Cronache del restare a cavallo

Crossroads
Crossroads
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4 min readNov 18, 2016

di A.

E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c’è sosta per noi,
ma strada, ancora strada
e che il cammino è sempre da ricominciare.

(E. Montale)

Ci avevano detto che se avessimo fatto le cose giuste avremmo avuto il nostro posto giusto ma non era vero, era una bugia di un mondo passato di moda o una sconsolata speranza nella giusta Provvidenza.

Quando anche loro si sono accorti che non era vero ci hanno detto che era colpa nostra, che eravamo buoni a nulla, senza voglie, schizzinosi e superficiali e che volevamo troppo, volevamo tutto, li.

E quando è sembrato che non ci fosse più posto per noi ce ne siamo andati, ognuno con le sue idee più o meno romantiche, i suoi desideri più o meno realizzabili, i suoi timori più o meno durevoli, tutti in quelle poche valigie pesanti nelle stive dei voli lowcost e scomodi o dei bus scomodi perché lowcost (i treni meno, che quelli pure costano caro). Avevamo la fatica nelle braccia, le occhiaie della canna pre partenza nella speranza di dormire, il cuore leggero e la testa pesante, o viceversa, o tutt’e due.

Ci hanno chiamati la ‘generazione Erasmus’, i ‘cervelli in fuga’, gli ‘expat’: cercano di definirci perché questo nostro modo di stare al mondo è inafferrabile, soprattutto quando proviamo ad essere in più altrove contemporaneamente.

Succede ad esempio che la mattina sei in Italia a dare uno, due esami, poi prendi il treno e sei di nuovo di là dalle Alpi, perché la mattina dopo si lavora. In testa hai un mescolìo di lingue che non sempre il tuo cervello è disposto a reggere e nel portafogli quattro sim di tre paesi diversi che per forza una la perdi.

A volte sai perché parti e poi non sai perché rimani. Forse perché non sai scegliere, forse per prenderti una pausa dall’ennesimo trasloco, forse perché ti sentivi al centro del mondo e tornare era come rischiare di perdersi qualcosa. Forse per quell’irrequietezza che quando non riesci a risolvere finisce che rimani nel mezzo. Uno pari e palla a centrocampo, in mezzo ai piedi.

Nella testa e negli occhi si moltiplicano i luoghi familiari, le mappe a cui sei affezionato, i confini si sfumano nell’attraversarli continuamente.

Nel frattempo però devi spiegare, perché alla gente detta così non basta.

Quante volte che “No, non sono iscritta qui all’Università; no, non sto facendo la doppia laurea; no, non cerco una borsa di dottorato”. E allora te la devi inventare la versione di comodo: “qui almeno c’è ancora il welfare” dici pensando a quei 120 euro che ti rimborsano sull’affitto che comunque non bastano e il boulot de merde lo devi fare comunque; “qui è più facile trovare un tirocinio pagato” dici pensando che ancora non ti sei messa a cercarlo.

E comunque non ti convince, non è questa la verità.

Quando anche la gente non sembra convinta conclude con “Dai almeno sei a XXX” come se l’immaginario scintillante e romantico di quella metropoli dove stai bastasse a compensare la fatica di viverci, in quella città di cui tu conosci più che altro il lato brulicante e sommerso, fatto di gente che ha sempre fretta e gente che si è persa per strada.

È un miscuglio liquido e oscillante di fuga e desiderio, opaca sperimentazione senza ricerca.

Chi lo sa se siamo felici, nessuno ce lo chiede mai spesso. Ci chiedono più che altro di dimostrare che funziona, che abbiamo fatto bene.

Devi essere riuscito, essere realizzato, rimanere fedele a quell’immagine di giovane emigrato di successo che ha trovato l’Eldorado per nutrire le illusioni e i rimpianti di chi resta ma anche per cullare l’orgoglio di chi non è partito perché gli altri lo sanno che comunque, gli odori, i sapori, gli affetti di casa, qualunque essa sia, ti mancano e certe volte non ti invidiano per niente ed è giusto così.

In mezzo c’è un sacco di altro.

Non si dice mai che essere partiti è anche affetti che si sfilacciano perché appesi ad una connessione internet traballante che speri ti permetta quella chiamata Skype che non può bastare a due corpi che non si incontrano più, a quattro occhi che hanno i pixel al posto delle sfumature.

Quante volte parti da solo perché precarietà è anche questo: non poter scegliere insieme, non essere liberi in due.

In mezzo c’è un sacco di altro.

Non si dice mai che essere partiti è sentire la mancanza bruciante del fare politica laddove non trovi spazi e persone con cui riconoscerti e quando li trovi non li capisci e all’improvviso e contemporaneamente sei travolto dallo tsunami di un movimento potente e nuovo che ti lascia senza energie e un sacco di domande aperte, l’agenda piena, le mailing list e le assemblee fiume.

In mezzo poi ci sono quelle persone che diventano la tua nazione, la comunità degli spaesati senza bandiere che sanno cos’è la gioia e che anche loro non sanno dove andare ma che si fa, procediamo per tentativi, insieme?

Chi lo sa se resti, parti, ritorni, un po’ più avanti o un po’ più indietro sui tuoi passi, intanto sei in transito nel mezzo, sedotto dagli echi di sirene insistenti che ti dicono che forse un altro posto ancora da chiamare casa c’è, ancora un po’ più in là.

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