La vera vita di un ricercatore italiano all’estero

Crossroads
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6 min readOct 31, 2016

Con questa intervista vogliamo cominciare una serie di interventi su ragazzi e ragazze che hanno avuto esperienze di lavoro fuori dal loro paese d’origine. In particolare in questo caso si tratta di gettare uno sguardo sul mondo dell’accademia nord-europea, troppo spesso descritto come un luogo miracoloso in cui gli sforzi dei “cervelli in fuga” vengono magicamente premiati e le ambizioni soddisfatte.

Abbiamo parlato con Andrea, un ricercatore italiano in matematica dottoratosi all’Imperial College di Londra e adesso in post-doc a Düsseldorf.

Quando sei partito dall’Italia? Quanto avevi pianificato le tue scelte? Pensavi di tornare?

Sono partito 5 anni fa dopo la laurea, ponderando le mie scelte con un orizzonte minimo. Già quello che sarebbe stato di me dopo un anno mi sembrava imprevedibile. Ricordo che il mio relatore dopo la laurea disse a quelli di noi che partivano per un dottorato all’estero “voi potrete tornare tra una decina d’anni”. La cosa mi fece sorridere perché mi sembrava un tempo infinito. Oggi, esattamente a metà dei dieci anni, la ritengo una stima ragionevole.

Come ti sei trovato a fare un dottorato a Londra? Com’è la vita nella capitale inglese per chi frequenta l’accademia?

Ho preso una borsa di dottorato all’Imperial College e mi sono subito ambientato benissimo in città. Londra è una città particolare anche tra le grandi metropoli. Soprattutto se fai parte di una rete accademica, la città è coinvolgente ed è una spugna culturale rispetto alle tante persone che la attraversano. Certo magari ti trovi a frequentare pochi inglesi, ma penso che questo sia abbastanza normale, la particolarità di Londra è che non per questo senti di essere meno a casa. Una situazione diversa ad esempio dalla Germania (dove vivo adesso) in cui “l’obbligo ad integrarti” è ben più pressante (e il tedesco è molto più difficile). E poi ho percepito Londra come includente anche dal punto di vista politico: ad esempio i cittadini europei hanno — forse dovrei dire avevano, visto che col Brexit molte cose cambieranno — diritto di voto alle comunali. Certo, la città è molto cara e circa metà della borsa se ne va con l’affitto, ma devo dire che per chi ha un dottorato e non ha esigenze speciali penso sia accessibile. Credo la situazione sia molto diversa per chi fa il cameriere a Soho.

Dopo il dottorato qual è stato il tuo percorso accademico?

Dopo Londra sono entrato nel vortice dei post-doc. Prima a Basilea un anno, adesso a Düsseldorf comincio un contratto da due anni. Poi non so. Potrei imparare il tedesco, restare qua. Intanto sto preparando una application per la Francia. Sono abbastanza certo che non mi prenderanno ma è bene “far sentire in giro il proprio nome”. Almeno così dicono. La verità è che non so dove sarò tra un paio d’anni.

Descrivi uno scenario di continua transizione e precarietà nell’ambito della ricerca. Si tratta di un fatto diffuso?

Oggi lo spostamento in accademia è intrinseco, specialmente nelle “scienze dure”. Io mi sono assuefatto allo spostamento, non riesco ad immaginare la mia vita ferma in un posto.

Certo non si tratta di un fenomeno nuovo, però ha cambiato di passo e di incisività. Il posto fisso da ricercatore o professore è uno status a cui accede una piccola percentuale di persone ogni anno, il resto rimbalza da un contratto temporaneo al successivo. Ormai la forma del “tempo indeterminato” è scomparsa anche in università.

Una volta si diceva “un post-doc te lo danno finché sei giovane”, ormai non è più così. Si trovano post-doc 40enni bravissimi. In più in Europa l’incoerenza e la sconnessione dei vari sistemi rendono il tutto ancora più difficile. L’UE ha complessivamente una macchina accademica più grande degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo molto più macchinosa e le regolamentazioni e prerequisiti non convergenti. Non c’è nemmeno la stessa lingua. Il risultato è che se cambi paese frequentemente devi ogni volta re-inserirti, ri-diventare familiare con le specificità del nuovo sistema di ricerca, re-imparare la lingua. Si percepisce che non c’è una politica Europea: sostanzialmente, l’unica istituzione diffusa a livello universitario è l’Erasmus e le poche borse veramente europee, come le Marie Curie, sono appunto borse, hanno un effetto sulle direzioni di ricerca ma sottostanno ai sistemi accademici invece di plasmarli ed uniformarli.

Quindi quali sono le soluzioni per districarsi nell’ambiente della ricerca? Quali linee guida per chi ha una laurea o un dottorato? E anche, quali effetti può avere questa situazione sulla ricerca e sui ricercatori?

La verità è che il “sistema” cambia radicalmente ogni 5 anni circa. Fino ad alcuni anni fa la Francia era il sistema trainante in Europa, in particolare nella matematica pura. Adesso non è più così. Però ciò che non cambia è che i diversi sistemi nazionali scendono poco a compromessi gli uni con gli altri. Il risultato sono le difficoltà di transito di cui parlavo, ed anche un certo disorientamento. Un aneddoto banale: dopo il dottorato in Inghilterra ho scoperto che per fare le domanda da ricercatore in Francia è necessario iscriversi su un sito istituzionale francese entro fine ottobre, nonostante tutte le commissioni si riuniscano in primavera. Si tratta di un passaggio puramente formale, ma indispensabile per poter presentare domanda.

L’unico sistema per orientarsi è sfruttare la rete accademica dei propri professori di riferimento, ma ovviamente questa è una soluzione limitata. Il consiglio che ti senti ricevere più spesso è “punta su questo paese e lavora a fondo per rimanere lì”. Ma quale? La Germania, la Francia, la Norvegia… L’Italia? C’è anche la voce che nei prossimi due-tre anni nel nostro paese ci sarà un’ondata di assunzioni. Quanto ci si può fare affidamento? La generazione di ricercatori italiani espatriati precedente alla nostra, se ha scelto di stabilirsi in un paese ha generalmente trovato un posto e potuto costruire la propria vita lì. Adesso non è più così.

Adesso un ricercatore di 35 anni con 3 o 4 post-doc alle spalle va incontro ad una graduale disillusione. E magari lascia la ricerca perché stanco di spostarsi.

Dentro l’accademia si osserva spesso l’esistenza di “comunità nazionali” specifiche in paesi differenti. E anche l’esistenza di filiere di trasferimento in alcune materie. Ad esempio all’Imperial College c’è una comunità molto vasta di matematici italiani specializzati in geometria algebrica come te. Come spieghi questo fatto?

Il primo motivo è certamente che da alcuni paesi, come l’Italia, sono partite moltissime persone che volevano lavorare nel mondo della ricerca. Per mancanza di investimenti, di opportunità o semplicemente perché c’era un desiderio di mettersi alla prova ed esplorare nuovi paesi.

Poi esistono scuole nazionali universalmente riconosciute. L’Italia nelle scienze ne ha prodotte e continua a produrne. I geometri algebrici italiani sono una di queste scuole.

Infine c’è anche l’aspetto che nella ricerca la prossimità culturale aiuta, lavorare con persone della tua cultura o anche banalmente che parlano la tua lingua ha il suo peso. Ti dà una comprensione umana immediata di chi ti sta accanto. E penso che questo possa anche aumentare la produttività quindi è normale che si traduca in comunità nazionali dentro le istituzioni di ricerca.

Cosa pensi in generale del funzionamento del mondo della ricerca oggi?

È una domanda molto difficile. La mia percezione è che oggi la ricerca in geometria algebrica funzioni per ambiti iper-specialistici: gruppi di ricerca che girano intorno a grandi nomi e che si sviluppano spesso seguendo mode. Intrinsecamente molto dinamico, ha tuttavia degli aspetti rigidi: in matematica pura, padroneggiare un settore o anche semplicemente una tecnica richiede molto tempo, quindi, spostandosi periodicamente da un’università all’altra col proprio bagaglio di tecniche, è necessario trovare un modo per “vendere il proprio prodotto” ad altri gruppi di ricerca. Forse è un sistema utile però alla lunga rischia di diventare poco stimolante.

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