Piano americano

Sara Gavioli
Diario di una editor come tante
4 min readSep 22, 2017

Il romanzo che Paolacci non scriverà

“Piano americano”, in uscita a ottobre per Morellini editore

Piano americano” è il titolo del romanzo che Antonio Paolacci avrebbe dovuto scrivere. Autore deluso dal mondo editoriale, sta per diventare padre e ciò lo spinge a riflettere. Le bozze della sua prima opera, che sta per essere ripubblicata, giacciono abbandonate sulla scrivania. Lui di rileggerle non se la sente più.

In questa domenica di metà maggio del 2015, tiro un’altra boccata dalla mia sigaretta e decido semplicemente che devo smettere di scrivere. Per sempre. E per davvero.

Ho ricevuto questo libro dalla casa editrice Morellini, che me lo ha inviato per ricevere un mio parere. In un primo momento ero perplessa: io non sono famosa, non mi ritengo una influencer, e temevo di sentirmi poi in dovere di scriverne una recensione positiva. Aprirlo, però, e iniziarne la lettura, mi ha subito fatta sentire più tranquilla. Mi piace davvero. Non so se l’ufficio stampa lo abbia effettivamente scelto per me, immaginando che potesse piacermi, ma ha centrato in pieno quel che cerco in un testo.

Di cosa parliamo, dunque? Parliamo di scrittura, prima di tutto. Paolacci racconta di se stesso (o meglio, è il “personaggio Paolacci” a farlo): in passato, riteneva che il mestiere di scrittore avesse un valore e che meritasse una giusta retribuzione. Le esperienze fatte in questo mondo, però, lo hanno spinto a porsi delle domande. Ci sono aneddoti davvero interessanti, che non posso evitare di riconoscere come familiari. Lo saranno, credo, per chiunque lavori nel settore, e potranno essere istruttivi per chi ne sa poco.

Quei “pennarelli arancioni”, ovvero i professionisti del mondo editoriale, sono chi decide tutto. Conoscono bene i gusti dei lettori, quindi le loro mosse non sono casuali o ingenue: c’è dietro un piano specifico, finalizzato prima di ogni cosa a far cassa. E come biasimarli, in fondo? Il loro lavoro è quello e i lettori vogliono sul serio uno scrittore di bell’aspetto, che spenda più in vestiti e non perda troppo tempo ad approfondire il suo percorso formativo.

Il romanzo mai scritto diviene una sorta di simbolo: rappresenta ciò a cui Paolacci ha rinunciato, per accettare con tristezza il mondo, così com’è. A nessuno interesserebbe la sua ricerca di senso, il suo stile cambiato, il lavoro che intendeva portare avanti con interesse. Lui non sarebbe in grado di pettinarsi bene ogni giorno e di venire perfettamente in ogni fotografia, quindi non può ritenersi uno scrittore.

Se fosse andata bene, avrei espresso me stesso con inventiva sfrenata, fregandomene dei vincoli imposti dall’editoria contemporanea, dalle leggi di mercato, dagli ottusi sostenitori della ripetizione. Avrei dimostrato per l’ennesima volta che le opere più apprezzabili sono quelle nuove, originali e magari innovative.

La sfumatura interessante in questo, secondo me, sta nel tono quasi ironico con cui l’autore ci racconta cosa voleva creare. Viene voglia, al lettore, di leggerlo, infine, quel romanzo mai esistito. Viene spontaneo pensare che sia proprio un peccato, se Paolacci ha scelto di non scrivere più, ma nel frattempo è proprio un suo libro che si sta leggendo. Questa contraddizione dimostra una certa arguzia e mi piace parecchio.

Ho gradito poi il tono “tranquillo” con cui Paolacci racconta delle risposte ricevute da editori e agenzie, senza mai una critica o un insulto, ma limitandosi a esporre i fatti. Riesce a strappare un sorriso genuino pur senza esporsi a facili critiche in risposta. Un’ottima tecnica per parlare di qualcosa, in sé complesso, senza esagerare. Credo che anche il più convinto degli editori, leggendo, riderebbe un po’ pensando che conosce dinamiche simili, e non si offenderebbe (se non è troppo, inutilmente permaloso).

Il punto è diventare famosi, scrittori molto venduti, scrittori che vanno in tivù. Il punto è il conflitto tra Fallimento e Successo.

Arrivata a circa metà della lettura, ho iniziato a notare che si parla tanto, forse troppo, di come Piano americano avrebbe potuto essere. La domanda rimane: dovrei descrivere questa tendenza come un difetto del libro, oppure è giusto così? Se si scrive un libro parlando di un libro, è sbagliato che se ne parli, nel libro? La risposta, cari lettori, dovreste darla voi. I numerosi riferimenti al cinema e alla letteratura, comunque, rendono le digressioni sempre interessanti. Forse ogni tanto ho avuto la sensazione che il narratore si stesse perdendo, parlando un po’ troppo di passioni personali, ma non mi sono annoiata nel seguirle.

Di certo, vi invito a leggere “Piano americano” (qui la pagina dell’editore), in uscita a ottobre, e a crearvi, da soli, con la vostra testa, un’opinione al riguardo. Secondo me, ne vale la pena.

Sara Gavioli vive a contatto con le storie: ne legge, ne scrive e ne sceglie per diverse realtà editoriali. Lavora come editor freelance e nel tempo libero colleziona corsi di editoria. Da grande vuole diventare una vecchietta eccentrica.
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