Il buco (2019) di Galder Gaztelu-Urrutia | by Alessandro Pin | Destinazione Cosmo | Medium

Il buco (2019) di Galder Gaztelu-Urrutia

UN VIAGGIO NELL’ABISSO SOCIALE ASSURTO A MONITO CONTRO IL CAPITALISMO ESTREMO

Alessandro Pin
Destinazione Cosmo

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In una distopica società di cui poco — quasi nulla — è disvelato, uno pseudo-governo, chiamato l’Amministrazione, ha edificato una struttura, nota come la Fossa, per effettuare una sorta di esperimento sociale. Il protagonista Goreng (Iván Massagué), un idealista di accademico lignaggio, affronta sei mesi come detenuto — volontario — nell’imponente struttura carceraria: celle di cemento per due persone sono impilate a formare una torre, con un ampio buco centrale sul soffitto e nel pavimento di ogni cella per consentire il passaggio di una lastra di pietra molto particolare. Partendo dal livello zero, posto in cima alla torre, ogni giorno la piattaforma offre un succulento banchetto per i più fortunati, siti ai livelli superiori; tuttavia, via via che procede la sua discesa, la tavola imbandita di ogni genere di leccornie, preparate da abili chef sulla base dei gusti personali di ogni “detenuto”, con un controllo qualità sull’impiattamento sorprendentemente severo — al limite del grottesco, vista la situazione —, è saccheggiata dagli ingerenti soprastanti che, ingozzandosi come animali e lasciando solo i resti “conditi” di secrezioni salivari, urine ed escrementi, si fanno beffe dei sottostanti. Quando il banchetto raggiunge i livelli abissali, nulla resta da mangiare, presentando soltanto vuoti vassoi: ciò, spinge gli affamati denutriti alla pazzia e alla violenza, fino al cannibalismo.

“Ci sono tre classi di persone: quelli di sopra, quelli di sotto e quelli che cadono.”

L’organizzazione dietro alla Fossa — le cui motivazioni sono oscure, se non che chi partecipa al test, volontario o imprigionato per reati commessi (una sorta di centro riabilitativo), alla fine ha diritto a un attestato di permanenza che si suppone possa offrire vantaggi nella società — insiste sul fatto che il cibo fornito sia sufficiente per nutrire adeguatamente tutti i detenuti. Il problema alla base di questa gestione nella somministrazione del cibo è che, per funzionare, dovrebbe dipendere dalla cura, la moderazione e la generosità dei prigionieri soprastanti verso chi alberga i livelli sottostanti. Un sistema fallace che, ovviamente, non è attuabile: il potere è spartito in modo verticale, come la più classica delle piramidi sociali, ma di forma parallelepipeda; ove, chi è sito in alto, semplicemente, fagocita.

Goreng sembra reagire diversamente alla situazione. Dove altri hanno portato dal mondo esterno cose di uso comune come “oggetto da compagnia” — nella Fossa è consentito possedere un solo “simulacro” personale —, Goreng ha scelto un libro: Don Chisciotte (in cui perfettamente si rispecchia). Egli non è lì per punizione di un reato commesso, ma per avere in cambio il famoso attestato. Dalle sue interazioni con Trimagasi (un diabolicamente esasperante Zorion Eguileor), pedante ed egoista compagno di cella, e successivamente con l’utopista Imoguiri (Antonia San Juan), si arriva a considerare il protagonista come un agente del cambiamento non spontaneo — l’essere umano non è disposto alla sovversione dell’ordine imposto se non costretto da forze superiori —; Goreng ricorre, infatti, alla forza bruta per rompere il ferale giogo, che lo costringe a piegarsi, senza perdere il suo ideale, e sopravvivere alle inique condizioni imposte dalla Fossa. Il messaggio secondo cui non sia possibile controllare il comportamento degli altri, se non in modi limitati e con mezzi viziosi, non è particolarmente edificante, seppur dannatamente realistico. La battaglia di Goreng sembra assurgere a quella contro i mulini a vento, ricordando lo stesso spirito indomito del povero protagonista in Brazil di Terry Gilliam.

Una volta sconfitto dal sistema, all’essere umano altro non resta che aggrapparsi alla fede, idealizzata nell’impresa di risalire a mezzo di una corda la profondissima torre — disperato tentativo di Baharat (Emilio Buale) —; tuttavia, è nell’abisso che si cela la speranza del cambiamento. La morale è che bisogna arrivare in fondo, fino ai più profondi recessi della perdizione umana, per inviare un messaggio alla superficie, così genuinamente potente come può esserlo una gustosa portata arrivata intatta sul fondale, o una giovane vita innocente che, sopravvissuta all’olocausto psico-sociale, possa riuscire a far detonare i sentimenti — la forza dell’empatia — nell’animo disumano di chi gestisce la struttura. La cura nella preparazione delle singole portate potrebbe essere, secondo un punto di vista singolare, ma interessante, indice di un rispetto verso i “commensali” che l’Amministrazione tiene a trasmettere, lasciando al consumatore l’unica colpa della rovinosa sorte del lauto banchetto, con le ovvie conseguenze sugli abissali “ospiti”; come se il sistema, in un certo senso, se ne lavasse le mani.

“La panna cotta è il messaggio.”

Durante il prosieguo della storia, ogni nuova rivelazione ha una logica cupa e implacabile — altrimenti, “ovvia” —; ovvero, regole narrative cementificate così saldamente da risultare impossibili da contraddire. È detto, fin da subito, come ogni mese i compagni di cella si sveglino su un diverso livello, apparentemente a caso, lasciando presagire che i benestanti, nel mese corrente, potrebbero diventare, nel mese successivo, i meno abbienti siti ai piani più bassi della Fossa; si viene a conoscenza di deterrenti che impediscono alle persone di accumulare cibo nelle loro celle, dopo che la piattaforma prosegue in quella successiva nella sua quotidiana corsa verticale; è detto come gli “abitanti” ai piani alti della Fossa possano essere più suscettibili, poiché, una volta ottenuto il cibo, cadono vittima dell’oziosità, contrariamente ai sottostanti che hanno nel cibo il solo pensiero che li tortura — non c’è come la fame per tenere impegnata la mente —; si scopre come Goreng e Trimagasi siano stati imprigionati per ragioni diverse che riconducono, tuttavia, allo scopo finale della Fossa; la verità, infine, è disvelata dagli stessi personaggi e dalle motivazioni che li hanno condotti alla Fossa, come la povera Imoguiri, o la misteriosa Miharu (Alexandra Masangkay), una donna che si sposta sulla piattaforma, di livello in livello, in cerca del figlio perduto. Il tutto è narrato con un senso malvagio, cinico, freddo e realista, scandito in modo magistrale da un nero umorismo. Le celle della Fossa sono desolanti e angoscianti, senza molte ovvie possibilità narrative, ma gli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero fanno emergere, di scena in scena, un nuovo aspetto dello scenario che sciocca e incuriosisce; non appena una situazione si stabilizza, infatti, passano a qualcosa di sottilmente diverso.

Al design della prigione si aggiunge un senso di limitazione. Il buco ha un set semplice, incredibilmente arido, così squallidamente illuminato che i dettagli si confondono; tuttavia, Galder Gaztelu-Urrutia trova molti modi per porre in luce il brillante cast, grazie ad arguti dialoghi, assicurandosi che l’atmosfera mai perda di mordente nel suo essere inospitale e opprimente. Nonostante la semplicità dello spazio proposto e degli effetti visivi, Il buco è visivamente sorprendente e memorabile, assomigliando a una versione più viscerale de Il cubo di Vincenzo Natali, con claustrofobiche inflessioni e la stessa sensazione che ci sia un sistema più grande a governare gli ingranaggi del misterioso meccanismo.

È possibile apprezzare — se non “amare” morbosamente — la pellicola, come una parabola dell’orrore a combustione lenta, atrocemente ben scritta, sull’essere intrappolati con persone orribili in condizioni estreme. Proprio come in Snowpiercer di Bong Joon Ho, l’allegoria arriva a livelli impensabili senza sacrificare l’azione. La petulanza soddisfatta di Trimagasi — pura e ostinata determinazione a evitare qualsiasi tipo di autoesame o cambiamento — tramuta l’esperienza di Goreng in una sorta di incubo a occhi aperti. Alla fine, la storia va in una direzione graficamente cruenta, ma la violenza fisica sembra più catartica che spaventosa, dopo aver visto Trimagasi che cerca di “infettare” Goreng con la sua compiaciuta apatia verso le altre persone; mentre, quest’ultimo cerca disperatamente di giustificare qualsiasi barlume di empatia. Goreng, quando interloquisce con gli altri “detenuti”, sembra rendersi conto di essere l’unico umano razionale in un sistema irrazionale. C’è un senso di orrore quasi lovecraftiano ne Il buco; in quanto, i personaggi sono bloccati in un luogo che non riescono a comprendere appieno, senza risposte che giungano a illuminare le loro esauste menti. Un orrore anche personale, come si evince dalla certezza egoistica di Trimagasi che, attraverso la sua totale fiducia nell’ovvio come mezzo di sopravvivenza, non si cura di chi ferisce.

Nello scenario di questa claustrofobica Fossa, il regista Galder Gaztelu-Urrutia offre un contesto pervaso di pungente ironia, tanta violenza e cruenti orrori, ammantato di una scenografia di stampo squisitamente brutalista. Ciò che la pellicola suggerisce sono il grave problema della spartizione della ricchezza e del potere, lo squilibrio dell’approvvigionamento alimentare, lo spreco, il consumismo e la disuguaglianza sociale: un avvertimento su scala globale contro il capitalismo estremo che dà benefici a pochi elitari; mentre, nega a tutti gli altri gli strumenti per sopravvivere. Un’opera idiosincratica tra le più riuscite nel panorama di genere distopico. Da vedere fino alla fine… se si è forti di stomaco.

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Alessandro Pin
Destinazione Cosmo

Sono un appassionato di fantascienza. Mi piace scrivere e condividere la mia passione, tra incredibili viaggi e immaginifici universi.