Progetti per rendere visibile l’invisibile

Ovvero storia di come sono finito a insegnare arti oscure a San Marino: interaction design, creative coding e physical computing per il design. Appunti per un racconto degli anni di docenza a design.UNIRSM

Daniele Tabellini
DesignDraft
14 min readNov 28, 2018

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Progetti per rendere visibile l’invisibile a design.UNIRSM, 2013–2018

Indice

Capitolo I: io (il lato esistenziale del fare didattica per il design)
Capitolo II: come (l’approccio metodologico e gli strumenti)
Capitolo III: loro (gli studenti e una selezione di progetti)
Capitolo IIII: imparo (la didattica come progetto)
Capitolo IIIII: qualcosa (i progetti diventati tesi)

Appendice: le variazioni significative (no, niente spoiler)

— «Prof. ma allora posso fare un progetto per dimostrare l’esistenza di Dio?», fa la giovane designer-in-progress.

Tutti si fanno attenti — «Eh, direi che se ci riesci si diventa famosi: San Marino centro dell’universo.»

Chi sono io per stroncare l’entusiasmo?

Capitolo I: io

Senza titolo, inedito, di Teller & K, 2015 — disegnato con Fury3Draw, prototipo per il disegno VR/AR scritto in Processing 3.0

Copertina

È settembre 2018 e sono in aereo direzione New York. Quello che cercherò di raccontarvi è quella parte dell’esperienza professionale degli ultimi cinque anni che mi porta a passare molto tempo sui mezzi di trasporto tra la Repubblica di San Marino e le colline pisane, passando per Firenze e Bologna. Una volta la settimana andata e ritorno per un semestre fatto di dodici settimane, più esami e consigli di laurea.

Perché vi dovrebbe interessare? Perché quello che faccio con i ragazzi è fargli avere idee. Idee su cui lavoriamo con approccio open source e con un po’ di spirito di “estemporaneità strutturata”. Idee su cui io, ma anche voi, anche loro, un giorno potrebbero costruire altri artefatti e altre idee.

Vediamo, da dove partire.

Incipit

2:49pm a New York, 20:49 a Crespina, 7:49 del pomeriggio all’aeroporto di Londra. In volo sull’atlantico, meno di 5 ore alla città che non dorme mai. Chissà se riesco a tracciare tutta la struttura di questo testo. Quello che mi manca è un io narrante. Io? Loro? Una terza voce? Erika? Il tecnico dei computer metallaro dei primi anni in università?

Prima dei 40

Il mio laboratorio aveva già cambiato un paio di nomi, Laboratorio di Sistemi Interattivi la prima esperienza di docenza a contratto, A/A, Anno Accademico, 2013–14, Laboratorio di Interaction Design 2, A/A, Anno Accademico, 2014–15. Tutte maiuscole come si confà ai nomi di un laboratorio magistrale. L’ultimo laboratorio magistrale per essere esatti prima della tesi specialistica, quella che in inglese si chiama Master Degree, 8 crediti formativi e più di 100 ore di formazione in design.

Siamo nella più antica repubblica parlamentare del mondo, fuori dall’Europa ma a mezz’ora di auto dalla costa romagnola. Un antico monastero, nascosto tra i vicoli della Città di San Marino, è la sede di una piccola ma agguerrita scuola di design che da un po’ di tempo si firma design.UNIRSM.
Erika mi ha fatto notare che sembra Hogwarts, fai un passo dal binario di una stazione del treno (Rimini) e sei catapultato in un altrove dove studiare magia (design) fatto per buona parte di pietre e giardini in cima ad una montagna (Titano). Tre torri dominano il territorio circostante, le prime due si raggiungono attraversando il Passo delle Streghe (quale altro) la terza è lì da oltre mille anni.

Tra apprendisti stregoni, docenti col cappello a punta e tuttofare siamo alcune centinaia da ogni dove. Conosco molti nomi, i rapporti sono cordiali e schietti, condividiamo l’avventura dell’isolamento, siamo a più di 600 metri sul mare e in inverno certe volte le nuvole tutt’intorno tagliano fuori il mondo. Quelle notti, dall’alto del borgo, il paesaggio diventa come in certi libri (di magia appunto), Terramare a perdita d’occhio.

Per arrivare dal paesino toscano dove vivo sulle colline pisane, Crespina, ogni settimana impiego 5 ore, 3 treni, 1 bus da spendere con gli auricolari nelle orecchie a preparar lezioni, racconti e codici sorgenti.

Perché un’apprendista stregone dovrebbe venire fin quassù a studiare design? Mumble mumble mumble. Se applichiamo la parsimonia del rasoio di Occam alle molte risposte possibili — scegliere è progettare no? — direi per il Laboratorio di Design del Prodotto 1 di Massimo Barbierato alla laurea triennale, un semestre a testa bassa e mani sporche su materiali come la cioccolata.
Ah e poi arrivano parecchie menzioni d’onore (junior), da quel noto premio milanese a forma di compasso (d’oro), se vale.

Ok dicevo, il Laboratorio di Sistemi Interattivi mia prima esperienza strutturata di insegnamento universitario, quindici anni di professione alle spalle come designer, art director, artista, hacker e chi più ne ha più ne metta, A/A 2013–14, chiamato dal direttore Alberto Bassi e da Gianni Sinni a insegnare arti oscure: interaction design, creative coding e physical computing.
L’idea è stata di far didattica vicino alle mie corde artistiche, disegno e performance: usare l’alchimia del design generativo e degli algoritmi di design procedurale per creare piccole macchine software che arricchissero il gesto e l’espressività durante il disegnare, magari dal vivo, in contesti performativi. Il primo syllabus, racchiuso nel titolo Generative Design Drawing, chiedeva di progettare interfacce e strumenti di disegno digitale per performance live alla I Biennale del Disegno di Rimini, e di realizzare esercizi di stile in motion design per decine di buffi titoli di testa di film come Trainspotting e serie come Six Feet Under.

Live alla Biennale del Disegno di Rimini, 2014
Piccoli esercizi di motion design “generativo — disegnato”, 2014

Il laboratorio è diventato Interaction Design 2 al secondo A/A di docenza. La seconda volta è venuta diversa, la seconda viene sempre meglio ok, un po’ più morta sul piano del coraggio ma sicuramente più solida. Stavo imparando, e stavano imparando loro.
Di quel semestre dal titolo Data, Art and Meaning sottovoce si parla ancora negli stretti corridoi del monastero. Ogni tanto sulle scale incontri un piccolo gruppo di studenti dall’aria sospetta, se ti avvicini e ascolti senza farti notare c’è sempre una recluta ben informata che racconta la leggenda di Andrea Giacobone che aveva accesso ai log completi del server centrale. Si dice che prima o poi verrà realizzato il suo progetto di installazione per l’ingresso della scuola: usare il flusso dati sulla rete universitaria per comandare pompe idrauliche a far scorrere liquidi colorati in lunghi fasci di tubi trasparenti attaccati alle pareti e al soffitto, su su fino ai giardini e oltre in giro per la città. Un bel po’ cyberpunk, sì. Qualcuno si domanda se Andrea sia venuto a conoscenza di segreti sull’uso della rete in università — crear leggende è progettare no? — ad un certo punto su GitHub Andrea e Francesca… no questa non ve la racconto.

Piccolo prototipo utile alla mitopoiesi, 2015

Ed eccoci all’autunno 2015, si avvicina il laboratorio del nuovo A/A, il terzo inverno–primavera in fila a salire e scendere dalla città incantata. Con Michele Zannoni nuovo gran maestro della laurea magistrale il nome cambia ancora: Laboratorio Design di Sistemi Interattivi per l’Informazione. Forma breve DSII.

14:30, chiamata video Firenze studio Lcd — Città di San Marino, design.UNIRSM, 14° piove, camicia di jeans sdrucita io, girocollo nero modello Silicon Valley dall’altra parte del video, spettinati e barbuti entrambi.
— «Ricorda che sei l’ultimo esame,» fa Michele, serio.
Sottolinea ultimo.
— «ok»
— «il tuo laboratorio chiude il percorso di studi a San Marino.
Devi fargli valorizzare quanto hanno fatto e prepararli al percorso di tesi, nel frattempo li introduci alle arti oscure.» (sì non ha proprio detto arti oscure)

Mi presenta davanti un syllabus bianco dove sarebbe bello, penso-al-volo-mentre-Michele-continua-a-parlare, insegnare ai ragazzi modi di progettare artefatti che agiscano con efficacia in sistemi complessi, costruire strumenti multimediali e mixed-media per interpretare il mondo, per leggere i segnali che ci circondano, per provare a esplorare futuri possibili attraverso la creazione e il collegamento di idee e persone, magari introdurli a qualche pozione o storia da iniziati durante l’anno che Corto Maltese l’ho letto fin troppo bene.

Michele-intanto-mi-guarda-aspetta-un-commento…

Scrivere un syllabus non è altro che scrivere una storia, una storia che costruisce relazioni in potenza tra il mondo che conosci, e quello che vorresti ci fosse. Come tessere una ragnatela di possibilità tra gli studenti coinvolti e i progetti, le storie e le persone che gli farai incontrare nello svolgersi dell’avventura.

Ha a che fare con lavorare su quell’invisibile delle parole di Bifo:

Other futures and other worlds are always already inscribed within the present, despite power’s attempt to keep them invisible.¹

Come si trasforma un laboratorio in quello che negli Stati Uniti chiamano Advanced Interaction Design — in concreto una decina di settimane davanti a computer BYOD* e aggeggi elettronici nella piccola stanza di un vecchio monastero, otto ore a settimana, due giorni di seguito — in un’esperienza finale che chiuda il cerchio? Sto-parlando-ad-alta-voce, in un punto di svolta somma di molti pezzi precedenti che ci-metto-del-mio evidenzi la libertà di scelta nel progettare, la responsabilità nel farlo, il ruolo che da designer e artisti dovranno avere nella società per migliorarla? O almeno per non peggiorare le cose.

Così tante possibilità in quel titolo Laboratorio Design…

¹ Berardi, Francesco ‘Bifo’. 2017, Verso Books. Futurability. The Age of Impotence and the Horizon of Possibility.

Senza titolo, inedito, di Teller & K, 2015 — disegnato con Fury3Draw, prototipo per il disegno VR/AR scritto in Processing 3.0

Il titolo è un inizio

Il titolo è un inizio, e allora inventiamone uno, un titolo informale da scrivere sotto il nome ufficiale e da raccontare fuori di qui, qualcosa che apra possibilità e sia l’inizio della narrazione. Una scusa insomma, per fare le cose per bene. Eccolo.

Making visible, expressive computational approaches to meaning

Making. Creare. Fare. Costruire. Rendere.
Visible. Il visibile. Le cose visibili, osservabili. Ciò che vedi, la realtà.
Making visible. Costruire il visibile.
Expressive. Espressivo, estemporaneo.
Computational. Computazionali. Fatti col computer. Codificati.
Approaches. Approcci. Esplorazioni.
To meaning. Al significato. Ai significati. Alla creazione di senso.

Mio nonno nella monografia Punkie Totalista, Fupete per ROJO® edicions, 2008

Vedo cose (mio nonno o del perché rendere visibile l’invisibile)

Mio nonno era un pittore macchiaiolo, allievo di Renato Natali, questa è la storia che ho sentito da quando sono nato. Pittore macchiaiolo, macchie di colori ad olio pazientemente stratificate e tirate sulla tela, una ad una, giorno dopo giorno, a cercare luce e vita. Intere settimane di lavoro su ogni quadro, molti quadri disegnati allo stesso tempo, in parallelo, almeno un quadro a settimana finito. Un pittore a cottimo, molto bravo secondo me. C’ha mantenuto una famiglia, la mia, a modo suo sì certo ma deve aver funzionato in qualche misura se siamo arrivati ad oggi.

Una vecchia marina del porto di Livorno a casa dei miei genitori, nel corridoio lungo di cui avevo paura da piccolo, una striscia dymo in plastica lucida rossa con le lettere bianche è attaccata al centro del passe-partout in basso — ⟪Al piccolo Daniele per il suo onomastico⟫ — era il 1975, il mio primo onomastico.

Nonno è morto ero un adolescente all’uscita dal suo ultimo giorno di scuola delle medie, dopo l’esame, nessuna festa quei giorni per la mia promozione. C’era il sole in Via Magenta, una di quelle giornate terse in cui la luce è più luce, vivida. Ricordo bene l’odore pungente anni prima di trementina e Gommina Linetti mentre mi teneva in collo sulle gambe, lui a dipingere cose ferme, poggiate li attorno alla rinfusa, un violino rotto oggi appeso nella mia libreria, una mela, delle ciliegie, un drappo rosso, uno dei tanti gatti.
Gesti lievi e misurati ad intervalli regolari avvicinavano il pennello o una piccola pezza di stoffa sudicia alla tela. Unghie lunghe e sporche. Anelli d’oro con pietre, grossi. Dita nodose. Occhiali spessi e pochi capelli ma sguardo da bambino.

Mi chiedo ancora cosa vedesse in quelle interminabili ore a osservare oggetti inanimati. Ne cercava l’anima? Era un posto magico il suo studio, pieno di luce, di quella luce bianca che abbacina che ho visto solo nei vicoli livornesi, piante qui e là, e gatti, una corte interna di una casa bassa a piano terra credo, bianco e verde. Bianco e verde.

Proust scriveva che ⟪Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi⟫, ecco io credo che mio nonno ogni giorno si alzasse con nuovi occhi, curioso di osservare ancora una volta quelli oggetti di ieri per continuare a cercare di renderli visibili, a se. Agli altri.

Senza titolo, inedito, di Teller & K, 2015 — disegnato con Fury3Draw, prototipo per il disegno VR/AR scritto in Processing 3.0

Il brief è già metà

Quindi il brief. Quella parte del syllabus che in un laboratorio di una laurea magistrale in design è in fondo la simulazione di una committenza ideale. Il potere più grande di un docente in design che arriva dalla professione è proprio lì, simulare principalmente a se stesso la miglior richiesta che potrebbe auspicarsi di ricevere da un committente. Il brief ideale.

Making visible, expressive computational approaches to meaning

Intro
Scrivere algoritmi e progettare strumenti analogici e digitali per la ricerca, raccolta, visualizzazione e remix di informazioni e dati in tempo reale → coding, data, api, scraping, sensors, remix

Sviluppo
Progettare installazioni, performance comunicative e sistemi interattivi per misurare e rendere visibile l’invisibile → art, installation, performance, interaction, design, tangible

Brief
Evidenziare, far emergere, rendere tangibili e dotate di fisicità quelle caratteristiche immateriali che ogni istante intorno a noi, e attraverso noi, definiscono il carattere dei sistemi-comunità in cui viviamo e ci muoviamo, relazioniamo e percepiamo noi stessi, gli altri e il mondo: valori, energie, possibilità, relazioni, interazioni, reti, flussi, fantasmi, … → meaning, hermeneutic, hacking, networking

Riferimenti progettuali: The flow towards Europe, 2015 | Immaterials: …, 2012 | Monument, 2006

Strumenti
Partecipazione. Lapis e carta. Software e hardware open source (Git/GitHub, Atom, Processing, p5.js, Rawgraphs, OpenRefine, Arduino, …). Computer e device con approccio BYOD (* Bring Your Own Device). Laboratorio di fotografia e stampa 3D

Che l’idea sarebbe lo leggi e poi a testa bassa d’un fiato ti immagini quattro mesi di ricerca-conceptDesign-productDesign-presentazioni-documentazione-magariBusinessPlan-e-vDF (visioniDiFuturo, ndr)

Nel mentre stai correndo a fianco dei due temi principali e complementari del laboratorio che scorrono e si incrociano più volte.

L’interpretazione degli artefatti digitali, a cercare la propria voce. con un approccio leggero e postmoderno ispirato al lavoro di Roberto Simanowsky:

In postmodern times, interpretation is no longer about control or truth. It is not about solving the puzzle of meaning that a work of art represents. It is about suggesting, playing with ideas, reflecting, and sharing thoughts and feelings triggered by interaction with the artwork. Hermeneutics can be considered “a metatheory of the play of interpretations” (Vattimo 1997, 9). No single interpretation should be the end of this process, but there should also be no end to interpretation.²

E la computazione per il design, a imparare a leggere e scrivere. Utilizzando linguaggi e piattaforme di prototipazione open source; l’approccio comunque vada umanista e artistico ispirato al lavoro di Nick Montfort e compari:

First, to undestand code in a critical, humanistic way, the practice of scholarship should include programming: modifications, variations, elaborations, and ports of the original program, for instance. […]

Finally code is a cultural resource, not trivial and only instrumental, but bound up in social change, aesthetic projects, and the relationship of people to computers. Instead of being dismissed as cryptic and irrelevant to human concerns such as art and user experience, code should be valued as text with machine and human meanings, something produced and operating within culture.³

Ed ora sì ce ne sarebbero di cose, metodi e strumenti da descrivere e e bibliografie da sciorinare. Diciamo che mi appunto un post-it per il “Capitolo II: come”, il metodologico, li staranno meglio no?

Invece invece un buon modo di concludere questo primo capitolo sull’approccio esistenziale al far didattica per il design forse è qualche fotografia dalle settimane che scorrono. Seguimi, sono tre anni che tengo questo laboratorio iniziando sempre allo stesso modo…

² Simanowsky, Roberto. 2011, Minnesota University Press. Digital Art and Meaning. Reading Kinetic Poetry, Text Machines, Mapping Art, and Interactive Installations.

³ Montfort, Nick e AA.VV.. 2012, MIT Press. 10 PRINT CHR$(205.5+RND(1)); : GOTO 10

Senza titolo, inedito, di Teller & K, 2016 — disegnato con Fury3Draw, prototipo per il disegno VR/AR scritto in Processing 3.0

W1 (o settimana 1)

Installiamo d’acchito un piccolo vecchio e rumoroso computer dentro il proprio di ultima generazione, 64 kilobytes di memoria dinamica (cinquecentodocicimila bit 1 o 0) che portano indietro nel tempo di 36 anni, a quella vigilia di natale in cui mio babbo Gino tirò fuori dal baule della sua Mercedes amaranto un Commodore 64 nuovo di pacca. La macchina era di quelle tutta curve e interni in pelle, tanto zingaro gitano odore d’infanzia e lasagne la domenica, il C64 era della prima ondata era il 1982 e avevo 7 anni.

L’interfaccia blu per scrivere e mandare in RUN il programma-di-una-sola-riga one-liner per eccellenza del generative design grafico anni ’80: 10 PRINT CHR$(205.5+RND(1));: GOTO 10. Un anello (loop) in potenza infinito scritto in Basic che probabilmente possiamo considerare l’inizio di quello che oggi conosciamo come creative coding, via a scaricare il libro che ne porta il titolo e si comincia ad aprivi il terzo occhio.

Esercitarsi a scrivere porting e “variazioni significative” di 10 PRINT in altri linguaggi diventerà la meditazione del mattino nelle settimane seguenti, un auto-déjà-vu-a-comando per tornare ogni volta qui in W1 e non perdere il filo d’Arianna del laboratorio, a ricordarsi l’inizio dell’avventura.

Ecco un altro post-it, devo prevedere un appendice al libro con tutte le variazioni di questi anni ben ordinate e classificate, con immagini e sorgenti ragionati. Ci starebbe bene. Magari consolidare e descrivere cosa intendo per “variazione significativa”…

W2+ (o dalla settimana 2, ovvero ecco le creature selvagge)

E poi incontriamo le formidabili creature selvagge Processing, p5.js, Arduino, lingue e librerie open source in costante evoluzione pensate per essere usate come sketchbook di appunti, dove scrivere-software o disegnare-hardware nel contesto delle arti visive e del design, con lo stesso approccio con cui scarabocchiereste appunti su pezzetti di carta alla rinfusa a matita mentre ricevete un brief telefonico da un committente che non sa di cosa sta parlando.

E malatempora a chi non conosce i Radiohead!

Arrivano John Maeda e i suoi allievi Fry/Reas e ci si slancia avanti portati dall’entusiasmo per molte settimane.

Filmografia iniziale e necessaria Hulk, Minority Report, Tron (uh Ken Perlin e quel rumore che sintetizza immagini…), Tron 2.0.

Colonna sonora Radiohead e John Cage.

W5+ (o dalla settimana 5, ovvero l’inizio della fine)

In parallelo il lavoro sul progetto finale inizia qui e prosegue per più di metà del laboratorio, ogni studente con le proprie inclinazioni e ispirazioni è responsabile di progettare una risposta al brief sull’invisibile. Possibilmente senza far saltare in aria la vecchia repubblica o scoperchiare troppi vasi di Pandora nel mentre. Obiettivo l’esame e in alcuni casi la proposta di tesi.

Dopo settimane di mondo digitale si inquadra il progetto tornando qualche giorno a grandi e disordinati appunti visivi scritti a mano, pennarelli e grandi fogli al muro per rompere il ghiaccio, un processo collettivo da affrontare con coraggio, apertura e partecipazione per lavorare su idee e relazioni. Parafrasando un libro della mia formazione questa fase si potrebbe chiamare “Lo zen e l’arte della manutenzione delle idee”, sottotitolo “Tempeste di cervelli nell’epoca dell’iperconnessione”, che poi non si capisce perché non si possa dire “Belle giornate terse di cervelli bla bla”…

Le presentazioni degli avanzamenti, — dalle idee alla ricerca dati, dalla documentazione agli algoritmi e le logiche di trasformazione, dai primi prototipi al progetto completo con un occhio di riguardo ai progetti tangibili e inclusivi — settimana dopo settimana pensate per metterli in difficoltà, a raccontare e difendere lavori altrui e attaccare il proprio, seguendo Marcel Duchamp:

I always put myself in self-contradiction, just to avoid following my own taste.⁴

Cercare la contraddizione come scintilla necessaria al progettare, per cercare di capire se in profondità si può incidere con più efficacia sul senso del mondo. Se si può spingere l’asticella più in là dell’avere una buona idea e dell’usare gli strumenti giusti.

Bene imparare per tempo a mettersi in discussione.

Marcel Duchamp, da un appunto sul libro di Bruno Munari… XXX citazione da sistemare

つづくContinua…

Sto rivedendo il capitolo II sull’approccio metodologico e scrivendo il capitolo III sugli studenti ed i loro progetti… ETA inizio 2019, a presto.

Titoli di coda

Parole Tossiche, proof of concept, di MCSotgiu, DSII 2016
Open Phyto, proof of concept, di Caterina, DSII 2016
Are we human enough?, proof of concept, di Davide Onestini, DSII 2017

Queste mie storie su Medium (i testi e le immagini inedite) hanno alcuni diritti riservati, occhio alla licenza. Sono inoltre bozze di lavoro, come tali potrebbero cambiarvi sotto gli occhi. Grazie della lettura, spero abbiate trovato cose interessanti, commenti sono benvenuti.

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