Always him. Mario Balotelli è una metafora

Mattia Galeotti
Crossroads
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4 min readOct 9, 2016
foto: VALERY HACHE - AFP

Non vogliamo analizzare lo stile di Balotelli, le sue qualità tecniche o l’andamento della sua carriera. In troppi si sono già dilungati su questi argomenti. Piuttosto ci interessa come sul personaggio-mediatico Balotelli si addensino, soprattutto nei grandi media, i discorsi e le caratteristiche dello “straniero”, del “migrante”. Un frame dentro cui si svolgono ogni mossa, ogni azione, ogni intervista di Balotelli. Molti di questi discorsi non sono riservati a “Super Mario”, vengono utilizzati anche per altri sportivi, calciatori in particolare. Quello che rende speciale Balotelli è la coesistenza di tante narrazioni che ne fanno costantemente un soggetto “di passaggio”.

Si comincia dal suo percorso professionale. Ogni trasferimento, ogni cambio di proprietà del cartellino di Balotelli, è per lui una “nuova vita”. Come se fosse un precario qualsiasi, all’inseguimento di occasioni che si presentano in tempi e luoghi diversi, Balotelli è sempre sull’orlo di una “prova” in qualche angolo d’Europa. Se l’esperienza precedente è stata al di sotto delle aspettative, gli si chiede una redenzione, una ripartenza. Se invece arriva da un successo, da una stagione positiva, deve essere pronto ad andare al gradino successivo, a rincorrere un’asticella un po’ più in alto. Sempre alla ricerca di occasioni, Balotelli deve continuamente dimostrarci e dimostrarsi qualcosa.

Quando si passa ad analizzare il suo gioco, ci troviamo dentro un’altra stretta dicotomia. Se va male è una delusione, c’è ricascato, ha fallito una missione, ha perso un diritto che gli avevamo concesso credendo in lui. Se va bene è il lieto fine di una storia magnifica, è un predestinato, è un percorso che è andato come la realtà patinata voleva che andasse. Come uno studente alle prese con gli esami in qualche università straniera, in bilico tra la storiella da giornale di “quello che ha fatto carriera all’estero”, e l’ansia secca di tornare a casa con la coda tra le gambe se i soldi o le motivazioni finissero prima delle occasioni di laurearsi. Ecco, magari è bene ricordarcelo che quest’ultimo problema, quello del cash, da un po’ di tempo Balotelli non ce l’ha più, ma qui parliamo di simboli e narrazioni, quindi proseguiamo.

Cosa c’è tra il Balotelli semi fallimentare del periodo al Liverpool, isolato dentro lo spogliatoio e criticato e bersagliato dai giornali, ed il Balotelli idolatrato al suo arrivo a Nizza, un mese fa, che segna 5 gol nelle prime 3 partite di campionato? Probabilmente c’è tutto, c’è l’allenamento quotidiano, gli acciacchi fisici, le difficoltà psicologiche e di inserimento in ambienti nuovi. Un po’ come per noi, tra la narrazione dell’ “espatriato che ha successo” e di quello “che ha fallito”: le vicissitudini quotidiane mentre stai imparando una nuova lingua, le indecisioni sui percorsi da seguire, la nostalgia di casa o la necessità di indipendenza, una storia d’amore a distanza o un datore di lavoro stronzo.

C’è la quotidianità e ci sono i pregiudizi. Come sa bene chi gira in lungo e in largo. Per Mario ci sono i giornalisti che ironizzano sui suoi gossip, sulle sue abitudini, e gli chiedono se giocare in Costa Azzura possa essere problematico per via dei molti Night Club; per noi c’è quel sospetto che l’accento italiano possa sollevare facili sorrisi, che lo stereotipo sia sempre dietro l’angolo. Ancora una volta, perennemente di passaggio ma perennemente schiavi di una rappresentazione ben poco soddisfacente.

E poi ovviamente c’è il Balotelli di successo, che ci piace perché sembra superare le difficoltà come un eroe romantico. Perché ribadisce appena possibile che punta al successo massimo. Quel Balotelli che dopo l’ennesimo gol con la maglia del Manchester City irrise i critici con questa maglietta

e sorridi ogni tanto!

Un po’ come avremmo voluto fare noi, sotto il palazzo di Westminster a Londra, con una maglietta “turista sarai tu” all’indirizzo del governo inglese, ed un sorriso stampato in faccia per l’ultimo esame superato, per un nuovo lavoro, o semplicemente per essere davvero riusciti ad inviare una application prima della deadline.

Fino alla prossima prova, alla prossima crisi che dovremo superare redimendoci ancora. Quelli che in altri tempi o in altre carriere sarebbero stati normali alti e bassi, per noi e per Balotelli sono sempre passaggi cruciali e valutazioni stringenti. Come Mario, siamo sempre in un regime di eccezionalità, mai completamente “cittadini” di una squadra o di un campionato.

Quello che distingue Balotelli da altri calciatori è che per lui la possibilità di trovare una “normalità” sembra preclusa ovunque, la narrazione che lo insegue è una messa alla prova senza posa e lo fa diventare capro espiatorio di ogni problema. Si tratta di uno schema perverso di cui non esiste soluzione, perché è il personaggio-Balotelli stesso ad essere definito come rebus irrisolto. Ci sono tanti motivi per l’eccezionalità balotelliana: i suoi numerosi alti e bassi sportivi, probabilmente la sua insofferenza verso i media, certamente la sua pelle nera. Ma in questa “incompiutezza” diventa rappresentativo di tutti noi con un’esistenza dai tratti temporanei, in bilico tra un contratto precario e quello successivo, tra un esame da passare a tutti i costi e qualche mese a fare un lavoretto in Inghilterra, tra una tesi all’estero ed il ritorno a vivere coi genitori. Condannati a subire narrazioni colpevolizzanti, perché in un mondo che cambia senza risolvere le sue contraddizioni, siamo noi ad essere definiti come il problema. Noi che ci troviamo a vivere tra un confine e l’altro, potenzialmente sempre in partenza, sicuramente stranieri anche in quell’Europa che, ci avevano detto, ha abolito le frontiere. Siamo un fenomeno derubricato alla colonnina destra di Repubblica ma, come Balotelli, senza nessuna voglia di restare dentro le gabbie.

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Mattia Galeotti
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