Il fallimento del data journalism italiano: quali sono le cause?

Andrea Nelson Mauro
4 min readMay 15, 2016

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Immagine da https://de.wikipedia.org/wiki/Datei:Shipwreck_Batumi_Georgia_R_Bartz.jpg

[Prima di leggere l’articolo, occhio alla data: è del 2016 e tante cose sono cambiate]

Quest’anno (2016) sono stato invitato da Global Editors Network a valutare i progetti candidati ai Data Journalism Awards 2016. La giuria è presieduta da Simon Rogers (data editor di Google) e Paul Steiger (mitologico fondatore di ProPublica). L’esito delle votazioni, che ha portato alla definizione della shortlist, ha purtroppo determinato l’esclusione di tutti i progetti italiani (anche noi Dataninja abbiamo partecipato, con il progetto Confiscated Goods, e siamo stati esclusi). Quelli che inserisco qui di seguito sono i criteri che Rogers e Steiger ci hanno detto di seguire nella fase di valutazione.

1) Innovation: how innovative is the piece of work? Is it doing something new? Does it move the needle on how data is reported.
2) Content and story: it’s not just about producing things that are pretty. What story are they telling? Do they fulfill the journalistic purpose of any piece of work int his area? How well-edited are they?
3) Technology: does the work reflect well across technologies? Across mobile and other platforms, does the work take advantage of the opportunities these provide?
4) Context: An ambitious piece of work from a war zone or a developing nation or other difficult situation should be rewarded for that. What conditions are the data journalists there working under?
5) Story telling: I’ve put this in twice for a simple reason — we want to encourage the best journalism around data. It’s not just about reproducing statistics but endowing them with greater meaning.

The DJAs reflect the best of the world of data journalism. We want people to see the shortlist and immediately understand why these entries are in there, We also want the world to be inspired to make sure this exciting area of journalism continues to be the best part of working as a reporter in 2016.

[Update: dai un’occhiata ai commenti interessanti in coda al post]

Piccola precisazione: mi dice giustamente Andrea Raimondi che devo argomentare meglio cosa intendo per fallimento. È un fallimento per me non arrivare alla shortlist perché sui progetti che ho valutato emergono alcune cose: la potenza dei media mainstream (come Bloomberg Graphics) rispetto ai nostri e l’uso di tecnologie tostissime (WebGL, OSM buildings, come lo Straits Times). L’uso massiccio di tecnologia e design è cresciuto enormemente a mio giudizio (cresciuto altrove, intendo).

Il contesto

Con MigrantsFiles Dataninja ha vinto il premio nel 2014, mentre l’anno scorso lo ha vinto Matteo Moretti con Repubblica Popolare di Bolzano. Questo poi in contesto come quello italiano, che da dieci anni ospita il Festival del Giornalismo di Perugia (occasione di stimolo e dibattito a livello mondiale).

Quali sono le cause del fallimento?

Provo ad elencarne alcune:

  • I grandi editori non investono sul data journalism: l’Italia è forse l’ultimo Paese al mondo in cui non esistono dentro le redazioni dei team data driven strutturati.
  • [update] Le persone che lavorano nelle redazioni e ci provano, sono lasciate al proprio destino, come se l’innovazione che propongono fosse un problema e non una risorsa. Lo preciso grazie alla segnalazione di un amico che mi fa notare che non è chiaro.
  • La sperimentazione e la ricerca nel giornalismo in Italia non vengono finanziate: esistono grant e fellowship, ma i fondi vengono tutti dall’estero.
  • La formazione fatta fin qui ha fallito: noi che ne facciamo in giro poniamoci dei dubbi (per quanto chiaramente se ti chiamano a fare 4 ore di formazione, non puoi fare miracoli).
  • I percorsi di studio strutturati non esistono: le università e le scuole di giornalismo non offrono formazione specifica. Non esiste al momento (che io sappia) un master in data journalism.
  • Le competenze tecnologiche vengono snobbate: o sono considerate troppo difficili, o sono relegate a questioni tecniche. Te lo dico col cuore: se la pensi in un modo o nell’altro, devi fare lo sforzo di studiare, imparare, metterti in discussione (fra l’altro vedrai che ti piacerà!). Chi non lo fa rischia di essere travolto e dimenticato.
  • Non esistono soggetti finanziatori indipendenti: d’accordo che non abbiamo una tradizione filantropica, ma questo non giustifica l’assenza totale di fondi per l’innovazione nel giornalismo. Le Fondazioni, le ONG, le associazioni di categoria cosa stanno facendo? Assolutamente nulla, quando invece potrebbero finanziare attività di ricerca specifiche.
  • Non c’è in Italia un approccio crossborder o internazionale: gli unici che lo fanno sono i gruppi indipendenti e i freelance.

Le ultime frattaglie

Nello pseudo-dibattito ci sono anche dei rumori di fondo che vanno elencati perché sono di contesto.

  • Gli sfigati che dicono che il data journalism non è giornalismo: una tabella pivot vi seppellirà :-)
  • I nostalgici che ancora la menano con la storia de l’odore della carta
  • I teorici del quaquaraqua che dicono «il data journalism non ha un modello di business». E che vuol dire? Il pizzaiolo ce l’ha? E l’ingegnere? Intanto studia, poi ti cerchi un lavoro: io ho fatto così e ci pago il mutuo!
  • I futurologi che organizzano convegni con titoli tipo “Il data journalism come nuova frontiera del giornalismo” e il giorno dopo non cambia un cacchio.

Qual è la tua opinione? Condidivila!

Magari puoi pensare che abbia scritto fesserie, o hai qualcosa da aggiungere. Sarebbe bello che lo scrivessi… Dai parliamone insieme! :)

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Andrea Nelson Mauro

Data journalist since 2012, co-founder of dataninja.it & ondata.it | 🏆Data Journalism Award & European Press Prize winning. Sometimes I write in a poor ENG :-)