Un brusco risveglio

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Echoes from Novlet
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9 min readJan 31, 2016

Fu svegliato di colpo dal suono dell’allarme.
In tutti gli anni trascorsi su quella nave ci aveva fatto l’abitudine. Spesso, una volta inserite le coordinate nel computer, si concedeva qualche ora di sonno, nell’attesa di arrivare a destinazione. Ogni tanto, però, qualcosa andava storto: capitava di imbattersi in gruppi di detriti non segnati sulle mappe, di passare troppo vicino al campo gravitazionale di qualche corpo celeste di recente scoperta o, peggio ancora, di imbattersi in qualche nave “mercantile” non proprio amichevole.

Essendo abituato da molto tempo a viaggiare da solo, aveva imparato a riprendersi dal torpore in tempi brevissimi: una sola esitazione avrebbe potuto avere gravi conseguenze, e non aveva nessun altro sulla nave su cui contare.
Arrivò in cabina qualche secondo dopo, completamente sveglio. Fuori dall’abitacolo, un gigante gassoso ruotava placidamente sul proprio asse, mentre un piccolo satellite brillava di luce riflessa.
Controllò la strumentazione per cercare cosa potesse aver causato l’allarme, ma non trovò nulla. Poi, alzò gli occhi, e, al centro dell’oblò, lo vide.

Un ospite improbabile

Lo vide, ma non lo riconobbe.
Per una frazione di secondo il suo cervello girò in folle, rifiutandosi di identificare un’immagine pur così familiare in un ambiente così palesemente sbagliato. Poi il buonsenso cedette all’evidenza e finalmente lo riconobbe.
Ma proprio in quell’istante non lo vide più.

Si allontanò barcollando dall’oblò e cominciò a riconsiderare le sue capacità di recupero: gli veniva più facile accettare che quella cosa fosse uscita dalla sua testa, piuttosto che ammettere che si trovasse realmente lì, nello spazio aperto in un sistema disabitato. Dopo essersi sfregato la faccia un paio di volte per accertarsi di essere ben sveglio ed avere constatato come l’oblò rimanesse vuoto, rivolse la sua attenzione nuovamente agli strumenti, nella speranza di trovare la vera causa dell’allarme e scrollarsi definitivamente di dosso quella fastidiosa sensazione che lo attanagliava alla base del collo.
Aveva giusto trovato una traiettoria dall’aria sospetta nel sistema di rilevazione secondario, quando un nuovo suono d’allarme lo fece sobbalzare. Girò in fretta lo sguardo verso la sirena principale, solo per accorgersi che il rumore proveniva in realtà dalla spia del portello d’accesso.
Mentre il sudore ricominciava ad imperlargli la schiena cercò di sforzarsi di mantenere un contegno davanti a se stesso e, seppur tradendo un certo tremore, visualizzò sul display principale l’immagine della telecamera situata sopra il portello. Il nero dello spazio aperto, costellato da pochi bagliori lontani, lo aiutò a riprendere un po’ di controllo, quel tanto che bastava per far compiere alla telecamera un giro su se stessa ad esplorare tutta la paratia esterna della nave.
Il suo cervello era ancora impegnato nel disperato tentativo di razionalizzare la serie di eventi appena accaduti, quando nuovamente lo vide. E questa volta lo riconobbe al volo.

Fu forse questo pronto riconoscimento in una situazione di stress, unito a quello che a prima vista potè solo interpretare come un’amichevole richiesta d’accesso, che lo spinse a premere in maniera quasi automatica il pulsante di apertura della camera stagna.
Non appena si rese conto di quello che aveva appena fatto, il suo sistema di emergenza ricominciò finalmente a funzionare: balzò dal sedile di comando, afferrò lo storditore appeso alla parete e cominciò a correre, maledicendosi, verso il portello d’accesso interno.
Mentre ancora tentava di elaborare la strategia migliore per affrontare quell’improbabile ospite, giunse alla sala d’accesso, giusto in tempo per riconoscere ancora una volta l’incongruenza di ciò che stava vedendo. Questa volta mentre entrava nella sua nave.

Subito il suo sguardo venne attratto dal volto candido che gli stava sorridendo. In un attimo, senza neanche accorgersene, si trovò a sorridere lui stesso, perdendo momentaneamente ogni punto di riferimento mentre si fermava a fissare quegli occhi blu screziati di rosso, con la pupilla felina ridotta ad una fessura per schermasi dalla luce della nave.
Solo l’esperienza acquisita in anni di vagabondaggio gli permise di rendersi conto di come la sua mano destra stesse involontariamente abbassando lo storditore. Con uno sforzo cosciente si portò in un angolo da cui potesse avere una migliore visuale della sua ospite, si accertò di tenerla bene sotto tiro e si costrinse a continuare l’analisi che quello sguardo ipnotico aveva interrotto.

Se quel volto da principessa era l’incongruenza che non era riuscito a riconoscere a colpo d’occhio nello spazio aperto, ora che si trovava sulla nave era ben altro l’accostamento improbabile che metteva alla prova il suo senso di realtà: abbassando lo sguardo si ritrovò infatti a fissare due snelle gambe da acrobata interamente realizzate in un metallo che a prima vista poteva sembrare bronzo. Non era certo la prima volta che vedeva degli arti robotici — il suo stesso braccio destro era più acciaio che carne — ma le gambe di questa ragazza sembravano l’idea che un orologiaio di mille anni prima avrebbe potuto avere di un arto robotico. Se già era strano che un arto sintetico non fosse completamente ricoperto di pelle o simil-pelle, quell’intreccio di ingranaggi, stantuffi e cavi era quanto di più lontano si potesse immaginare da qualsiasi protesi avesse mai visto.
Sollevando lo sguardo oltre lo stretto gonnellino che cingeva i fianchi della ragazza, si trovò a fissare una vita snella e dei seni ben fatti che avrebbero potuto essere umani; le braccia erano tuttavia ancora una volta costellate di quegli strani ingranaggi, questa volta mescolati alla pelle candida in maniera quasi casuale, ma — si trovò ad osservare — sorprendentemente armonica.
Dopo aver brevemente notato la diversa lucentezza degli ingranaggi che formavano il collo della ragazza e il fascio di cavi che vi correva parallelamente, intrecciato coi capelli neri, si trovò ancora una volta a fissarne la strana espressione, come di chi stesse pazientemente aspettando di passare un esame per poter essere ammesso.

Brevemente si rese conto dell’espressione ebete che doveva essergli apparsa sul volto e si costrinse mutarla in un cipiglio corrucciato; mosse un poco lo storditore, come per sottolinearne la presenza, e si schiarì la voce.
- Chi sei e cosa vuoi? — chiese.

Sul volto della ragazza apparve un’espressione che inizialmente riconobbe come ostile. I suoi muscoli stavano già entrando in tensione, quando si rese conto di come la sua ospite volesse in realtà mostrare solo disappunto. I suoni melliflui che uscirono dalla sua bocca un attimo dopo confermarono la sua seconda interpretazione: abbastanza articolati da sembrare un discorso, ma dissimili da qualunque linguaggio a lui noto.
Senza perdersi d’animo — e senza perdere di mira l’intrusa — si portò al più vicino terminale e selezionò la funzione di traduzione, quindi fece cenno alla ragazza di parlare affinché il sistema potesse riconoscere la radice del suo linguaggio ed abituarsi all’accento.

La procedura non richiedeva solitamente più di un centinaio di parole per individuare la lingua parlata e poche di più per cominciare a fornire una rozza traduzione, fu dunque estremamente sorpreso quando, dopo vari tentativi da parte della ragazza, il sistema si limitò ad annunciare un laconico: “Segnale non identificato come un linguaggio intellegibile”.
Questo non faceva che aggiungere stranezza ad un incontro già iniziato all’insegna dell’incongruenza. L’impossibilità di comunicare rendeva inoltre ancora più difficile stabilire il comportamento da tenere: rispedire l’intrusa nel vuoto da cui era venuta? Rinchiuderla in una stiva e consegnarla alle autorità del primo pianeta su cui avrebbe fatto scalo? Lasciarla libera di circolare nella speranza di trovare un canale di comunicazione?
Il filo dei suoi pensieri fu interrotto da un movimento: lentamente, con gesti cauti ed armonici, la ragazza staccò un’estremità di uno dei cavi che correvano parallelamente al suo collo, rivelando un lucente terminale di connessione universale, e fece un cenno con esso in direzione del terminale.

Ogni lavoratore dello spazio con un minimo di esperienza sa con certezza che non è una buona idea lasciare che uno sconosciuto abbia accesso al sistema della propria nave.
Era tuttavia vero che il sistema centrale della sua nave era praticamente a prova di bomba e inoltre l’accesso dal terminale avrebbe potuto essere ristretto; aggiungendo a questo una situazione che, al suo stato attuale, non sembrava presentare molte vie d’uscita e l’insano senso di fiducia che provava nei confronti di quella donna improbabile, decise che valeva la pena di fare un tentativo. Dopo aver attivato un paio di protocolli di sicurezza, si fece da parte e lasciò che la ragazza si connettesse alla sua nave.

Quando vide la velocità con cui le informazioni scorrevano sul terminale ebbe la certezza di aver commesso la seconda — e forse ultima — sciocchezza della giornata. Poteva solo immaginare cosa stesse succedendo al suo sistema di navigazione, e nessuna delle cose a cui riusciva a pensare lo rassicurava. Ebbe l’impulso di sparare a quel mostro e farla finita, ma sapeva bene che in questo momento avrebbe potuto fare più male che bene. D’altra parte provare a respingere l’attacco a mano sarebbe stato con ogni probabilità inutile, data la sua velocità di elaborazione.
Ancora una volta si trovava smarrito sul da farsi — cosa che odiava — ed ancora una volta fu la ragazza a dissipare le sue incertezze: ad un tratto lo scorrere dei dati si interruppe e il sistema emise un segnale sonoro.
Era pronto a sentire pronunciata la sua sentenza di morte, fu dunque stupito quando udì:
- Ecco fatto! Ora dovremmo essere in grado di comunicare. Mi capisci?
Esalando il respiro che era rimasto bloccato della sua gola riuscì solo a mormorare:
- S…sì. — poi aggiunse con tono più sicuro — Cosa hai fatto alla mia nave?
- Niente di particolare, — tradusse il sistema mentre la ragazza sfilava il cavo e riprendeva il suo strano linguaggio — le ho solo insegnato la mia lingua… è molto più simile alla sua che alla tua!
Sorrise brevemente e, dopo un attimo di pausa, aggiunse:
- Comunque, io sono Luuiqwaat. — l’ultimo suono diede qualche problema al traduttore — Ti ringrazio per avermi recuperata.

Il bollettino intergalattico di navigazione prevedeva addensamenti di particelle tantriche, scomode sorgenti delle interazioni ultraforti nell’universo, nel settore 7G4-AKK-Guhlayn. Questo sarebbe potuto diventare molto presto un incomodo, come se già non fosse bastato l’ospite inatteso.
La ragazza cibernetica dalle componenti di ignota fattura non aveva più aperto bocca dopo quel -Ti rignrazio-. Saranno state almeno tre ore che non faceva altro che restarsene immobile, in piedi, ad osservare attentamente il pilota con aria incuriosita, e un sorriso accennato.
- Beh, se non mi rompe le scatole possiamo anche andare d’accordo — pensò lui. Già aveva i suoi problemi, ci mancava solo che se ne aggiungessero altri. Da quando erano state ricalcolate le nuove rotte commerciali, dopo il diciannovesimo trattato di Xithlixian-VII sui mercati intergalattici, la viabilità di navigazione, e a dirlo erano in molti, era decisamente peggiorata. Le nuove direttive sarebbero state provvisorie, giusto il tempo di scavare nuovi tunnel a contrazione spaziotemporale; questo è ciò che avevano detto quelli del comitato, ma intanto era passato quasi un Gigasek e ancora dei nuovi accordi neanche l’ombra.
Non era certo un bell’affare per un corriere siderale. Ma questo lavoro era tutto ciò che aveva sempre avuto, e l’esperienza gli aveva fornito tutto l’aiuto necessario per trovare le vie più brevi e meno frequentate per raggiungere quasi tutte le destinazioni. Alla faccia delle mappe virtuali fornite dall’agenzia.
Si era rimesso al comando del suo astrocargo Vrazax-7F, il modello più vecchio, non quello nuovo con tutti i comfort e le interfacce facilitate per i pivelli. Era uno che prediligeva gli strumenti longevi e affidabili a quelli innovativi e ultimo grido. Con una mezzora di pilotaggio manuale sarebbe riuscito a superare l’addensamento di tantroni senza rallentare sulla tabella di marcia. Ordinaria amministrazione.
“Pilota automatico reinserito”, precisò la voce del terminale di bordo. Il Pilota si voltò nuovamente verso la graziosa cyborg; era ancora ferma immobile e continuava a fissarlo con questa espressione forse interessata, comunque non di facile lettura. Egli non potè nascondere un certo imbarazzo, si sentì stranamente in dovere di dire qualcosa. Riuscì ad assemblare solo un — Allora, non si sta forse meglio qui dentro? Dev’essere freddino là fuori, intendo nello spazio aperto -; effettivamente poteva riflettere più a lungo prima di sparare questa stupidaggine, pensò. Quella rispose come se fosse stata la domanda più naturale del mondo: — A dire il vero, non potrei definire uno stato di freddo o caldo nello spazio aperto, vista l’assenza quasi totale di materia d’ambiente. Tuttavia devo dire che l’interno della tua nave mi piace molto di più -. E allargò il sorriso poco prima appena visibile in un sorriso ampio e affascinante.
- Ah. Ho capito. — una breve pausa — E comunque io sono Graham, faccio il corriere. — altra pausa — Ah, e non credere che sia uno di quelli che caricano a bordo il primo astrostoppista che incontrano. Io e la mia Vrazax non accettiamo altra gente a bordo di solito… nel tuo caso ho deciso di fare un’eccezione perchè mi parevi in difficoltà -. “E perchè vagavi senza protezioni nello spazio”, avrebbe voluto aggiungere, ma mantenne una certa discrezione.
- Molto piacere Graham. Devo ammettere che sei buffo! -. Questa volta lei sorrise anche con gli occhi, con i suoi curiosi occhi felini. Graham ritenne di doverlo considerare un complimento.
- Ascoltami, bellezza. Al momento sto trasportando un carico importante, ma sono lievemente in anticipo sulla tabella di marcia. Potrei farti scendere alla stazione di rifornimento orbitante nel sistema Rethliev/Arnuig. Là troverai di sicuro un mezzo per raggiungere la tua distinazione. Allora, va bene? -.
La ragazza sembrò totalmente disinteressata a questa faccenda della stazione e del raggiungere destinazione. Senza pensarci minimamente su rispose con un — Va bene, Graham -; e si soffermò molto sul quel “Graham”, come se il suono di quel nome le piacesse alquanto.

Story by alex (Alessandro Bahgat), Phiandark (Franco Pellegrini). Psilvi (Pietro Silvi) · September 2006–March 2007 · Originally published on novlet.com

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