Accade nel Fintech: robo-for-advisory, the walking dead e butterfly effect

Raffaele Zenti
Qwafafew-Italy
8 min readDec 19, 2018

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Avete notato il nuovo trend nel Fintech? Svariate istituzioni finanziarie hanno dotato, o stanno dotando, i loro relationship manager (termine che include private banker, consulenti finanziari, operatori di filiale) di strumenti di costruzione di portafoglio. Alias ottimizzatori. Ne ho visto diversi, buoni e meno buoni. Ma, in media, l’idea che mi sono fatto è questa: uhm. Parliamone un attimo.

Robo-for-advisory

All’inizio furono i roboadvisor. Supposti “robot” tuttofare del wealth management. Più che altro supposti. Almeno fino ad oggi, visto che “the human touch” sembrerebbe ineliminabile e i roboadvisor puri sono relegati in una nicchia di mercato destinata a rimanere tale per un po’. Ma, grazie all’avvento dei roboadvisor, la spinta tecnologica c’è stata: il nuovo ha iniziato a rotolare a valle, e l’idea di roboadvisor si è trasformata in quella di robo-for-advisor. Ovvero strumenti d’analisi e costruzione di portafoglio in dotazione ai relationship manager. È tecnologia a supporto del professionista: lo potenzia, a tutto beneficio di produttività e qualità del servizio al cliente.

Fin qui tutto bene.

Il problema è che il trend dei robo-for-advisor ha generato reazioni talvolta impulsive nelle aziende. Al grido di “Vogliamo il robo-for-advisor!” sono stati rapidamente sviluppati o acquistati strumenti di costruzione di portafoglio metodologicamente agghiaccianti, nonché praticamente pericolosi — per i clienti, per i professionisti e per la reputazione dell’azienda. Vediamo perché.

The walking dead

L’inghippo sta nel fatto che buona parte di questi “nuovi” sistemi di robo-for-advisor si basano sull’applicazione naïve della Modern Portfolio Theory di Markowitz, in breve naïve-Markowitz. “The walking dead”.

È uno degli esempi dell’abilità dell’Homo sapiens nell’essere così superficiale da trasformare in pattume pseudoscientifico un’idea illuminante e geniale — in questo caso quella primigenia di Markowitz, che consisteva nel ricercare esplicitamente il trade-off tra rischio e rendimento.

A fare uscire dalla tomba l’idea polverosa del naïve-Markowitz ci aveva già provato l’ondata roboadvisory (ne scrissi qui in tempi non sospetti). E ora, grazie ai robo-for-advisor, a sfregio di circa trent’anni di ricerca accademica e prassi di quantitative portfolio management, eccoci ancora a parlare dell’idea-zombie degli ottimizzatori naïve-Markowitz. Modellistica tanto pessima quanto resistente alla ragione. Probabilmente perché basata su un processo semplice, ma dall’apparenza scientifica. Ovvero: definisci l’universo investibile (asset class, fondi, etf, ecc), prendi qualche anno di serie storiche, ne ignori bellamente la distribuzione di probabilità empirica e ipotizzi invece che sia gaussiana, poi stimi a massima verosimiglianza dalla storia i parametri (i.e. matrice di covarianza e vettore delle medie), sbatti tutto in un risolutore per problemi di programmazione quadratica e pigi il bottone. Otterrai la frontiera efficiente dei portafogli, con una curva molto scenografica e rendimenti attesi specificati al secondo numero decimale, forse anche al terzo. Bello bello.

C’è però un problema: quei portafogli non hanno senso. Se non per caso. Letteralmente: i pesi di portafoglio sono casuali. Questo perché l’errore di stima dei parametri è tipicamente di tipo “monster” e i portafogli si fondano su una storia che non si verificherà più. Inoltre, le ipotesi sottostanti sono lontane dalla realtà (i rendimenti non seguono affatto una distribuzione gaussiana stabile nel tempo) — ma questo è nettamente il minore dei mali.

All’inizio sembra tutto molto figo e tech, anzi fintech, ma è intuitivo come là fuori nel mondo reale siffatti portafogli qualche problema siano destinati ad averlo — tra poco arriva un esempio. Comunque, alle prime mazzate prese dai mercati, tutto sembrerà assai meno figo, tra le belluine proteste di clienti e le lamentele dei consulenti (“Il robo-for-advisor non funziona”).

Alla radice del problema non c’è la sfiga, c’è il “butterfly effect”, cioè l’effetto farfalla.

The butterfly effect

Si tratta di un rimarchevole concetto nativo della teoria del caos e dei sistemi complessi. L’idea, che probabilmente conoscete, o magari no, è espressa coereograficamente così: un batter d’ali di una farfalla in Brasile può causare una catena di eventi nell’atmosfera tali da provocare un tornado in Texas. Ossia, piccole variazioni nelle variabili di un sistema complesso possono arrivare a causare grandi effetti.

È proprio ciò che capita con i modelli naïve-Markowitz: gli errori nella stima degli input si fanno strada nelle equazioni che portano all’asset allocation finale e finiscono con avere un impatto enorme, tale da inficiare del tutto la validità dell’output. Tanto che l’applicazione del naïve Markowitz è nota nel mondo quant come “maximization error model”. Siccome è un’idea un po’ cerebrale, tocchiamola con mano con un esempietto.

Immaginate di essere il dio dei mercati finanziari. Considerate 25 asset class, per le quali bonariamente imponete che la distribuzione di probabilità dei log-rendimenti settimanali sia gaussiana, con volatilità crescente da 1% a 25% e Sharpe ratio democraticamente pari a 0.3 per tutte le asset class, matrice di covarianza a correlazione costante (ipotesi utili per creare un esempio ragionevole).

In queste condizioni di perfetta conoscenza del mercato, per un profilo di rischio medio, un portafoglio “ottimo”, di tipo long-only, secondo il modello naïve Markowitz ha i pesi delle varie asset class mostrati nella figura seguente, ordinati in funzione della volatilità. (Incidentalmente, sotto queste ipotesi, il portafoglio ottimo è quello a “massima diversificazione”; più nello specifico quello che massimizza il rapporto tra somma ponderata delle volatilità degli asset, e volatilità di portafoglio, ossia il rapporto ∑w(i)*σ(i)/σ(PTF).)

Sembra in effetti piuttosto ragionevole: i pesi sono ben distribuiti (indice di concentrazione pari a 6%, bassissimo), le attività meno rischiose pesano di più (rammento che è un portafoglio a rischio medio), grosso modo il 50% del portafoglio, mentre gli attivi più volatili cubano per un 20% circa. Notate che in questo mondo immaginario e perfetto questa è la verità assoluta (del resto, rammentate, siete il dio dei mercati finanziari): non c’è errore di specificazione legato alla scelta del modello, né errore di stima dei parametri.

Ora cambiamo prospettiva: non siete più il dio dei mercati, siete stati tramutati in un software. Per l’esattezza un sistema di robo-for-advisory, al quale viene dato in pasto un campione di cinque anni di dati settimanali generati dalla distribuzione di probabilità di cui sopra, quella del dio del mercato. Date le ipotesi, l’errore di specificazione (quello legato alla scelta del modello) nell’usare naïve Markowitz è zero. La storia, inoltre, è rappresentativa del futuro. C’è solo errore di misura, l’errore campionario puro.

Dai dati calcolate i pesi ottimali secondo naïve Markowitz e li mettete da parte.

Poi ripetete l’esercizio.

E ancora. Per diecimila volte: diecimila possibili stati del mondo.

Ora vediamo com’è andata grazie al grafico seguente, che riporta, per ognuna delle 25 asset class, l’intervallo contenente gli estremi di variazione degli scostamenti tra il peso calcolato dal dio del mercato e i diecimila pesi stimati dal sistema di robo-for-advisory. L’errore commesso rispetto al portafoglio del dio varia allegramente dal -12% a poco meno del 90%: significa che se il peso ottimo “vero” è, poniamo, 10%, il sistema di robo-for-advisor naïve Markowitz potrebbe tranquillamente dirvi che è 0%, oppure 50%, oppure 30%, oppure 90%. L’indice di concentrazione dei pesi è in media 7 volte più elevato che nel portafoglio “vero”, il che vuol dire che la diversificazione si riduce drasaticamente.

Se consideriamo a titolo d’esempio l’asset numero 2 (a basso rischio, con volatilità 2% e rendimento atteso 0.6%), nel portafoglio ottimo “vero” (quello da dio) il peso è 12%. Guardate invece come oscilla nelle varie ottimizzazioni fatte dal robo-for-advisor: assume spessissimo valore 0%, e assume qualsiasi valore ammissibile, arrivando anche a dominare il portafoglio, mandando gambe all’aria la diversificazione.

Penso che ora vi sia chiaro il madornale errore associato al naïve Markowitz, nonché la ragione dell’appellativo di “maximization error model”: l’errore di stima genera portafogli casuali come quelli che potrebbe generare un macaco ubriaco. Non si tratta di mancanza di finezza matematico-statistica. No. Sono errori grandi quanto un capodoglio. Parliamo di risultati casuali, instabili (per chi è matematicamente orientato, per avere davvero paura basta dare un’occhiata alla matrice jacobiana contenente tutte le derivate parziali dei pesi wrispetto al vettore dei rendimenti attesi m, cioè ∂w/∂m). Si ottengono asset allocation spesso lontanissime dal risultato corretto, praticamente prive di valore. Classico “garbage-in, garbage-out”.

Purtroppo la realtà è ben peggiore di così: ricordo che nell’esempio c’è solo e unicamente l’errore legato alla stima campionaria, mentre nella pratica c’è anche un enorme, madornale errore legato alla specificazione del modello e al fatto che i parametri di mercato cambiano di continuo, in balia di distribuzioni di probabilità “fat-tailed” ben lontane dall’ipotesi gaussiana. Spero vi sarà evidente quale immensa idiozia siano quelle belle frontiere efficienti e quei rendimenti attesi specificati al secondo decimale (l’unica cosa intellettualmente onesta e difendibile da presentare a un cliente sarebbe un intervallo probabilistico calcolato realisticamente).

Utilizzare naïve Markowitz così — che poi è ciò che stanno facendo con entusiasmo molti consulenti finanziari e private banker — alla fine della fiera porterà a una sola cosa: una meritata mestizia, sotto forma di performance fuori controllo, spesso in territorio negativo per rischi non desiderati e per di più non facilmente spiegabili al cliente, perché figlie di un ottimizzatore pazzo che distribuisce pesi a caso tra gli asset.

Quando si verificheranno i disastri, di chi sarà la colpa? Sicuramente — e giustamente — il dito verrà puntato contro il software. Ma in solido sarà responsabile il consulente, che con il cliente ci mette la faccia, nonché la casa madre, che ha messo in piedi il baraccone. Un bel rischio operativo. Con i costi fatti pagare al cliente, è inaccettabile. Non fatelo, seriamente.

Soluzioni?

C’è una buona notizia: sì, è possibile evitare di sprecare inutilmente budget in una macchina per produrre spazzatura finanziaria qual è il fetentissimo naïve Markowitz. E sì, è possibile dotare i relationship manager di strumenti utili per l’attività di consulenza finanziaria, a giustificazione delle alte commissioni pagate dai clienti.

I meta-ingredienti occorrenti per fare le cose in modo ragionevole sono due.

  1. Una metodologia, che non può essere un singolo modello “one-size-fits-all”, magari scolastico e datato, bensì una “ricetta d’investimento” creata combinando metodi di portfolio construction e stimatori robusti, orchestrando il tutto per ridurre scientificamente (questa volta sì) l’errore di misura, che altrimenti porta i pesi di portafoglio ad esplodere come mine. Il tutto inserito in modo coordinato in un processo d’investimento razionale, disciplinato e finanziariamente ben fondato, con uno storytelling chiaro e credibile nel confronti del cliente.
  2. Un governo centrale del processo di definizione dei portafogli, che parta dalla casa madre. Senza un presidio forte sulla costruzione dei portafogli, ineluttabilmente qualche consulente finanziario o private banker con l’indole del Warren Buffet della Brianza o del Ray Dalio della Ciociaria prima o poi combinerà qualche disastro del quale pentirsi (e far pentire la casa madre).

Ora, non è difficile fare le cose per bene. Occorre solo conoscenza di processo e know-how di modellizzazione statistica e finanziaria che vada oltre Markowitz e uno scolastico Black-Litterman. Sfortunatamente, sembra che svariate organizzazioni ne siano sprovviste.

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Raffaele Zenti
Qwafafew-Italy

Nato per sbaglio sulla terraferma, sto meglio in mare ma corro sui monti. Dati e Data Science per campare: ideatore e fondatore di Virtualb.it e AdviseOnly.com.