Yaroslav Popovych: la bici e nient’altro

Crampi Sportivi
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5 min readApr 14, 2016

Luglio 2006. A Milano fa quel caldo soffocante come può fare solo a Milano a metà luglio. Dalle finestre non arriva nemmeno un soffio d’aria, e l’unico suono che sfugge al deserto sono i clacson degli automobilisti locali che da qualche giorno non smettono di improvvisare caroselli per festeggiare la squadra nazionale di pallone, reduce dall’ennesimo successo in quello stanco e noioso rituale che sono i mondiali di calcio.

Un rumore fastidioso quasi quanto l’afa, lo scenario peggiore per me che in questo pomeriggio di luglio mi trovo davanti a un computer lento nel disperato tentativo di ultimare una tesi di laurea da consegnare in copisteria entro sera, ultimatum definitivo per avere il tomo in mano in tempo per la discussione prevista tra due giorni. La soluzione è la più scontata: inventare di sana pianta il maggior numero di dati possibili per concludere il lavoro, abbandonando ogni velleità scientifica.

Il 14 luglio però non è una data qualsiasi, perché è il giorno della presa della Bastiglia, ed è da sempre un giorno speciale per il Tour de France che, liberatosi ora dalla zavorra calcistica, sta finalmente spiccando il volo. Un occhio e sul computer e l’altro sul televisore, per qualche minuto. Poi la scelta è obbligata: fregarsene di concludere la tesi e concentrarsi su qualcosa di più importante. Quel qualcosa sta scritto in sovraimpressione, è una tappa che si conclude a Carcassonne e che mi ricorda il sorriso a denti larghi di Eva, la franco-portoghese con cui avevo condiviso uno dei primi weekend del mio Erasmus francese di qualche anno prima. Un amore travolgente, durato 48 ore, inevitabilmente non corrisposto.

Dai protagonisti di questa tappa invece sento che l’amore potrebbe essere ricambiato, perchè la fuga è ormai andata e i quattro nomi lì davanti sono nomi da rapirmi il cuore. Uno è Le Mevel, perchè un francese il 14 luglio ci vuole sempre. Uno è Ballan, che nel luglio del 2006 è ancora un giovane di belle speranze (e che speranze). Poi c’è Freire, e ogni precisazione qui mi parrebbe superflua. Ma quello che mi fa spegnere il computer è il quarto della compagnia: si chiama Yaroslav Popovych e per me, in quell’istante, rappresenta il concetto stesso di tempo.

Yaro Popovych — precisamente Ярослав Попович, traslitteratelo come preferite — è stato probabilmente il più forte dilettante del ciclismo moderno. Per chi seguiva il ciclismo giovanile negli anni a cavallo tra i millenni, il passaggio di Popo è stato folgorante: non c’era corsa che sembrasse fuori dalla sua portata, e a conti fatti non c’era corsa che Yaroslav non finisse in qualche modo per vincere. Testimoni sono due mondiali di fila sul podio: prima un argento, poi un oro, a Lisbona 2001, con uno dei numeri più incredibili che mi sia mai capitato di vedere da un ciclista. Tanto bastò a convincere Ernesto Colnago ad allestire una squadra fatta per crescere con lui: Popovych era the next big thing, il corridore destinato a dominare il ciclismo per almeno un decennio. C’era solo da coltivarlo.

L’esordio tra i pro fu col botto, e la felice idea di Colnago parve giustificata: Popo sembrava un corridore tagliato su misura per i grandi giri: già all’esordio stampò un notevole dodicesimo posto al Giro d’Italia. L’anno successivo finì sul podio della corsa rosa e, in un ciclismo sempre meno muscolare, i suoi polpacci scolpiti risuonavano come l’Inno alla gioia. Come “Rockin’ in the free world” suonata a palla in un ricovero per depressi.

Ma il tempo scorre in fretta, e quel volo che Yaro avrebbe dovuto spiccare da un secondo all’altro in realtà non comincia mai. Qualche altro piazzamento, poi il nulla. Il cannibale di domani diventò, come spesso capita, il cannibale di ieri, e poi dell’altroieri. Qualcosa di visto e rivisto in ogni sport: il talento non corrisponde ai risultati, scende un velo di tristezza, presto ci si dimentica di tutto.

Sul perchè Popovych non sia mai diventato un campione un giorno probabilmente si scriveranno dei libri, e ogni interpretazione sarà considerata plausibile. La spiegazione più semplice è una banale mancanza di ambizione. A Popo andava bene così: diventare un ciclista era stato il sogno della sua vita, e lui l’aveva realizzato prestissimo. Perchè desiderare di più?

Quello che mi ha fatto adorare Popovych non sono stati tanto i precoci guizzi di talento puro, quanto piuttosto il suo amore incondizionato per lo sport a due ruote. It’s all about the bike. La carriera di Popo conta 15 anni di professionismo e una manciata di vittorie, alcune più pesanti altre meno, comunque nulla a che vedere con il palmares di un predestinato. Certo, come ama ripetere lui stesso, alle sue vittorie andrebbero aggiunte quelle dei capitani che ha servito con totale devozione. Ma poi, dopotutto, a chi importa dei numeri?

La carriera di Popo conta 15 anni di gioia nel pedalare, questo importa. Non c’è gara che non l’abbia visto correre con il sorriso sulle labbra, non c’è compagno di squadra che non abbia amato l’uomo Popovych prima ancora che il corridore Popovych. Popo ha pedalato come un virtuoso della batteria che si mette a disposizione di una band: un ruolo di fatica in cui la massima soddisfazione possibile viene dalla condivisione della gioia con chi ti sta intorno.

Forse è per questo che oggi tutti ne sentono già la mancanza. Oggi che Popovych ha appeso definitvamente la bici al chiodo, dopo un’ultima Roubaix iniziata in fuga, interrotta per attendere ancora una volta il capitano e infine conclusa pedalando soddisfatto fino al velodromo. Al traguardo è stato festeggiato tutti, a partire da Fabian Cancellara: anche l’uomo il cui saluto finale all’inferno del nord sarebbe finito su tutte le copertine ha trovato il tempo necessario a issarsi sulle spalle gli 80 e passa chili di Popo per tributargli un omaggio.

Con Popovych sembra andare in pensione un’idea di ciclismo fatta di fatica e di divertimento allo stesso tempo. Fatta d’amore, insomma. Lo stesso amore che ci porta a perdere i pomeriggi ad osservare gente che pedala, impreca, suda e sputa. La stessa magnetica passione che ci porta a dimenticare una tesi di laurea da finire, perchè il Tour è più importante, perchè prima viene l’arrivo di tappa e poi segue tutto il resto.

In quell’afoso luglio del 2006 Popovych vinse la tappa di Carcassonne grazie più che altro ad un tacito accordo tra Discovery e Rabobank: l’immenso Freire si sacrificò per proteggere la vittoria del grande Popovych. Io riuscii ugualmente a consegnare in tempo una tesi dai risultati discutibili, strappando una valutazione più alta di quanto avrei auspicato. I clacson continuarono a suonare ancora per qualche giorno, finchè la città non si riversò del tutto verso le spiagge, dimenticandosi ben presto sia dei mondiali di calcio che di uno strano Tour de France. Nell’aria restava soltanto il tormentone di quell’estate, che involontariamente rendeva omaggio a un ciclista che non sarebbe mai diventato un campione ma che, certo, non si poteva non amare. Una melodia che faceva PO-PO-PO-PO-PO-PO-PO

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