La cantina degli stagisti

Crossroads
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10 min readNov 24, 2016

di Luca Limitone

Progetto Leonardo da Vinci, Giugno 2013, Bordeaux.

Il museo del vino è un posto freddo e umido. È giugno ma se non fosse per il calendario direi piuttosto di trovarmi in pieno febbraio. Seduti vicino a me, intorno a un piccolo tavolino di vetro ricoperto di riviste e giornali, ci sono altri otto stagisti provenienti da ogni parte del mondo. Sembra una grande sala d’attesa, una sorta di metafora della nostra condizione esistenziale. Aspettiamo tutti che succeda qualcosa, che entri un turista, che qualcuno ci dica cosa fare, ma otto stagisti, per questo piccolo museo, sono troppi e poi oggi è lunedì, fuori piove e qui non verrà quasi nessuno, lo sappiamo già.

Tutti i musei della città il lunedì sono chiusi, ma questo a Greg, il direttore, non importa, tanto gli stagisti mica li deve pagare lui. Ne prende da ogni parte del mondo e in grandi quantità. Che non si dica poi che i francesi non siano accoglienti.

Regna un grande silenzio stamattina nel museo, disturbato solo dai passaggi dell’aspirapolvere sulla moquette rossa dell’ingresso. È Giulia, la mia collega stagista, ad usarla ogni giorno, è così che vuole il mio capo e Giulia tutte le mattine ubbidisce contenta come una brava domestica mentre Greg, il direttore, con un sorrisetto sulla bocca indugia a lungo nella sua scollatura tutte le volte che lei si china in avanti. Ogni stagista cerca di ingraziarsi il capo come può e l’unica cosa che puoi fare per ottenere l’ammirazione di Greg è sopportare il suo sguardo che indugia sulle tue tette, se ce le hai, o lavorare moltissimo, mantenere tutto pulito e riuscire a vendere ai turisti qualsiasi cosa

Ma oggi c’è così poco da fare e noi stagisti siamo così tanti che inventarsi qualcosa è davvero difficile.

“Christine e Alejandro, prendete i volantini e andate a distribuirli in centro”, ordina il capo. “Miguel e Sarah, prendete il mio portatile e fate una ricerca di mercato sui vini di Borgogna. Tutti gli altri a lavare i calici delle degustazioni”.

“Ma sono già puliti !” protesto io, “Non devono essere puliti, devono essere splendenti” risponde lui con il suo solito ghigno sarcastico. Greg terminava ogni frase sempre con quel mezzo sorriso sulla bocca e non riuscivo mai a capire se mi stesse prendendo per il culo o se la facesse per dare una parvenza di gentilezza alle sue parole. Ma era fatto così, gli piaceva bere, scherzare con gli stagisti uomini e flirtare con le stagiste donne. A me di scherzare con lui non mi era mai andato granché e così riducevamo le nostre conversazioni allo stretto necessario.

Mi sparavo tutte le mattine 12 km per arrivare a lavoro, saltavo su un bus all’ultima fermata dell’ultima banlieu, mi infilavo le cuffie sommergendo i rumori del traffico con i Doors e Manu Chao, mentre osservavo la città avvicinarsi e svegliarsi, l’autobus riempirsi di studenti e lavoratori, tutti con le cuffie nelle orecchie, lo sguardo fisso sul cellulare o un libro, tutti concentrati solo sulla loro destinazione, tutti senza mai guardare nessuno negli occhi.

Poi era la volta del tram. La voce meccanica femminile che scandiva i nomi delle tappe “Victoire” — “Pey Berland” — “Quinconces”- “Chartrons”. Chartrons era la mia fermata, dopo quaranta minuti di viaggio ero a lavoro e l’ultima cosa di cui avessi voglia era di scherzare sui vestiti delle stagiste con il mio capo.

“Lucà, tu oggi vai in auto con Serge, farete un giro degli chateaux per cercare delle buone bottiglie di vino da presentare al museo. Ti mando in gita, non sei contento?”. Di nuovo quel sorrisetto stronzo.

Serge lo conoscevo appena, era un uomo di mezz’età, dall’aspetto trasandato, la barba incolta, lo sguardo sempre un po’ stravolto e dai denti orribili. Quale fosse il suo ruolo all’interno dell’entourage del museo non mi era mai stato molto chiaro, forse in un certo senso era uno stagista pure lui. Dicevano che era un alcolizzato, che la moglie lo avesse lasciato e che vivesse grazie alle elemosina del mio capo. Non sembrava, a giudicare dalla sua macchina. Ma forse era di Greg pure quella.

Ad ogni modo partiamo, direzione Entre Deux Mers, ovvero i vigneti a sud est di Bordeaux. Serge al volante fa di tutto per essere gentile, ma è strano, ha sempre un’aria furtiva, come se stesse nascondendo qualcosa, forse se stesso.

“Il tempo non aiuta” dice Serge indicando il cielo, ma a me andava bene così, meglio che far niente. E poi adoro queste giornate di pioggia leggera, le nuvole basse che accarezzano i vigneti, l’atmosfera malinconica e sospesa della campagna francese. Tutto intorno non è altro che un’immensa distesa di vigne, fatte crescere dappertutto. Alte poco meno di un metro, si perdono all’orizzonte, interrotte raramente da qualche quercia solitaria. Serge ascolta la radio, ogni tanto mi dice qualcosa, io sorrido senza capire.

La campagna è perfetta, pulita, c’è un’aria di attenzione, rispetto e manutenzione. Superiamo decine di borghi, tutti simili tra loro: il viale principale con le fioriere sui lampioni, la piazza con le persiane color pastello, il giardino con al centro un monumento ai caduti delle guerre, e poi cartello di arrivederci. La mia mente, come incantata, inizia a vagare verso l’orizzonte insieme allo sguardo, fino a farmi dimenticare il motivo per cui mi trovavo lì.

Forse se lo era dimenticato pure Serge. Dopo un’ora di viaggio non abbiamo ancora visitato uno chateau, perdendoci sistematicamente tra vie di campagna tutte identiche. Nessuna azienda vinicola trovata, solo tanti cartelli che portavano sistematicamente a bivi non segnalati, strade senza usciti o cancelli chiusi.

“Sono stufo, cambiamo strategia” mi dice Serge “andiamo a chiedere direttamente a casa dei contadini. Tutti qui sono contadini e tutti i contadini hanno sempre una bottiglia di vino da offrire”.

Ho come la sensazione che Serge abbia una voglia matta di ubriacarsi, ma forse è solo una mia soggezione. Fatto sta che a un’ora dalla nostra partenza eravamo già diventati dei mendicanti di vino. Case di campagna, fattorie, casolari, qualsiasi edificio visibile dalla strada diventava per Serge un obiettivo sensibile per la nostra “ricerca” vinicola. Naturalmente nessuno era disposto ad offrirci una bottiglia di vino, nessuno credeva alla storia del museo, nessuno credeva ai denti gialli di Serge e nessuno credeva al mio francese. Eppure Serge non si lasciava scoraggiare, per lui ottenere quelle bottiglie era ormai diventata una questione personale più che professionale, c’era qualcosa in lui che non obbediva più alla ragione ma all’istinto, al desiderio incontrollato di bere. Adesso mi era tutto chiaro: ero capitato in auto con un alcolizzato senza un centesimo nelle tasche e per giunta in crisi d’astinenza. Quell’uomo sarebbe andato in capo al mondo pur di riuscire a bere gratis e non c’era niente, assolutamente niente che potessi fare.

“Andiamo lassù” mi dice ad un tratto indicando un puntino grigio in cima ad una ripida collina, “quelli devono essere ricchi”.

“Serge sei sicuro? È lontano e ormai è tardi”

“Ma no! Vedrai, ne varrà la pena!”.

La strada che porta alla casa in cima alla collina è stretta, sterrata e piena di fango. Guardo preoccupato fuori dal finestrino due cani che abbaiano contro di noi, Serge alla guida è concentrato sul vino, non gli importa della pioggia, dei cani, dell’orario, credo che ormai non gli importi più neanche di se stesso. Ci fermiamo davanti ad grande cancello, l’ingresso della villa. È aperto.

Serge spegne il motore, si guarda allo specchietto retrovisore, si bagna una mano con la saliva e poi se la passa tra i capelli, lisciandoseli all’indietro. Poi strizzandomi l’occhio mi fa: “Adesso possiamo andare.” Il vialetto che porta all’ingresso è pieno di fango e conduce ad un grande portone nero. Ad attenderci c’è solo un enorme cane bianco che si avvicina pigramente, ci annusa per dovere ma senza crederci più di tanto, come quei poliziotti che ti perquisiscono all’aeroporto, per poi sdraiarsi nuovamente sotto una panchina di pietra, al riparo dalla pioggia, con gli occhi tristi.

Serge suona il campanello due volte lungamente, al limite della molestia. Poi il silenzio, l’apprensione che sale insieme alla sua paura di non riuscire a bere e alla mia di non tornare più a casa.

Poi, senza neanche aver percepito il minimo rumore, sento la serratura scattare, dietro la porta una signora anziana, avvolta in uno scialle nero ci guarda un secondo, Serge sta per dire qualcosa ma lei, come se ci aspettasse da tempo, ci dice subito: “Prego, entrate”.

La casa è buia, fredda, dall’arredamento antico e austero. Non si tratta di uno chateau, né di una casa di contadini. È solo la villa di una signora anziana e sola, ma a Serge questo pare non interessare.

La signora si chiama Elodie, ci fa subito accomodare su due poltrone scricchiolanti offrendoci un ottimo bicchiere di vino bianco. Serge sembra apprezzare moltissimo. Poi cerca di mettere in pratica la sua strategia, volantino alla mano, spiegando alla signora il motivo della nostra visita. Io al suo fianco mi vergogno come un ladro e cerco di distrarmi guardando fuori dalla finestra il bellissimo panorama sulla campagna circostante.

La signora deve averlo capito benissimo che non siamo né imprenditori né commercianti di vino e che nessuno di noi è realmente interessato agli affari, soprattutto io. Mi sento spesso i suoi occhi addosso.

“Sono italiano” provo a scusarmi in qualche modo “ perdonate se parlo poco ma non capisco molto bene la lingua”.

“Tu sei pazzo?” mi dice la vecchia

“Prego?”

“Tu sei pazzo non è vero?”

Sì, avevo capito bene, Elodie senza avermi finora rivolto parola mi stava dando del pazzo. E me lo chiedeva con gentilezza, quasi come per avere una conferma. Considerando la situazione forse non aveva tutti i torti e così risposi:

“Un po’ sì.”

“Lo sapevo, si vede dai tuoi occhi”.

“Ma no!” interviene Serge “ Non è matto, è un bravo ragazzo. Si potrebbe avere un altro bicchiere ?”

“Ma sì sì, eccovi servito. Certo che è pazzo, lo dice anche lui, ma non c’è mica niente di male sa? La follia è la suprema forma d’intelligenza, lo diceva sempre mio marito. Sa dove è morto mio marito? In un manicomio. Era l’uomo più intelligente che avessi mai conosciuto, mio marito. Ma quando tornò dalla guerra non era più lui, era diventato pazzo eppure in certi momenti diceva cose di una lucidità incredibile che nessuno sarebbe stato in grado di pensare. Vi piace il vino? Sì? Bene bevete, bevete, non fate complimenti. Mio marito beveva una bottiglia di vino al giorno — è per combattere contro la morte — diceva sempre. E poi cantava, cantava in tedesco mio marito, sapete? Cantava una canzone che aveva imparato durante la prigionia, la ricordo ancora, faceva così:

Lieb’ Vaterland, magst ruhig sein,
lieb’ Vaterland, magst ruhig sein,
Fest steht und treu die Wacht, die Wacht am Rhein!
Fest steht und treu die Wacht, die Wacht am Rhein!

Ah, mi sembra di sentire ancora la sua voce!”

Guardo Serge con aria preoccupata, ma lui sembra perfettamente a suo agio.

“Tu sei pazzo — insiste la vecchia guardandomi mentre ancora ansima per lo sforzo del canto — hai gli stessi occhi di mio marito.”

“Sì, signora, grazie, adesso forse è giunto il momento di togliere il disturbo, vero Serge?”

“Certo Lucà, però ecco, Madame, ci chiedevamo se fosse possibile poter sottoporre una delle vostre pregiate bottiglie all’attenzione del nostro direttore, se tutto andasse per il verso giusto si potrebbe stabilire un accordo per….

“Prendete pure, non mi interessano gli accordi, là in quella credenza ci sono due bottiglie di Sauternes del 2006, bevetele alla salute mia.”

Soddisfatto della risposta (e dopo essersi ficcato le due bottiglie dentro il suo impermeabile beige che da quel momento spariscono per sempre dalla mia vista) Serge ed io ci congediamo velocemente.

Usciamo mentre la vecchia Elodie appoggiata al vetro della finestra ci saluta con la mano sorridendo contenta. Il cielo basso sembra schiacciare le nostre teste, saltiamo veloci in macchina come due ladri che hanno appena realizzato il loro colpo perfetto. Le ruote masticano il fango del sentiero di campagna, sobbalzando nelle pozzanghere più profonde. Osservo dal finestrino il cane bianco seguirci trotterellando fino al cancello, poi sprofondo nel sedile dell’auto. Ce l’avevamo fatta, e finalmente potevamo tornare a casa.

Si sta facendo sera, la malinconia delle nuvole e della campagna francese che intravedo dall’auto torna a farmi visita. Ripenso a questi giorni, a questo stage a cui mi ostino di dare un senso, una giustificazione. Domani a quest’ora dormirò sui sedili dell’autobus che va sempre a sud, sempre più giù dentro le viscere di una periferia che ad ogni fermata si fa sempre più sporca, giù fino a raschiare il barile della città del vino. Giù, sempre più giù, fino ad arrivare a casa mia, lungo quel viale che a farlo tutto si arriverebbe davvero a Toulouse, come indica la toponomastica. E magari fosse così. Lasciarsi cullare dal viaggio, aprire gli occhi e d’improvviso trovarsi in un’altra città e poi in un’altra ancora e ancora e ancora, senza più voler sapere i nomi dei posti, delle cose, senza più voler chiedere niente a questa vita ma solo fissare le luci dei lampioni di notte scorrere veloci dal finestrino e godere della bellezza di perdersi. E invece domani dirò sempre le stesse dieci parole al museo, sgorgherà ancora il vino bianco secco e il rosso fruttato dalle bottiglie per i turisti che mi chiederanno sempre le solite cose. Continuerò a non farmi capire dai francesi, a non capire il calabrese del mio coinquilino, a cenare con parenti che non sono i miei, con nuovi amici che tra qualche settimana non vedrò mai più. E quando me ne andrò da questo posto, da questa cantina di stagisti, sarò rimpiazzato da qualcun altro. Qualcun altro parlerà male il francese, dirà salut e au revoir, sorriderà, stringerà mani, verserà vino e laverà bicchieri al posto mio e poco tempo dopo nessuno si ricorderà più di me. Come se non ci fossi mai stato.

La voce di Serge mi riporta improvvisamente alla realtà. È al telefono con qualcuno, ride, ha l’aria euforica di chi ha appena vinto alla lotteria. Mentre parla con il vivavoce si tasta la giacca a controllare che le bottiglie siano ancora lì, al sicuro dentro il suo cappotto.

“Perché non vieni anche tu?” mi chiede al termine della chiamata.

Organizzava una cena tra amici, quella sera stessa. Da bere portava lui.

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