La salute di uno Stato — a che punto siamo?

Daniele Amatulli
Diario di uno storico in erba
4 min readSep 28, 2017

Lo stato di salute di una democrazia è direttamente proporzionale ai diritti e alla condizione di vita delle donne.

È una verità che, volente o nolente, bisogna dare per scontata, per acquisita.

Per riuscire a comprenderlo basta guardarsi attorno: in Tunisia solo di recente è stato abrogato la legge riguardante la violenza sulle donne ed eliminato il divieto al matrimonio tra donne musulmane e uomini di altro credo; in Arabia Saudita è finalmente possibile anche per le donne guidare. Piccoli passi, da realtà che anche per questi aspetti ci appaiono come mondi lontani.

“La legge integrale tunisina contro la violenza sulle donne e la parità è il risultato di un lungo cammino. Mancava solo la modifica ad un odioso articolo del codice penale ostacolata in Parlamento. Il 227bis del C.P. tunisino permetteva ad uno stupratore di poter “riparare” la violenza fatta ad una minore di 15 anni attraverso il matrimonio”.

Eppure la nostra società, il nostro Paese, nel passato non fu certo come lo conosciamo noi ora. Con le unghie e con i denti, demolendo pezzo dopo pezzo i muri delle disuguaglianze, le donne hanno acquisito pari diritti.
Ci sono muri che difficilmente possono essere abbattuti, o anche solo scavalcati. Nonostante il progresso, nonostante le lotte di civiltà, nonostante quel mondo così distante, i muri più invalicabili sono nella nostra mente, nella nostra cultura.

Rimando a questo punto ad un altro tema, strettamente legato agli ultimi fatti di cronaca: la sequela inaudita di denunce di stupri. Non si parla di un fenomeno che conosciamo solo ora, ma che ora torna in auge grazie alla forza di quelle donne — anagraficamente molto giovani — che finalmente hanno il coraggio di denunciare. Questo scaturisce da una presa di coscienza netta delle responsabilità e delle colpe dello stupratore. Quello scoglio della vergogna viene superato, e ciò non può che avvenire con un cambiamento radicale della mentalità delle donne, soprattutto, almeno in questo caso, di quelle più giovani.

“Qui tutti vogliono fare tutto — aggiunge — io non sono un maschilista, ma il corpo della donna è oggetto e fonte di desiderio da parte dell’uomo. È un istinto, sarà primordiale, sarà ancestrale, quello che volete. Molte volte servirebbe un minimo di cautela. Le donne lo devono pensare che c’è gente in giro che può fargli del male. Le donne hanno un appeal che è diverso dagli uomini, potrei parlare degli ormoni, dell’ aggressività. Certe volte un tipo di abbigliamento, un tipo di contesto, fa pensare a dei soggetti che siano una manifestazione di disponibilità da parte della donna. Serve un poco di buonsenso, un poco di cautela, alle donne non farebbe male.”

La visione da combattere è quella del Senatore della Repubblica Vincenzo D’Anna — e da recriminare, mi permetto di dire, dato che sdogana nel suo ruolo istituzionale una visione distorta della realtà — , che in una intervista invitava alla prudenza e a non vestirsi da “prede sessuali”, facendo riferimento ad un istinto primordiale che vede l’uomo — seguendo, appunto, la loro natura — come cacciatore, le donne come prede.

Al confronto mettiamo due generazioni, due mentalità totalmente differenti. Quella di D’Anna, è tesa quasi a sottrarre il reo dalla colpa; vede in ottica paternalistica la figura femminile. Preferisce coprire la donna — salvo poi attaccare le donne col velo, inneggiano alla libertà delle stesse -, piuttosto che colpire duramente il reo. Anzi, fa riferimento agli istinti primordiali. Faccio la sponda al Senatore della Repubblica: chi per strada vede una donna ed è spinto dall’istinto di stuprarla, caro mio, quella non è natura, quello non è un uomo: è una bestia.

Una rivoluzione. Culturale, ovviamente. Dove si stabilisce in maniera incontrovertibile l’inviolabilità, l’indipendenza e i diritti delle donne. Una rivoluzione che deve partire dalle scuole; prima ancora dai nuclei primi della crescita: le famiglie. Un movimento che parta dal basso e coinvolga le alte sfere istituzionali, ancora ancorate a stereotipi e immagini ormai anacronistiche. Ad essere ripensata è l’immagine della donna; di riflesso l’immagine della società.

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