L’amore ai tempi di Ryanair: su ricerca e mobilità

Michele Mancarella
Crossroads
Published in
5 min readOct 2, 2016

Giovani, open-minded, freschi e con un mondo di opportunità davanti a sé: i ricercatori! Li trovi nelle università, succo di frutta e laptop, negli aeroporti sempre connessi verso una conferenza, occasione anche per vedere qualche angolo diverso d’Europa. La generazione che ci traghetterà verso un’Europa veramente transnazionale e cosmopolita — Europe comes with the job! Una parola chiave: mobilità.

Quanta verità c’è dietro a questa narrazione? In un articolo apparso sulla rivista “Forum Sociológico”, Alberta Giorgi e Luca Raffini delle Università di Coimbra e Genova provano a gettare luce sui caratteri ambivalenti della mobilità per i ricercatori.

In un’Europa spaccata dalla crisi, “mobilità” è in realtà un concetto complesso e dalle molte sfaccettature. Da un lato, la “migrazione economica”, generalmente basata su una forza lavoro precaria e a basse skills. Dall’altro, la mobilità di una composizione altamente formata e ad alto reddito, che nelle migliori utopie di un’Europa “unita” è carica di aspettative per una “europeizzazione dal basso” fatta di transnazionalismo e cosmopolitismo. Entrambe si muovono in un contesto in cui l’esperienza sociale e i legami affettivi sono sempre più svincolati dallo spazio fisico, in modo tale che la libertà di movimento diventa elemento cardine per determinare la bontà di un’esperienza migratoria. L’accesso a tale libertà può quindi costituire un vero e proprio marker tra una “Eurostar generation” che vede aumentare le proprie occasioni in una dimensione “beyond borders” e una che al contrario ne soffre i limiti. Una forbice che si sta aprendo drammaticamente tra una composizione eurofila e transnazionale e una locale ed euroscettica.

E poi, il ricercatore. Dietro quel laptop con la mela, c’è tipicamente un soggetto a metà tra le due categorie — con alta formazione ma una situazione professionale ed economica che solo lontanamente la rispecchia. E che tuttavia, è il prodotto più alto della generazione Erasmus, ha amici qua e là, parla correntemente molte lingue, è pronto a cambiare Paese con il sorriso in faccia. Il 33% degli studenti Erasmus hanno anche partner di nazionalità differente. Quali migliori premesse per una generazione oltre i confini? Peccato che di confini, anche se diversi da quelli tracciati su una cartina, ce ne siano a bizzeffe e valicarli sia sempre più un’impresa.

La mobilità è ormai diventata un imperativo per la carriera accademica. Ma al tempo della precarietà, dei contratti a termine e della crisi, non è difficile immaginare che la realtà sia molto diversa da come la dipinge la narrazione dominante.

Innanzitutto si tratta di capire a fondo il complesso gioco di fattori di “spinta” e “richiamo” da e verso Paesi diversi, guidato sia da criteri di oggettività vera (ammontare di finanziamenti) o presunta (i ranking internazionali), sia da percezioni soggettive (l’idea che restare in un Paese, tipicamente del Sud Europa, possa limitare le prospettive personali e lavorative) e scelte personali. Di sicuro però bisogna cominciare a considerare i ricercatori non tanto nella categoria utopistica della “generazione Erasmus” quanto in quella drammaticamente più reale della “generazione precaria”. Posizioni di pochi anni, continua disponibilità a cambiare città e Paese, a reinserirsi in un tessuto sociale e, soprattutto, a produrre per essere in cima alla lista della prossima application. Il tutto mentre il numero di anni tra un dottorato e una posizione permanente cresce senza tregua.

Eccola, la quotidianità del ricercatore! Passata a districarsi tra un conto in banca aperto da una parte e uno chiuso dall’altra, mille numeri di telefono e prefissi diversi, indirizzi che non si contano. Fosse solo questo, ci si riderebbe sopra. Ma a furia di parlare di “fuga dei cervelli”, ci si dimentica che i ricercatori hanno anche corpi e affetti. Già, perché un continuo trasferimento significa molto più che il solo lavoro.

Le relazioni affettive, innanzi tutto. Il trasferimento di un individuo non va generalmente insieme a quello del/della suo/a partner, ad esempio. O peggio, di una famiglia — ma anche di molti affetti che circondano l’esistenza di ognuno/a. Tanto che per questa condizione è stata coniata una definizione: “Living Apart Relationships”, o LAR. Molti e molte degli intervistati/e descrivono diversi aspetti per cui la lontananza modifica una relazione, in termini di affettività, comunicazione, creazione di momenti di complicità altra che quella fisica, spazialità e temporalità di incontri confinati ai week-end o alle vacanze. EasyJet e Ryanair le uniche speranze in assenza di qualunque supporto alla mobilità. Nel mezzo, Skype, a marcare nuovi momenti di contatto in cui mente e corpo sono disaccoppiati grazie a nuovi dispositivi di comunicazione, o peggio, che possono costringere a scelte esclusive: una chiacchierata con lui/lei o un’uscita in compagnia? E come capirsi se solo uno/a è “mobile”?

La decisione di spostarsi, tra l’altro, ha un impatto particolarmente forte sulla componente femminile a causa delle discriminazioni di genere ancora molto alte e, spesso, dei pregiudizi sulla dualità carriera-famiglia. Motivo per cui gli autori scelgono di concentrarsi su un campione di intervistati/e a maggioranza femminile.

Ancora, c’è la difficoltà a sentirsi parte del tessuto sociale in cui si è inseriti. Fare politica, investire tempo ed energie per progetti che leghino a un luogo e a una comunità — quali possibilità in questi campi per chi ha un trasferimento forzato come prospettiva? In generale, quali progetti di vita si possono costruire in questo orizzonte? Un’analisi della mobilità transnazionale, concludono Giorgi e Raffini, non può prescindere da questi elementi. Mobilità la parola chiave, dicevamo? Solo se analizzata a tutto tondo, includendo la vita e gli affetti al di là della prestazione lavorativa, e considerandone la funzione di dispositivo di moltiplicazione della precarietà.

In questo senso, la figura del ricercatore pare emblematica per la sua capacità di racchiudere tanti elementi diversi e contraddittori di una generazione cresciuta all’insegna proprio del binomio mobilità-precarietà. Elementi che sembrano però comuni a una vasta classe di giovani che attraversano ogni giorno i confini europei.

La generazione di cui si parla, in effetti, non è “oltre i confini”. È piuttosto “sui confini”. In un terminal, su una banchina, in una condizione al di là sia della migrazione che del trasferimento — Ryanair comes with the job, too. Dentro un’Europa in cui la leggenda della mobilità seppellisce il costo umano che pagano molte vite precarie.

Che d’altra parte ci sono e non mollano: una relazione a distanza, l’affetto per un luogo, possono anche diventare appiglio per il rifiuto della precarietà e di una vita centrata sul lavoro, per la ricerca di un reddito e della libertà di pensare un progetto di esistenza.

P.S. Questo articolo è stato terminato su un volo low-cost all’inizio di un week-end oltre confine. Magari, per ironia della sorte, proprio sopra un confine. L’avevamo scritto, no?

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