Fatica e relazioni

fra Pisa, Venezia e Parigi

Crossroads
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4 min readFeb 20, 2017

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Da una nostra lettrice

Pisa, Venezia, Parigi, Venezia, Parigi, Pisa Venezia, città dove arrivo e riparto continuamente. Milano, dove cerco di andare, che c’è la mia famiglia.

Sono continuamente sul treno e sull’aereo. E non è che essere cittadini del mondo sia tutta sta figata, più che altro è una grande fatica, soprattutto quando lo stipendio è di 1017 euro al mese, e sei all’ultimo gradino della scala gerarchica. Perché sì, l’Università è tremendamente gerarchica.

Una fatica fisica, oggi vado e torno da Pisa a Venezia in giornata, arriverò alla stazione di ritorno alle 23.19.

Due anni fa, quando lo facevo più spesso, ero partita alle 7.30 del mattino da Pisa e ci sono tornata alle 21.03, sono sicura, che oramai gli orari dei treni li so a memoria. Mi è caduta la borsa e tutti i compiti degli studenti si sono sparpagliati sulla banchina. Per fortuna un ragazzo che fa il venditore ambulante, che stava prendendo il treno sul binario opposto, si è fermato ad aiutarmi, altrimenti penso che mi sarei seduta sul binario, in lacrime e a gambe incrociate invocando la mamma.

La stanchezza la sento quando arrivo a casa e mi butto a letto e la mattina dopo bisogna disfare la valigia, fare la lavatrice, andare in Dipartimento dove ci sarà sicuramente qualcosa di rotto, la stampante o il computer, ché le cose quando vai via sono peggio di un fidanzato lagnoso, sembra che si vendichino smettendo di funzionare.

Una fatica mentale, perché devi prendere i biglietti dell’aereo, del treno, organizzare la valigia, ricordarti mutande calze, il vestito elegante per il convegno caricabatterie libri e quell’articolo stampato da dare alla professoressa, tentare di non sbagliare e trovarti nella città giusta il giorno giusto.

Una fatica emotiva. Perché a settembre sono andata a vivere con il mio ragazzo e a inizio novembre avevamo dormito insieme 15 notti. Perché gli amici li vedi a spizzichi e bocconi, e anche loro sono sparsi in giro, e quindi c’è il tempo per una birra a Milano un sabato sera, un pranzo domenicale a Pisa, ma poi alle 15.00 a casa “che ho la scadenza del paper e questa settimana fra tutti i giri non sono riuscita a raccogliere le idee”.

E poi quando muore qualcuno a un’amica cara la senti la mancanza della possibilità della quotidianità. Perché avresti voglia di andarla a prendere tutti i giorni al lavoro, di passare a casa sua dicendo “ci fumiamo una sigaretta?”, di farla ridere portandola al cinema a vedere Bridget Jones, che di sicuro non fa pensare. E invece per vedersi bisogna prendere un treno, o un aereo. E Whatsapp e Skype non sono la stessa cosa del corpo, di un abbraccio, di uno sguardo.

Dicono di me che sono un’inguaribile ottimista. Ed in generale è vero. Non sono però ingenua. E allora mi dico, e mi ripeto strenuamente, che quello che ho è la consapevolezza dell’importanza di una rete che mi tenga insieme, di un tappeto elastico che mi sostenga.

E quello che fa diventare dei fili sparsi una splendida tela intrecciata sono le relazioni.

Sono una casa parigina di due amici, piccola e allegra, che mi accoglie ogni volta che atterro, e ce ne sono almeno altre 4, se loro non ci sono. E in quella casa gli scherzi di sempre, i ruoli che ciascuno gioca, e abbracci e risate.

Sono le bevute e le confidenze con i miei colleghi e amici a Venezia, ché “che dai andiamo a bere un bicchiere da Lele” e poi i bicchieri si moltiplicano, da Lele, da Simone, e gli ultimi ai luridissimi “Biliardi”, e si apre il cuore, fra risa e pianti, ché non abbiamo paura di piangere fra noi, e questo è splendido.

È la casa a Pisa, dove arrivo e trovo Enrico che dorme e quando lo vedo riesco solo a pensare a com’è bello, con quelle ciglia lunghissime. Domani mattina prima di alzarci ci sarà un quarto d’ora di scemenze e risate, e alla fine, sempre, la litigata su chi si deve alzare per fare il caffè.

È il collettivo fotografico, che resiste nonostante le vite incasinate di tutti, facciamo ancora assemblee che durano fino alle due di notte e questo sabato facciamo una mostra.

E allora mi viene da pensare che non bisogna perderlo mai, il legame con gli affetti, e che costruirlo è più faticoso per la mia generazione sballottata, ma anche che queste relazioni, proprio perché si fondano sulla cura e non sulla quotidianità, saranno longeve. Il femminismo una cosa l’ha messa in chiaro, che la politica e le lotte nascono dalle relazioni e dalla libertà nei legami, dall’uscita dalla solitudine.

E allora, da inguaribile ottimista, penso che questa fatica e questi legami potrebbero essere l’inizio, certo embrionale, di qualcosa.

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