First last time in San Francisco
Il pianto che ci riempie gli occhi — quando ci allontaniamo da Market St. e dai suoi palazzi, dal saliscendi delle strade mai mute, e dalla distesa senza limite di quel mare detto Oceano — non è perché ci dirigiamo altrove, e non vi è una sola lacrima per i luoghi che lasciamo.
È il tempo consumato in quelle strade, che piangiamo. Il momento della nostre vite durante il quale — in un intreccio sacro quanto occasionale — fummo lì.
Lascio i miei trent’anni a San Francisco, e piango, non per quelle strade che, magari, rivedrò in futuro, ma per il tempo in cui le vidi e che mai più sarà, quando salivo svelto sulle hills, tra il sole morbido della California e il morso ventoso della baia, e nel silenzio del mattino il suono dei cavi sotterranei dei tram mi accompagnava a fare ciò che non sarebbe più tornato: quel sorriso ad un passante, quella fotografia ad una dimora di legno e pastello, quello sguardo gettato all’orizzonte e destinato a non tornar mai più se stesso.
Come la nebbia fragile che, in lontananza, il ponte rosso, muto, metallico e solenne, sfilacciava in lembi di un pallidissimo passato.