapo. E soprattutto l’attenzione della stampa nazista, e quella delle questure.

Tutto questo, però, non basta a intimorirlo, non lo fa recedere di un passo dai suoi propositi: quello di Dortmund non dovrà restare l’unico, plateale, gesto di sfida lanciato al Führer. Nel 1936, decide così di iscriversi alle Olimpiadi di Berlino. Agli amici rivela: “Hitler, lo saluterò a modo mio. Se conquisto il podio, farà bene a non presentarsi”. Purtroppo arriva soltanto quarto, ma le sue intenzioni erano note a tutti.

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È gareggiando all’estero, però, che Werner potrà offrire un contributo attivo, concreto, alla lotta al nazismo, aderendo al Soccorso Rosso Internazionale . I frequenti viaggi divengono così il pretesto per trasportare documenti falsi, valuta straniera, stampa sovversiva, manifesti e volantini di organizzazioni clandestine: materiale illegale che nasconde negli scomparti segreti delle valige. Vincere, o quantomeno piazzarsi sul podio, diviene allora condizione necessaria per poter proseguire, in segreto, il lavoro di sabotaggio.

Tutto ciò, però, non sembra poter arginare la violenza nazista, divenuta ormai inarrestabile. Seelenbinder ne è consapevole. Per questo decide di dare un apporto ulteriore, diretto, alle cellule della Resistenza. Nel 1938 stringerà, quindi, contatti con il Robby Gruppe (Gruppo Robby): una formazione ben radicata fra i lavoratori di Berlino, capeggiata da Robert Uhrig, un operaio comunista delle officine Osram. Tra gli attivisti c’è anche Charlotte Eisenblätter: atleta di salto in alto, compagna di Werner.

I due si attivano fin da subito per dare rifugio e denaro a compagni ormai individuati. Ma è tutto vano: il 4 novembre 1942 una retata delle SS porta all’arresto di circa 200 militanti. Tra loro ci sono anche Werner e la compagna. Charlotte sarà trucidata nel carcere di Berlino nell’agosto del 1944. Werner, invece, viene prima recluso nel carcere di Alexanderplatz e quindi a Großbeeren, uno dei più duri lager della Prussia centrale, dove viene torturato affinché riveli i nomi di compagni ancora latitanti. Lui, eroicamente, non parla, scegliendo la morte al disonore. Verrà decapitato il 24 ottobre del 1944, nel campo di concentramento di Brandenburg-Görden, all’età di 40 anni.

La straordinaria esistenza di Werner Seelenbinder testimonia di come lo sport possa farsi mezzo di un antagonismo politico, per molti impensabile in questo tempo. Un potenziale etico e rivoluzionario che si attua, rigenerandosi, negli sforzi di chi, non senza sacrifici e rinunce, giorno dopo giorno pratica lo sport “dal basso”: nelle strade, nei quartieri, nelle palestre popolari. Luoghi in cui lo sport viene inteso, e vissuto, come un’esperienza di condivisione di valori antitetici al fascismo, tanto da renderlo parte ineludibile di un processo d’emancipazione culturale e sociale. In essa giunge a riscattarsi la memoria di chi è morto incarnando fino alla fine un ideale di libertà.

Spero di essermi conquistato un posto in qualche cuore, tra gli amici e i compagni di sport. Questo pensiero mi rende molto orgoglioso: ti prometto che saprò essere forte” — Werner Seelenbinder, ultima lettera al padre

FL (aka Briatore, Kien, Faty) è un giovane hegeliano, campione di tressette nei bar di quartiere. I suoi sport preferiti sono i cali di autostima, il disfattismo e il tedio esistenziale. Che rifugge camminando di notte, senza meta, per Roma: attività assai lodevole, ma di scarsa utilità pratica, che gli procura solo fastidiosi crampi.

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