#LAStories Vol.4 : allo Staples per i Lakers

Un.Dici
De Viajes
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9 min readJan 4, 2019

El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles del Rio de la Porciúncula de Asís, venne fondato dagli Spagnoli in quella che oggi è la costa ovest del territorio Statunitense, non troppo distante dall’attuale confine con il Messico, e con la penisola della Baja California.

Assunse lo status di città nel 1850, poco prima che la California diventasse il trentesimo stato interno agli Stati Uniti d’America, crescendo nei primi decenni del secolo a venire grazie ad un importante giacimento di petrolio, che la trasformò da piccolo agglomerato di frontiera nel produttore di un quarto del carburante consumato in tutto il globo (ovviamente, si parla degli anni venti). Contemporaneamente a tutto ciò, quella che potremmo definire la nascente industria cinematografica del paese, decise di spostarsi dalla costa Est (New York) a quella ad Ovest, probabilmente attirata dal clima e soprattutto dalla luce, che da sempre caratterizza quella California di cui Los Angeles appare megalopoli maggiormente associata nell’immaginario collettivo.

David Lynch

“Arrivai (a Los Angeles) nel 1970, in piena notte. La mattina dopo sono uscito dal mio appartamento e per la prima volta ho conosciuto la luce di Los Angeles: era così bella che quasi sono svenuto. Amo la luce di L.A., amo il fatto che la città sia così espansa, ti da una sensazione di infinito e di libertà. E poi la amo perché era la casa dell’età dell’oro del cinema, e l’atmosfera di quell’epoca ogni tanto torna in vita ancora oggi, quando di notte germogliano i gelsominiracconta David Lynch qualche anno fa, presenziando al Festival del Cinema di Roma. “La luce di Los Angeles mi infonde la sensazione che tutto sia possibile” confermerà in seguito, sottolineando come quella magia che lo ha stregato fin da subito fosse in grado di assorbire ogni sua paura. E se lo dice un Maestro capace di determinare con l’utilizzo della fotografia le trame di film onirici dalle possibilità interpretative infinite, c’è da credergli.

La città diviene rapidamente il perno del mondo glamour di un paese in vertiginosa crescita, ospitando nel 1932 le decime Olimpiadi dell’era moderna, che saranno replicate nel 1984 (l’edizione dei quattro ori di Carl Lewis e dell’assenza dell’Unione Sovietica, con altre tredici nazioni). La squadra di pallacanestro professionistica, i Los Angeles Lakers, ne divengono simbolo assoluto proprio nel decennio di maggior benessere e fioritura cittadina, di pari passo con la crescita dell’industria cinematografica: Earvin Magic Johnson arriva nel 1979 (affiancandosi a giocatori come Kareem Abdul Jabbar, James Worthy e coach Pat Riley), e con il suo gioco visionario farcito da una personalità unica, inventa l’era dello “Show Time”, un periodo in cui il Great Western Forum di Inglewood (il palasport della squadra gialloviola) diviene “the place to be” per attori, musicisti ed imprenditori che vedono nella Città degli Angeli il luogo dove basare il proprio impero, un crescente successo, una fortuna economica destinata a lievitare.

I Lakers — che per la cronaca potremmo tradurre con “i lacustri” — sono una franchigia che proviene da Minneapolis (quello si, territorio tipicizzato da laghi che ne giustificano il nomignolo, di contro sostanzialmente assenti per importanza nella zona losangelina) ed arrivano in città nella stagione 1960/61, portando in dote cinque titoli NBA vinti precedentemente, grazie principalmente al primo vero giocatore dominante nella lega più importante al mondo di pallacanestro, George Mikan. Prima di Magic e dello Show Time, a Los Angeles si deve penare moltissimo per poter festeggiare un campionato vinto, nonostante la presenza in squadra di autentiche leggende del gioco come Elgin Baylor, Jerry West ed, infine, Wilt Chamberlain. Il primo titolo arriva un decennio dopo, ed a seguito del successo degli anni ottanta già citato, la Los Angeles sponda Lakers (perché in NBA esiste anche un’altra squadra cittadina, i Clippers) macinerà successi alternandoli a ricostruzioni che porteranno giocatori ed allenatori del calibro di Kobe Bryant, Shaquille O’Neal, Phil Jackson e — last but not leastLebron James, arrivato nell’Estate 2018 con l’intenzione di riportare in alto la seconda franchigia più titolata dell’NBA, dopo anni sbiaditi di ricostruzioni tentate.

Nel frattempo, con l‘ingresso nel secondo millennio, viene inaugurato l’avveniristico Staples Center come casa dello sport indoor cittadino (e non solo), situato in pieno Downtown, posizione ben diversa per hype al vecchio (e ristrutturato, nel frattempo) Forum di Inglewood.

Quando arrivi davanti allo Staples Center — perfettamente incastonato in quella zona di Downtown rinominata “L.A. Live”, di fronte al Microsoft Theatre ed a tre passi dal Grammy Museum — se sei un fan di Basket, ti senti per un attimo come a Disneyland.

Di fronte all’ingresso principale dell’immenso palasport (la capienza ufficiale si aggira attorno alle 21.000 anime) le statue dei più grandi interpreti che questo gioco abbia mai visto in maglia Lakers, si mostrano in tutto il loro splendore, e gran parte dei nomi li avete letti in precedenza. Oltre ai vari Kareem, West e Magic c’è anche lo storico telecronista gialloviola Chick Hearn, raffigurato seduto al suo tavolo da telecronista, al quale è stato dedicato anche il viale adiacente al palazzo.

Andare a vedere la squadra più amata di Los Angeles (per buona pace dei Clippers nei quali milita attualmente anche il “nostro” Danilo Gallinari) è un esperienza sicuramente costosa, anche se si scelgono i posti più popolari e più distanti dal parquet (cosa che ha fatto il sottoscritto, bestemmiando comunque a denti stretti durante il pagamento del ticket all’uscita dei calendari stagionali). Lasciamo perdere i prezzi interni allo Staples, dove una birra costa la bellezza di 12 dollari, e per quanto riguarda il resto non mi son neanche sentito la voglia di indagare, anche considerando che la gara iniziava alle 19.30 locali,e la vista ravvicinata di cibo poteva esser eccessivamente tentatrice. Generalmente, mangiare nella Città degli Angeli è già una tassa salata di per sè, figuriamoci all’interno di uno degli spettacoli sportivi più esclusivi.

Con la consueta sfortuna che mi contraddistingue, il principale motivo che mi ha spinto fino in California per vedere la mia prima gara di NBA dal vivo di sempre — e cioè la presenza in squadra di Lebron James, forse il miglior giocatore di ogni epoca — è in panchina ad ammortizzare uno strappo muscolare subito nella sfida natalizia vinta dai Lakers contro Golden State. Me lo aspettavo, anche se esisteva una flebile speranza di rientro, ma l’incazzatura per questa tremenda mancanza svanisce di colpo non appena vedo il campo, con gli stendardi degli storici titoli vinti e delle numerosissime maglie ritirate dai gialloviola.

E poi i Lakers si presentano comunque come squadra interessante, caratterizzata dai giovanissimi e promettenti Ingram, Ball, Kuzma ed Hart (un gruppetto al quale James e l’altro infortunato Rondo, fanno da chioccia ) con qualche vecchio leone come Tyson Chandler ed il lunatico Lance Stephenson. E poi dall’altra parte ci sono gli Oklahoma City Thunders, squadra di vertice per lal Western Conference, capitanata da Russell Westbrook e Paul George, oltre che dall’australiano Steven Adams.

Tra l’altro Westbrook è originario di Long Beach ed ha giocato al College ad UCLA, tanto da venir più volte applaudito dal pubblico “della sua città”, pur giocando da avversario. Per quanto riguarda George (anche lui Californiano, di Palmdale), la situazione è un pò diversa: nell’Estate appena trascorsa sembrava esser sul punto di firmare per i Lakers proprio con Lebron James, prima di decidere di restare ad Oklahoma City, garantendosi l’odio dei tifosi losangelini, che lo fischiano copiosamente fin dal suo annuncio in campo.

E proprio di fronte alla madre, sotto una pioggia di insulti, PG13 gioca una partita strepitosa, realizzando 37 punti pur tirando male da dietro l’arco, tamponando le falle realizzative di un Westbrook spreciso, capace comunque di concludere con una tripla doppia da 14 punti, 10 assist e soprattutto 16 rimbalzi (e non dimentichiamoci che sarebbe la point guard di questa squadra).

I Thunders vincono una gara importante pur tirando male, ma sfruttando il black out offensivo dei Lakers in avvio di quarto periodo, dove il giovane Brandon Ingram prova a prendere in mano la squadra sbagliando praticamente sempre, e vanificando tre quarti in equilibrio sostanziale. Partita sfortunata per tutti i giovani leoni gialloviola, con un Kyle Kuzma che molla a metà partita per un lieve infortunio (comunque già sotto tono in avvio), un Josh Hart poco preciso e molto sprecone (che cattura però, incredibilmente, 15 rimbalzi) ed un Lonzo Ball che dimostra nuovamente capacità difensive di tutto rispetto (le pessime percentuali di Westbrook sono per gran parte merito suo), ma limiti realizzativi sorprendenti, soprattutto dalla lunetta. La baracca la reggono un Kentavious Caldwell Pope da 25 punti (l’unico che segna da tre con continuità) ed i guizzi di Javale McGee sotto canestro: un pò troppo poco per impensierire OKC, che si trova la partita in tasca nel finale senza neanche forzare troppo.

Tra loro, impressiona dal vivo la capacità di Westbrook di essere giocatore totale con facilità e naturalezza (pur non essendo in serata di grazia), il talento offensivo di un Paul George che stupisce per equilibrio e movimenti (molto più di quanto non appaia filtrato dallo schermo televisivo), la staticità e l’importanza di Steven Adams (14 punti e 15 rimbalzi per lui) e la crescita di Jerami Grant, divenuto pedina importante nello scacchiere di squadra non solo grazie al suo straordinario atletismo. I risultati stanno dalla parte dei ragazzi allenati da Billy Donovan, e considerando che la miglior forma per Westbrook è ancora lontana, si tratta di un squadra che può decisamente far bene con il proseguo della stagione, anche in prospettiva play-off.

Tornando ai Lakers, tutto ruota intorno alla figura di Lebron James, e non solo a livello di marketing. Pur non interferendo con il ruolo di coach Luke Walton (discutibile per rotazioni e scelte, ma di atteggiamento piuttosto polemico verso la terna, una cosa che non mi sarei aspettato), il Re appare molto coinvolto all’interno dello spogliatoio, partecipando ai time out con i compagni, sedendo in panchina e dispensando consigli, pur apparendo palesemente scalpitante in borghese. A maggior ragione man mano che l’antagonista Paul George prende in mano la sfida, la fa sua e zittisce i fischi di uno Staples Center che — nonostante la prova mastodontica — non gli tributa nessun gesto di stima, neanche nel finale.

Con James sarebbe stata sicuramente un’altra gara (quantomeno, i Lakers non avrebbero sofferto il parzialone di inizio quarto periodo che ha ucciso la sfida), ma i motivi di interesse non sono sicuramente mancati. E questo è tipico di una lega come l’NBA, farcita di storie, corsi e ricorsi, campioni ed incroci per i quali si potrebbero scrivere autentiche enciclopedie in preparazione di ogni incontro.

Inutile dire che lo show che funge da contorno a tutto questo appare decisamente all’altezza del prezzo del biglietto, così come i comfort e l’organizzazione di una struttura come lo Staples Center, dotata di una splendida terrazza all’ultimo piano, dalla quale è possibile osservare da una posizione privilegiata la zona circostante della L.A. Live, dominata di questi tempi da una gigantesca pista di pattinaggio con albero di natale al centro (chiaramente, di stazza mastodontica). Uno zona dedicata anche e soprattutto ai fumatori, e non solo di tabacco in uno Stato dove la vendita di Marijuana è stata legalizzata anche a scopo ricreativo (e qualcuno se la fuma pure qui, posso testimoniare dall’odore inconfondibile).

Insomma, all’età di sei anni sognavo i Lakers di Magic Johnson, quelli che giocavano al Great Western Forum di Inglewood, mentre ascoltavo Dangerous di Michael Jackson e “sognavo la California” che vedevo nei telefilm. Quasi trent’anni dopo — potrete immaginarvi — le emozioni che hanno accompagnato questo viaggio che da Hollywood è passato sulle spiagge di Santa Monica, Venice e Malibu attraverso la Mulholland Drive, il capodanno a Grand Park, le strade di Beverly Hills, Melrose Avenue e Sunset Boulevard, per chiudersi allo Staples Center con i Lakers (seppur sconfitti), non sono state da poco.

In ogni caso, collaborando con NbaWeek insieme ai miei due colleghi Lorenzo Prosperi ed Edoardo Bigazzi, ho raccolto le emozioni e le immagini del giorno della partita nel videoblog che segue (seppur girato in modo amatoriale e totalmente improvvisato).

Ed ecco una puntata speciale su Los Angeles per il Podcast di Nba Week:

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Un.Dici è l'universo di Julian Carax, doppio di Davide Torelli, che sarei io. Qualcosa in più qui: https://linktr.ee/davidetorelli