di case e di draghi

House of the Dragon non è Game of Thrones, è un bel racconto che ci parla di relazioni e ha bisogno di pazienza

Alessandro Giura
e adesso, Giura
7 min readNov 2, 2022

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Disclaimer: Attento lettore, questo articolo contiene SPOILER sulla prima stagione di House of the Dragon.

Quando è finito “Game of Thrones”, con quel finale scritto così sciattamente rispetto all’immaginario del mondo di creato da Martin e le prime iconiche stagioni, la pancia dei suoi spettatori era piena come dopo il pranzo di Natale. Non c’era nessun interesse nel pensare alle sorti di Westeros. Non poteva che essere un prequel a proseguire il filone televisivo di questo mondo tanto fantastico quanto crudele, in grado di infognare davanti agli schermi anche gli spettatori più scettici nei confronti del fantasy. Ma già solo riascoltare la stessa musica nella nuova sigla di apertura lunga un minuto e mezzo ti fa tornare l’appetito.

A parte la sigla House of The Dragon non è Game of Thrones. È rimasta l’estetica, i draghi, il sangue, il sesso e quello scomodissimo trono fatto di spade. E conquistarlo resta il grande obiettivo dei personaggi coinvolti, tra chi ci si vorrebbe davvero sedere o starci il più vicino possibile.

Gli intrighi tra alleati e parenti restano il grande tema che ci tiene incollati davanti allo schermo e ogni episodio termina con un cliffhanger che invita alla visione di quello successivo. Il racconto è lungo. Re Viserys, interpretato da Paddy Considine, è un re buono, allergico agli intrighi che si svolgono alle sue spalle, vuole fare il politico esemplare, ed è disposto a tutto pur di preservare la pace nel regno e togliere discordie in famiglia. Non ha un erede maschio, e così deve decidere tra suo fratello Daemon, interpretato dal magnetico Matt Smith, e sua figlia Rhaenyra, interpretata prima dalla giovanissima Milly Alcock e poi da Emma D’Arcy. Viserys non ha figli maschi e nomina Rhaenyra sua erede, e il suo essere donna rende la sua pretesa al trono debole. Lo stesso Daemon si sente il legittimo erede. Sono loro i Targaryen, i protagonisti di questo teatrino ricco di matrimoni combinati, alleati da non scontentare e guerre da contenere. Le uniche altre casate importanti sono tutte nuove per gli amanti della serie Tv: ci sono gli Hightower e i Velaryon a regger la candela finché il gioco vale. Stark, Lannister e Baratheon fanno le loro comparsate, ma sembrano realtà di regno piccolissime e irrilevanti rispetto a queste due. Il gioco di mettere il proprio nome nell’albero genealogico reale è la cosa più importante e crea una numerosa famiglia dove non si capisce più da che parte stare.

La legge che ha contraddistinto i romanzi di Martin non è cambiata: i buoni, onesti e ingenui sono carne da macello. O diventi uno stronzo o non puoi sopravvivere. Le morti sono tante, molti personaggi interessanti hanno avuto vita molto breve. La scrittura dei personaggi e di come vivono questa battaglia di complotti e desiderio non è più così affascinante. “Downtown Abbey” con licenza di far scorrere il sangue e fare sesso. Il tutto con il problema di far convergere una trama lunga un ventennio in sole 10 ore.

Gli sbalzi temporali sono stati un problema importante ai fini della scorrevolezza del racconto. Lasciano spesso straniti, con gli interpreti di alcuni personaggi che cambiano in corso d’opera, anche se il cast è molto forte. Rhenyra nel primo episodio è una principessa bambina rimasta orfana di madre che trasuda tridimensionalità e nell’episodio finale è madre di 5 bambini con una personalità esausta. Come se non bastasse nella giostra di nuovi personaggi aggiunti ad ogni episodio c’è un problema di nomi, tutti molto simili: Laenor, Larys, Laena, poi Aegon, Aemond e un altro Aegon, e Rhaenys, Rhaena, Laena e Baela, e infine Erryk e Arryk. Estenuante tenere davvero una traccia lineare di tutti i volti e associarli davvero ad un nome di battesimo, costringendo a limitarci a dire “il figlio di” “il fratello di” “la moglie di”. Va detto che l’omonimia che tanto piace ai Targaryen innesca la mossa che da il via al colpo di stato più insulso di sempre. Era molto difficile creare un prodotto con questi sbalzi temporali e molti personaggi che ci hanno lasciato in fretta. Baela Velaryon prometteva di essere un personaggio molto interessante, ma non l’abbiamo praticamente vista. Il prodotto comunque regge, magari forza un po’, ma il meccanismo del cliffhanger proposto in ogni finale di episodio invoglia la continuazione della serie e la migliora.

Le ambientazioni non sono più suggestive. Non c’è più la barriera, la durezza delle vicende del nord, il calore di quelle a Essos. I Sette regni sembrano essere minuscoli, non un intero continente. Tutto si svolge ad Approdo del Re e Roccia del Drago, riproponendo lo stesso set ma in chiave diversa. La capitale sembra una reggia dove il re è irragiungibile, non lo sfarzo ubriacante con i Lannister al comando. Driftmark e Roccia del drago invece sono cupe, vere e proprie caverne abbellite. Per il resto c’è un po’ di mare, le fosse dei draghi, un po’ di bosco nel quarto episodio. Il popolo dei sette regni sembra esistere solo nella capitale, schiavo di povertà e volgarità. Questa è un po’ una piccola pecca.

Gli unici reali scontri medievali riguardano proprio Daemon, cavaliere inarrestabile e perfido contro il Mangiagranchi, un villain affascinante che avrebbe meritato più spazio. E i draghi, forse i più belli apparsi su uno schermo, ognuno riconoscibile dall’altro in particolare l’enorme Vaeghar che nel finale mostra la vera natura di queste bestie. Vengono trattate come armi nucleari da innescare, giocattoli su cui l’uomo ha in realtà ben poco controllo e usarli ha un prezzo enorme. Il tema della guerra incombente è clamorosamente attuale, con gli sforzi di pace per il bene del regno messi alla prova da chi vorrebbe entrare nella linea di comando. L’epica però è altrove.

Tutto sembra contenuto dalla presenza incessante della bontà di Viserys. Anche Daemon, personaggio shakespiriano, sembra essere una mina vagante, quello che farà saltare il banco da un momento al banco. Ogni azione viene minimizzata, facendo nascere gelosie e voglia di vendetta dove solo chi sarà più in grado di pazientare a sufficienza riuscirà ad essere preparato. Stesso discorso per l’onore di Corlys Velarion e l’abilità politica di Otto Hightower. Regna la prudenza, con la bontà cieca di Viserys a fare da tappo a qualsiasi insubordinazione, che restano nella maggior parte dei casi impunite. Francamente non ho capito come l’emblematico e carico di odio Criston Cole riesca a restare impunito dopo un’omicidio in piena vista ad un matrimonio, ma tutte queste cose caricano fino al gran finale, dove vediamo una parte di famiglia non desiderosa di far partire la guerra, forse ben conscia che saranno gli altri a cascarci.

L’azione, le sfide e gli sconvolgimenti che costituiscono uno degli aspetti principali del racconto, incorniciano le relazioni tra i vari personaggi. Queste sono come dovrebbero essere, complicate, vittime di unioni forzate tra caratteri diversi o opposti, che portano a infelicità, odio o perfidia. Sono le sfumature dei personaggi a fare da padrone nelle trame di corte. House of the Dragon scava nelle relazioni umane, tra chi è fedele e passionale come Rhaenys Targaryen e Corlys Velaryon e chi invece fa buon viso a cattivo gioco per mostrare tutto il proprio animo aggressivo. Il carattere può essere trasformato nel corso degli episodi, alcuni personaggi hanno una parabola che dal valoroso diventa ingrata e approffittatrice. Sono inaspettati sempre, facendo capolino tra situazioni stagnanti e sconvolgendole. Tutti conflitti infantili, con proprio i bambini futuri eredi di qualsiasi titolo la conquista del trono possa dare loro ad essere i più attivi, non comprendendo la posta in palio appieno, a fare da tassello del domino nella trama. L’esempio più calzante è quello di Aemond Targaryen, che si trasforma da reietto a villain cartoonesco con tanto di benda a coprire lo zaffiro incastonato in un occhio — curioso che i cattivi più perfidi di Westeros abbiano il blu negli occhi.

Era una stagione di preparazione, tutto ruotava finché qualcuno non perdesse la brocca nell’episodio finale per scatenare l’irreparabile. L’affetto per i personaggi che ci fa tifare per la loro vita lunga è stato riproposto bene, ma “Game of Thrones” dovrebbe aver insegnato che i buoni fanno sempre una brutta fine. Stesso discorso per il disprezzo verso altri. Per dire, Alicent Hightower è una Cersei più tormentata e meno spietata ma non certo meno stronza. E suo figlio erede al trono ricade nel personaggio di Joffrey Baratheon/Lannister. Tutto già visto, non per questo meno efficace nell’aspettare con ansia il momento in cui periranno, ammesso che accada. Se prima era Nord/Targaryen contro Lannister, oggi è Neri contro Verdi. Ma no, non è “Game of Thrones”.

“House of the Dragon” con gli ultimi due episodi finali ha fatto valere l’idea che può diventare grande come il suo cugino più famoso, ma ha bisogno di pazienza. Gli intrighi e i colpi di scena non sono mancati, seppur meno eclatanti di quelli della prima stagione di Game of Thrones. La suspence, l’idea che la pugnalata alle spalle sia sempre dietro l’angolo, resta forte. Gli ultimi due episodi con colpi di stato goffi e più figli del populismo che reale senso e draghi fuori controllo fanno intuire che la seconda stagione possa partire subito con il piede giusto. Ora che la danza dei draghi è iniziata il successo di questa serie, che porta dietro un fardello enorme, può solo migliorare.

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Alessandro Giura
e adesso, Giura

Studente di scienze della comunicazione a UniTo. Editor e Copywriter. Scrivo su Palloni Gonfiati e Ultimo Uomo. Conduco il podcast Britannia.