GIORNO 40 — GI

Giulia Pozzobon
Diari da una zona rossa
4 min readApr 17, 2020

… lo scopo dell’informazione è aumentare la conoscenza dei cittadini, non sostentare modelli economici esistenti. I giornali sono stati un presidio democratico per molti anni e in parte lo sono anche oggi, ma non è detto che questo accadrà per sempre. Magari suonerà minaccioso ma è così. Ci serve allora una politica meno succube all’interesse delle varie lobbies e più concentrata sugli interessi dei cittadini, mentre oggi il livello di asservimento del potere politico alle “esigenze” delle aziende ha raggiunto livelli davvero imbarazzanti.

È la chiusura di un articolo di Mantellini dal blog de il Post. Si intitola “Serve un colpevole” e inizia registrando la sospensione di Telegram, richiesta dal presidente della Federazione Italiana Editori Giornali ad Agcom per “diffusione illecita di testate giornalistiche sulla piattaforma che, durante la pandemia, ha raggiunto livelli intollerabili per uno Stato di diritto”.

Io Telegram non ce l’ho e non ho nemmeno sentimenti particolarmente positivi nei confronti dei social network per i danni antropologici che hanno determinato negli ultimi anni. Li utilizzo molto però, mi riguardano e anche il mio lavoro è in qualche modo figlio dello stesso padre dei social network, il digitale, il grande mega-super-blob che ha dato il pane alla stragrande maggioranza di quelli che volevano occuparsi di comunicazione.

Io volevo fare la giornalista. E l’ho anche fatto, pur se per poco e per una piccola testata locale. Volevo fare la giornalista che fa le inchieste e i documentari. Lo volevo come si vogliono delle cose quando si conoscono alcune parti di sé. Fondamentali, ma non tutte. Quelle sentite da bambini, quelle viste nei film, quelle riflesse negli occhi degli adulti che ti guardano. Qui il ragionamento potrebbe iniziare a scalare vette esistenziali, potremmo discutere di qual è il momento vero in cui ci si (ri)conosce e si capisce quello che si vuole, se tutti ci si conosce allo stesso modo, se esiste veramente per tutti la vocazione o non è una storia perfetta ma frutto di un’ approssimazione. Ma non è questo il luogo, per quanto la cosa mi appassioni.

Il caso Spotlight, per fare un esempio

Dicevo, volevo fare la giornalista ma quando ho iniziato a farlo ho scoperto che era veramente difficile quella gavetta. Soprattutto perché mi pagavano 6 euro a pezzo, non volevano farmi fare l’apprendistato, io non ero tanto contenta di scrivere cose che non mi interessavano. Sempre stata un po’ caga cazzi purtroppo, lo dico senza nessuna compiacenza. Insomma, negli anni a seguire dall’abbandono di quella strada, mille volte mi sono detta che non ci ero riuscita perché non avevo tenuto duro e non mi ero impegnata abbastanza. Poi è intervenuto un esame di realtà che mi ha fatto riconoscere tutta una serie di attitudini involontarie, di passioni di altro tipo, pure di alcune incapacità e di alcune condizioni ambientali: allora ho capito che ci sono più ragioni di quelle che si vedono al primo sguardo nel fare e nel non fare una cosa. Un documentario piccolo l’ho fatto, le inchieste pure e mi sa che ci tornerò su prima o poi.

Intanto, il giornalismo non ha smesso di essere un mondo che guardo con molto rispetto. Ma in molti casi è un’idea quella che rispetto, non una realtà. Io non penso che Le Grandi Testate Italiane siano più delle istituzioni, non penso che abbiano particolarmente a cuore la Verità, penso che, in Italia, la situazione sia imbarazzante per l’implicazione economico-politica che non ci siamo mai scrollati di dosso.
Men che meno penso che i social network possano tout court essere il luogo dell’informazione. Ma sono d’accordo con Mantellini che, attribuire la colpa degli insuccessi dell’informazione e della disinformazione ai social media, sia una cantonata. Perché c’è un problema di qualità e di urgenze mai prese sul serio. Urgenze etiche e professionali, urgenze di cambiare certi modelli e di rischiare. La mia analisi rimane circoscritta e mi mancano sicuramente molti pezzi ma l’idea che il capo di una federazione editori chieda la chiusura di un sistema di messaggistica con accusa di contro-informazione a me qualche brivido lo fa venire.

È chiudendo un canale che si protegge l’informazione? È per le “censure” che facebook si auto-impone che lo riteniamo buono? Quanto contribuiscono facebook e instagram ad abbassare il livello di lucidità delle persone pur sembrando innocui?

Io non ho risposte, oscillo a fasi alterne sfinenti su questa faccenda: a volte vorrei la chiusura d’imperio, modello cinese, di tutta questa iper-connessione che ci affatica le menti e ci rende consumatori soldato, a volte esco da facebook ma poi ci rientro, Instagram ce l’ho solo come spettatrice. Eppure, anche da queste posizioni critiche, non credo che la risposta sia la barricata dei giornalisti che difendono se stessi. La barricata dei giornalisti dovrebbe essere per fare meglio, per insegnare la libertà a chi legge.

Oggi ho parlato di libertà personale con un ragazzo di 18 anni: mi ha raccontato che gli individui secondo lui non sono affatto liberi, che le società, tutte le società, determinano regole su regole e se ne infischiano dell’espressione libera delle persone. Mi ha detto che si sente oppresso e stanco. Ecco io penso che il giornalismo, con inquietudini come queste, dovrebbe avere a che fare. Dovrebbe occuparsene.

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