Semplicemente Africa

Un viaggio di 12 giorni dal confine tra Zambia e Zimbawe fino alle meraviglie del Botswana

Camilla
Detour Magazine
10 min readJun 20, 2016

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Chobe National Park, Botswana.

L a descrizione più bella e più semplice della mia prima volta in Africa me la offre un veterano dei viaggi nel Continente Nero. Un uomo gentile, sui cinquant’anni, di Parma che insieme alla moglie e a un’altra coppia di amici ha visitato in jeep gran parte dell’Africa meridionale. Di fronte al Boma, il fuoco, l’area conviviale tipica di queste zone, di un campo tendato nel Makgadikgadi Pans, Stefano conclude il suo discorso dicendomi che “certi posti ti entrano proprio nell’anima e che alla fine un po’ ti cambiano davvero la vita”.

Pare scontato, eppure è così.

L’Africa per me ha sempre avuto un significato speciale. È sempre stata un sogno. Un obiettivo. “Il più bel viaggio che vorresti fare?” Da quando sono ragazzina la risposta è sempre stata una sola: Africa. Metterci piede è stata un’esperienza forte, fatta di sensazioni, profumi, suoni e colori.

Non l’ho capita l’Africa, ma l’ho sentita fino in fondo.

L’ho percepita nei suoi spazi senza fine e nei suoi tramonti struggenti. Nei sorrisi dei giovani adulti e nella luce che illumina a mezzogiorno la savana. Negli occhi ammalianti e seducenti di un leopardo nascosto nel bush e nel lento procedere di un elefante che torna verso casa.

Leopardo, Makgadikgadi Pans, Botswana.
Elefante, Chobe National Park, Botswana.

Finché stai dentro all’aeroporto di Johannesburg non ti rendi conto di essere atterrato nel Continente di Mandela e Lumumba. In quell’enorme pezzo di cartina geografica che racchiude Stati economicamente avanzati come la Namibia e Stati dilaniati da guerre civili decennali come il Congo.

Solo quando esci dall’hangar di Victoria Falls percepisci di essere sulla terra scoperta per la prima volta da un europeo nel 1855. Sarà l’aria, sarà il cielo o semplicemente il fatto che per una volta il mio colore della pelle è in netta minoranza.

L’esploratore cui si deve la colonizzazione di questa zona al confine tra Zimbabwe e Zambia è il famoso Sir David Livingstone: è grazie a lui se il fumo che rimbomba, nome indigeno di una delle sette meraviglie naturali del mondo, è stato ribattezzato Cascate Vittoria.

L’aeroporto di Victoria Falls non ha metal dector nè area ritiro bagagli nè rulli su cui scorrono le valigie. Dobbiamo pagare il visto per entrare in Zimbabwe ma gli addetti allo sportello non hanno il resto né accettano valute diverse da quella nazionale o dal dollaro statunitense.

Le persone, lungo la strada che conduce dall’hangar alla cittadina di Victoria Falls, camminano a piedi. Le auto sono rare e sono in mano ai fortunati africani che lavorano nel settore turistico. Si aspetta seduti su sedie di plastica che un autobus passi o un amico ti faccia salire sul proprio veicolo.

Si ha l’impressione che semplicemente si stia aspettando che qualcosa accada.

Victoria Falls, Zimbabwe.

Un milione di litri di acqua al secondo che si gettano da 108 metri di altezza per una lunghezza di 1,7 km. Un fiume, lo Zambesi, che offre a ogni tipo di visitatore, dal turista impreparato al campeggiatore professionista, uno scenario maestoso, un microclima tropicale e una vegetazione così rigogliosa e umida da risultare quasi soffocante.

Un bacino, la Devil’s Pool, affacciato sullo strapiombo delle cascate e casa naturale di ippopotami e coccodrilli.

Il confine tra Zambia e Zimbabwe è l’esperienza della forza della natura in versione passeggiata nel parco nazionale delle Victoria Falls o in versione mini crociera sul corso dello Zambesi. Senza dimenticare un tour in jeep alla ricerca dei rinoceronti nello Zambesi National Park.

Victoria Falls National Park e Zambesi National Park, Zimbabwe.
Un dipendente del Chobe National Park, Botswana.

Se arrivi dallo Zimbabwe, il Botswana, l’antico Bechuanaland diventato indipendente dalla Gran Bretagna il 30 settembre del 1966, ti accoglie con una delle sue più famose meraviglie.

E’ il Chobe National Park, la terra degli elefanti divisi in grandi branchi, di 440 specie di uccelli e del grande fiume che rende possibile la vita per leoni, ippopotami e antilopi. Esteso per 11.000 kmq, è il primo parco nazionale del Paese istituito nel 1968 e una delle principali attrazioni turistiche di tutta l’Africa australe.

Qui ho la fortuna di vedere per la prima volta i leoni. Sinuosi, affascinanti, spaventati dall’uomo sono di una bellezza incantevole.

Branchi di antilopi, zebre, bufali e gnu rendono il Chobe Riverfront l’area del Botswana con la più alta densità animale. Qui le mandrie di elefanti sono enormi, possono attraversarti la strada o passarti a un metro dalla jeep.

Sono impotenti e silenziosi, non ti accorgi di averli alle spalle. Racchiudono lo scorrere del tempo, il lento fluire dello spazio e della storia del nostro pianeta mentre procedono in fila indiana verso il fiume o verso l’interno del bush.

Mentre sono in fila per andare in una toelette pubblica nel Chobe National Park, inizio a capire che a segnarmi in questo viaggio non saranno gli animali, motivo per cui ho sempre desiderato venire in Africa — e comunque vedere tutti e cinque i Big Five, pure il magnifico leopardo, la prima volta che metti piede sul suolo africano significa essere “very lucky”. Neppure gli spazi senza fine, il senso di libertà o i colori mi ruberanno l’anima. Saranno le persone.

I giovani soprattutto che con i loro gesti, i loro sorrisi e i loro sguardi si porteranno via piccoli pezzi di me.

Ad esempio la ragazza, decisamente molto più bella di me, che mentre siamo in coda per andare al bagno mi chiede una foto. Io e lei. Per testimoniare di aver conosciuto una sua coetanea bianca. Europea. Certamente ricca ai suoi occhi mentre io dinnanzi ai suoi mi sento solo molto inferiore.

Chobe National Park, Botswana.
Chobe National Park, Botswana.
Chobe National Park, Botswana.
Ghiandaia marina pettolilla. E’ considerata l’uccello simbolo del Botswana.

È un luogo solenne. Un posto primitivo. Uno dei pochi habitat rimasti sulla terra incontaminati dalla presenza dell’uomo. Il Delta dell’Okavango non è solo patrimonio dell’Umanità e paesaggio esclusivo dell’Africa meridionale. È senso dell’esistenza.

È raccoglimento e infinito.

Volare da Kasane e Maun su un piccolo aereo a quattro posti, di cui uno pilota e l’altro copilota, è una di quelle esperienze che ti aprono letteralmente la mente e il cuore. E’ un dedalo di canali, di pozze, di antichi tracciati percorsi dagli elefanti. E’ una distesa di acqua e verde che pare non avere fine, un luogo in cui il fiume si riversa nella terra senza sboccare nell’Oceano.

È decisamente uno dei posti più affascinanti del pianeta. Percorribile solo a piedi o con il mokoro, l’imbarcazione in legno tipica dei Batswana che pare sfili a pelo dell’acqua come una delicata foglia caduta da un albero.

Il tramonto qui è la luce che esplode a diverse intensità.

È il silenzio ricco di suoni. E’ il profumo della natura che ti ricorda che in questo ambiente l’uomo è nato, è cresciuto e forse deve ritornare.

Okavango Delta, Botswana.

Nel Delta dell’Okavango ho lasciato un parte di me. Una possibilità, un progetto di vita. E’ un luogo che non posso non definire magico. Dove altro fai un safari nel bush a piedi? Accompagnato solo da una guida, Bale, nato e cresciuto in questa regione del Botswana, che ti scorta solo con la sua ancestrale conoscenza di un territorio caro ai suoi avi da centinaia di anni? E senza alcun’arma di offesa nei confronti degli animali? Quando ti capita di stare accucciato a pochi metri da un leone maschio che ti ruggisce contro?

Tre ore di trekking non stop nel bush alla velocità di cinque km orari non sono una passeggiata. Sono un banco di prova per capire se ami davvero l’Africa. Non quella dei lodge da cartolina o quella turistica del Kenya, ma quella immersiva e contemplativa che puoi respirare solo se ti liberi dalle aspettative e lasci che sia quello che deve essere.

È così che i miei occhi si sono riempiti di lacrime di malinconia quando il piccolo Cessna è decollato dalla pista di sabbia dell’Oddballs Camp e io ho detto addio a un gruppo di ragazzi che con spontaneità ed entusiasmo ci hanno portato alla scoperta dell’anima dell’Africa meridionale.

Indimenticabile è un termine spesso abusato, ma è l’unico che abbia senso se chiudo gli occhi e cerco di immaginare di essere di nuovo nell’Okavango Delta.

Tribù San, Makgadikgadi Pans, Botswana.

Cabelo, ebano dai tratti occidentali, segue i campionati di calcio europei, si rammarica che in Botswana il football non sia così diffuso come vorrebbe, conosce Udinese e Fiorentina, ma tifa Barcelona e Arsenal. E’ lui l’ultima guida a farmi innamorare di questo Paese dalle tante sfaccettature diverse.

La tappa finale di questi 12 giorni in terra africana è un posto inaspettato, poco conosciuto dai turisti, tornato alla fioritura dopo che per 50 anni il fiume che lo attraversava, il Boteti, aveva smesso di portare acqua e quindi vita alla flora e alla fauna locali.

Ora, nel Makgadikgadi Pans, si trova la seconda più grande mandria di zebre dopo quella presente tra Kenya e Tanzania. E’ una sorta di miracolo della natura che va gustato con calma e attenzione.

Non ci si trova immersi nel paesaggio lussureggiante del Delta o nella rigogliosa savana del Chobe. I Pans, le saline desertiche, sono uno spazio mistico, segnato dall’abbandono dell’acqua, arido, eppure così ricco di sorprese.

È nel parco nazionale del Makgadikgadi che dopo un’ora di attesa avvistiamo tra gli arbusti spinosi quella meraviglia del mondo animale che è il leopardo.

I suoi occhi verdi ci guardano magnetici. Ci incantano e ci conquistano. Come il silenzio che avvolge le rive del Boteti mentre un elefante solitario lo attraversa. O come il tramonto che si annuncia all’orizzonte mentre un gruppo di zebre si abbevera al fiume al di sotto della nostra tenda.

Makgadikgadi Pans, Botswana.

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Camilla
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Freelance journalist contributor for @LaStampa and @Moto_it. Books and travelling addicted. In my heart, just Australia, Canada and Africa.