L’Uomo Alto

Pietro Minto
Curzio
Published in
3 min readNov 20, 2017

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Illustrazione di Marta Muschietti

L’Uomo Alto, lo chiamo. Non saprei come definirlo, del resto: non ne conosco il nome ed è oggettivamente molto alto. Non ne ho mai visto la testa (l’Uomo Alto ha una testa? Non è detto), è sempre coperta dalle nubi e nelle giornate di Sole è comunque troppo distante per essere vista. Ha delle enormi scarpe eleganti con dei lacci grossi come tubi del gas: non gli ho mai chiesto la taglia ma, stando ai miei calcoli, dovrebbe avere un duemila e mezzo. L’Uomo Alto mi guarda, gli interesso, non so perché.

Sono l’unica persona a vederlo. In qualche modo è in grado di muoversi e camminare senza distruggere ciò che incontra: è impalpabile, non fa rumore e non parla mai. Passeggia su città e foreste come un fantasma troppo cresciuto. Ma non è un fantasma.

Lo vedo da quando sono bambino. All’epoca credevo fosse normale essere in grado di percepirlo, così un giorno chiesi a mia madre “cosa faceva quell’uomo alto”. Lei, confusa, mi domandò spiegazioni. “L’uomo altissimo con la testa oltre le nuvole, mamma”, dissi io. “Dici il bidello dell’asilo?” (era molto alto). “No, quello lì”, dissi indicandolo. Spaventata, mi portò dal dottore, un signore coi baffetti che non capì granché. Uscimmo dal suo studio con stati d’animo diversi — spaventata dalla mia unicità io, sollevata dalla proverbiale “fantasia dei bambini”, lei. Da allora non dissi più niente a nessuno riguardo l’Uomo Alto.

Qualche anno dopo rischiai di rompere quel silenzio. Ero in luna di miele con il mio ex marito — questo prima del divorzio, prima che prendesse il largo verso l’America — e una sera, complice lo champagne, fui tentata a confessarglielo: “Vedo un Uomo Alto da quando sono bambina, mi segue, è sempre vicino a me”. E se mi avesse chiesto spiegazioni, glielo avrei indicato: “È lì, vicino a quella casa, si vede il tallone che arriva al comignolo”.

Per fortuna non lo feci. Non avrebbe capito. Nessuno capirebbe.

Poco prima di morire, decisi di chiamarlo. Sul mio letto d’ospedale, su un lenzuolo sottile appoggiato a un materasso sbandato, lo indicai con la mano destra puntandola alla finestra. Gli dissi: “Vieni a me”.

L’Uomo Alto capì e si mosse. Non ne vidi mai la faccia ma sentii la sua voce: era baritonale e solenne, risuonava dentro di me facendomi vibrare ogni membrana. Gli chiesi chi fosse: “Sono un guardiano”, mi disse. Cosa volesse: “Devo prendermi cura di te”. Perché lo facesse: “È la mia missione”, mi spiegò, “la mia missione è prendermi cura di Rossella Gaurrini. E così ho fatto”.

Sentii dell’amaro in bocca. “Io,” sussurrai, “io… non sono Rossella Gaurrini. Sono Patrizia Biasibetti”.

“Oh cazzo” risuonò sublime l’enorme voce.
Cominciai a piangere.
“Oh cazzo”, ripeté l’Uomo Alto preoccupato.”E Rossella Gaurrini che fine ha fatto?”
“È morta trent’anni fa, era la mia vicina di cas — -”
Non feci in tempo a concludere la frase che l’Uomo Alto mi interruppe: “Ceeeerto che è morta. Caaazzo. È stata investita da un camion!”
“Esatto”, dissi.
“Eh, esatto un cazzo, ho sbagliato persona. Dovevo evitare che morisse e io stavo proteggendo te. Maledizione!”

L’Uomo Alto si infervorò. Gridò qualcosa (“Ahhh il capo mi ammazzerà”). Per un istante temetti di averlo sentito bestemmiare, poi lo vidi allontanarsi, senza nemmeno salutare, i piedi enormi si alzavano e dondolavano veloci, frenetici ed incerti, come quelli di una persona morsa dal rimpianto.

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@ Pietro Minto 2017

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