Siamo tutti “mammoni di passaggio”?

Emanuele De Luca
Crossroads
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5 min readOct 26, 2016

Eurostat ha pubblicato una ricerca sui giovani che vivono ancora a casa dei genitori: l’Italia è prima in Europa. Un commento oltre gli stereotipi

Nel testo di presentazione di Crossroads, abbiamo cercato di ricordare le espressioni più note e diffuse con le quali viene indicata la nostra generazione. Tra “cervelli in fuga”, “generazione perduta”, “migranti economici” ci siamo dimenticati “mammoni”. Eppure ce lo dovevamo aspettare. Non è una novità anzi è una di quelle classiche espressioni con le quali gli autoproclamati adulti descrivono ragazzi non emancipati, rappresentati come tali proprio perché ancora al capezzale dei genitori. L’italiano “mammone” dunque, incapace di staccare il cordone ombelicale a differenza dei coetanei europei già parecchio “moderni”. Va da sé che questa è un’immagine prettamente caricaturale ma, come spesso accade, di grande successo, tanto da essere oramai un appuntamento fisso nel calendario del giornalismo nostrano.

Non solo. La commedia ha attinto a piene mani da questa rappresentazione. Prendete ad esempio “Lucignolo”, il figlio aguzzino interpretato da Ceccherini: un disoccupato impenitente — un neet si direbbe oggi — che schiavizza senza pietà la madre. Oppure Lorenzo degli “Immaturi” — film di Paolo Genovese — il classico bamboccione che non vuole separarsi dal nido materno. Perfino la televisione non ha perso l’occasione per cavalcare il tema creando format ad hoc come il terribile “Mammoni, chi vuole sposare mio figlio?”. Sono Immagini e stereotipi che si stratificano per poi riprodursi anche all’estero: come dimenticare, infatti, il famoso spot norvegese che metteva in scena una famiglia italiana come anti-modello sociale da esorcizzare?

Arriviamo a noi. Una recente ricerca di Eurostat ha rilanciato l’argomento, ripreso subito dai maggiori canali di informazione. In breve, i dati raccolti ci dicono che, tra i 18 e i 34 anni, in Italia il 67,3% vive a casa con i genitori. Percentuale in aumento negli ultimi anni e che risulta ben distante dalla media europea del 47,9%. Risalta la Danimarca con il 19%, primo indizio significativo. Ma non è finita qui. Il dato rilevante, ci dicono, è che il 20% degli italiani che vivono ancora in famiglia è senza lavoro, ma il 25% ha un impiego a tempo indeterminato. Già, il tempo indeterminato, come se un part-time stabile magari a 600–700 euro al mese consentisse la completa indipendenza.

Ma andiamo per gradi. L’immagine scialba e standard che traspare da molti commenti è quella, come al solito, di una generazione timida e poco indipendente, un “popolo di mammoni” incapace di spostarsi perché naturalmente propenso a non farlo. Come se una pulsione edipica ci trattenesse irrimediabilmente a casa. Ma, per chi come noi sta provando a dare voce ad una generazione sparsa nel mondo — non solo “chi va” ma anche “chi rimane” — , questa rappresentazione risulta non solo inaccettabile ma del tutto fuorviante. Perché, in fondo, non è altro che l’altra faccia della medaglia del discorso mainstream sui giovani italiani: da una parte un muro del pianto per una generazione perduta e migrante e dall’altro il biasimo caricaturale per chi ancora non ha lasciato la sua cameretta. Entrambe sono forme stereotipate che, nel tentativo di comprendere la questione generazionale, in realtà la stigmatizzano e generalizzano, senza darle voce. Per questo è importante tenerle insieme nel quadro generale.

In tutto questo dunque, dov’è finita la nostra generazione migrante, quella immortalata dal recente rapporto della fondazione Migrantes? Dove sono, per fare un esempio banale, i fuorisede?

Dalle colonne di Repubblica Ilvo Diamanti interviene parlando di “generazione di passaggio”, dove è la condizione precaria che determina il ventaglio di scelte possibili per un giovane. Scrive Diamanti a proposito dei famigerati “mammoni”:

“In effetti, questa rappresentazione appare parziale e distorta. Parziale, perché non racconta per intero la storia del rapporto con il lavoro dei giovani italiani. Disoccupati e, in grande numero, neet. Cioè: fuori dalla scuola e dal lavoro. Ma anche, e ancor più, precari e intermittenti.”

Parafrasando, parlare di “casa” senza parlare di che cosa oggi sia il “lavoro” — o, meglio, il“reddito” — vuol dire parlare di nulla.

E prosegue:

“È errato sostenere che i giovani “vivano” oppure “restino” in casa con i genitori. Meglio e più corretto sarebbe dire “risiedono”. Perché, in effetti, in casa con i genitori “ci restano” poco. (…) La casa è un porto. Dove si arriva e si riparte.”

Già, la casa. Dove sono i dati sul prezzo degli affitti, stabili se non in aumento rispetto alla generale diminuzione del valore immobiliare? Dove sono i dati sui costi della vita? Se si considerassero tali parametri insieme al valore medio degli stipendi e alle voragini del sistema di welfare non è difficile comprendere perché risulti complesso cambiare “base”. Tra tasse e spese il portafoglio evapora e si fanno i salti mortali per uscire la sera, andare al cinema, avere una vita sociale all’altezza dei nostri desideri. Appoggiarsi ai genitori diventa, a meno che non ci si debba spostare per studio o lavoro o per casi del tutto personali, una scelta comprensibile e razionale: per mettersi da parte un gruzzoletto in attesa di nuove avventure, di spostarsi nuovamente per lavoro o, chissà, per costruire una vita insieme al futuro partner.

Pensiamoci ancora un attimo. I dati di Eurostat di per sé non ci raccontano nulla di questo; né dei sacrifici a vivere fuori, magari in case fatiscenti e sempre in condivisione, né tantomeno della difficoltà ad accettare di vivere tendenzialmente con i genitori, magari alla soglia dei trent’anni e oltre. Insomma, il fenomeno è complesso e multiforme, affonda le sue radici nella crisi, nella precarietà, nella disoccupazione, nel sistema perverso degli affitti e dei mutui; ha a che fare con gli stipendi bassi, in generale con la povertà in aumento. Molto meno con la pigrizia o con qualsiasi naturale propensione a non varcare il recinto di casa.

E però, volendo ribaltare la questione per impugnarla, io mi sento un “mammone di passaggio”. Come tanti mi sposto, vivo un mese qua e uno là. Come tanti torno periodicamente nella casa dei miei, che è anche la mia, in vacanza o anche per scrivere. Sono alcuni anni che oramai lo stesso concetto di casa assume forme diverse a seconda delle stagioni e dei periodi di permanenza all’estero. Forse era “mammone” Claudio Villa quando cantava la sua famosa — e famigerata — ode alla madre. O Luigi Tenco quando dedicava alla sua una delle canzoni più belle della musica italiana. Può darsi. E allora? La nostra indipendenza e le nostre vite si giocano su ben altri fronti, al di là dell’affetto e la complicità con un genitore. Ovvero sulla possibilità di scegliere, se andare o rimanere, se vivere in casa o fuori, sul diritto ad avere un reddito che ci permetta di essere liberi.

Tenco, ancora tu…

…Si lo so che questa non è certo la vita che ho sognato un giorno per noi.

Vedrai, vedrai. Vedrai che cambierà.

Forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà…

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Emanuele De Luca
Crossroads

Storico; attivista in varie forme e luoghi; scrivo meglio quando c'è burrasca