L’aroma della tradizione ne ‘La bottega del caffè’ di Scaparro

Elena Cirioni
Cronache Teatrali
Published in
4 min readNov 14, 2015

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«Il caffè, la preziosa bibita che diffonde per tutto il corpo un giocondo eccitamento, fu chiamata la bevanda intellettuale, l’amica dei letterati, degli scienziati e dei poeti.» Così scrive Pellegrino Artusi nel suo libro più conosciuto La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Il caffè è uno dei prodotti italiani per eccellenza, ma come il pomodoro e gli spaghetti non è nato nel Bel Paese. Secondo antiche tradizioni arabe sarebbe stato introdotto in Yemen verso il Trecento per prolungare le veglie di preghiera dei Sufi. Nel corso dei secoli da bevanda mistica diventa alla moda: a Versailles non si fa altro che bere caffè e nel 1640 apre la prima caffetteria in Europa. Dove? Nella città più alla moda e libertina del continente: Venezia. In suo onore nel 1750 Carlo Goldoni scrisse La bottega del caffè e gli portò molta fortuna, visto che tra tutte le sue opere questa è quella che ha avuto maggior successo, a cominciare dalla prima messa in scena a Mantova.

In occasione dell’Expo di Milano dedicata al cibo, Maurizio Scaparro ha ideato la regia di questa commedia goldoniana. A farla da padrone è la tradizione che delinea una messa in scena lineare, così come il pubblico probabilmente ha sempre immaginato le commedie di Goldoni.

L’azione inizia in una mattinata invernale a Venezia, durante il giorno che più rappresenta la città: il Carnevale. Nonostante La bottega del caffè sia tra Le sedici Commedie Nuove scritta e recitata in italiano e non in dialetto veneziano, Venezia rimane la vera protagonista. È la città libertina e tripudio dei vizi, ma anche quella dei commercianti usurai avidi di denaro. Goldoni osserva, ascolta, vive tra le calli veneziane e riporta tutto nelle sue opere, tracciando le personalità di personaggi veri non più maschere della Commedia dell’Arte.

In questa maniera nascono eroi comici di un mondo fatto di merletti e maschere: truffatori incalliti, malelingue, libertini che non mettono mai giudizi insieme a belle dame svenevoli si ritrovano nella Bottega del caffè di Ridolfo (Vittorio Viviani). Il negozio nella messa in scena di Scaparro (a cura di Lorenzo Cutuli) rappresenta il lavoro onesto, la sicurezza delle abitudini raffigurate in quelle tazze di caffè servite dal garzone Trappola (Alessandro Scaretti) nipote di Arlecchino. Dall’altra parte della scena invece c’è la Bisca di Pandolfo (Ezio Budini) il luogo della perdizione e del vizio, dove spesso i gentiluomini perdono la reputazione e i quattrini proprio come capita a Eugenio (Manuele Morghese) e a farne le spese è la moglie Vittoria (Giulia Rupi). Poi c’è chi si finge d’essere Conte come Flaminio (Ruben Rigillo) innamorato della bella ballerina Lisaura (Maria Angela Robustelli) e rincorso dalla moglie Placida (Carla Ferraro. E infine c’è lui Don Marzio (Pino Micol) malalingua insopportabile che muove come pedine tutta la schiera dei personaggi, nulla sfugge ai suoi occhialetti e scruta, analizza, inventa storie. Dietro di lui si nasconde l’autore della Commedia a tratti malinconico, nostalgico per quella Napoli che Goldoni sognava di vedere, ma attaccato in maniera viscerale a Venezia e ai suoi vizi, primo tra tutti: il denaro.

Quello che Scapparo e i suoi attori hanno portato in scena è una resa fedele della tradizione delle commedie goldoniane. Godibile nonostante qualche pecca recitativa da parte degli attori, ma per fortuna a salvare la scena ci sono Pino Micol e Vittorio Viviani pilastri di uno stile recitativo che rispecchia la tradizione della cultura italiana, proprio come il caffè.

Elena Cirioni

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Elena Cirioni
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Elena, Scrivo di teatro, libri e cinema. Racconto della mia città, Roma. Lavoro per la tv, #Rai3