La Nebulosa Homunculus

Un sudario di gas e polveri che si estende per 43.300 unità astronomiche

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

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Negli anni centrali del 19° Secolo, un processo non ancora ben compreso nelle cause e nei meccanismi portò Eta Carinae a liberarsi con violenza di parte della sua massa, che fu espulsa ad alta velocità dalle regioni polari della stella, formando una densa nebulosa bipolare di polveri e gas.

Quando nel gennaio del 1944 l’astronomo argentino Enrique Gaviola osservò quella nebulosità con il telescopio riflettore da 154 centimetri dell’Osservatorio di Cordoba, i due lobi oggi chiaramente visibili e distinti gli apparvero fusi in un oggetto tondeggiante un po’ bizzarro, in parte per il minor tempo trascorso dall’eruzione in parte per l’insufficiente potenza del telescopio adoperato. Gaviola battezzò ironicamente quella cosa homunculus, una parola latina che vuol dire ‘ometto’, ‘omiciattolo’. Ecco la descrizione di ciò che vide:

La complessa struttura della parte più brillante della nebulosità della stella — entro 6’’ dal centro — fu osservata a Bosque Alegre con il riflettore da 61 pollici, la prima volta che la stella fu messa sull’apertura del nuovo spettrografo, la mattina presto del 9 gennaio 1944. Con un potere risolutivo di 1200 diametri e immagini stellari non più grandi di 1’’, poteva essere chiaramente osservata una forma rassomigliante a un “homunculus”, con la testa che punta a nordovest, le gambe nella direzione opposta e le braccia ripiegate su un corpo grasso.

E veramente la nebulosa che circondava Eta Carinae pareva un omino, anzi un pupazzetto grassoccio, come mostrano le immagini seguenti, tratte dall’articolo di Gaviola.

La serie di fotografie di Eta Carinae inserite nello studio di Gaviola del 1950 che ispirarono il nome ‘homunculus’, tuttora utilizzato per indicare la nebulosa che circonda la stella. I tempi di esposizione variano da 1 (a) a 256 secondi (i). Le ultime pose mostrano più chiaramente il profilo dell’ometto grassoccio descritto dall’astronomo argentino. Credit: E. Gaviola, The Astrophysical Journal, 1950

Massa, velocità di espansione e dimensioni dell’Homunculus

Da complicati calcoli basati sulla quantità di luce visibile che la Nebulosa Homunculus riflette, sull’intensità della radiazione infrarossa che emette, sulla grandezza dei grani di polvere che la compongono e sul rapporto tra i gas presenti e le polveri, gli astronomi hanno ricavato la quantità di materia espulsa da Eta Carinae durante la Grande Eruzione di metà ’800. Secondo i calcoli più cauti, la quantità fu pari a tre masse solari, ma vi sono stime basate su misurazioni effettuate nella gamma di lunghezze d’onda tra 5 e 25 µm che innalzano a 10 o addirittura a 15 masse solari la quantità di materia che Eta sparò nello spazio negli anni ruggenti della Grande Eruzione. “In ragione di quanta massa fu espulsa” — spiegano Davidson e Humphreys — “l’indice di perdita di massa di η Car durante la «grande eruzione» fu tra 0,1 e 0,5 masse solari per anno!”

Ora, poiché la massa del Sole è 332.950 volte quella della Terra, ne concludiamo che — secondo i calcoli più cauti, si badi bene! — Eta eruttò negli anni centrali dell’’800 l’equivalente di un milione di masse terrestri, al ritmo di oltre 30.000 l’anno. Cifre che diventano ancor più impressionanti, se prestiamo fede ai valori suggeriti dai calcoli meno cauti: quasi cinque milioni di masse terrestri, al ritmo di oltre 150.000 l’anno.

Impressionante è anche la velocità con cui i materiali espulsi, che oggi costituiscono la nebulosa Homunculus, si allontanano dalla stella centrale. Gli studiosi sono pressoché concordi su una velocità di espansione, ai poli dei lobi dell’Homunculus, di circa 650 chilometri al secondo, pari a oltre 2,3 milioni di chilometri orari. Ciò vuol dire che, su scala annua, la nebulosa si espande di circa 20,5 miliardi di chilometri: oltre quattro volte e mezza la distanza di Nettuno dal Sole.

In uno studio del 1998 intitolato The infrared morphology of η Carinae, gli autori Smith, Gehrz e Krautter stimarono l’ampiezza di ciascuno dei due lobi dell’Homunculus, misurata nel medio infrarosso, in circa 9 secondi d’arco, che, alla distanza da loro supposta di 2,5 kiloparsec (pari a poco più di 8.000 anni luce), corrispondono a 22.540 unità astronomiche: 22.540 volte la distanza della Terra dal Sole! Si tratta di più di un terzo di anno luce, cioè qualcosa come 3.400 miliardi di chilometri, da moltiplicare per due per ottenere l’estensione totale della nebulosa da un polo all’altro.

In un altro studio pubblicato un paio d’anni dopo, Kris Davidson riporta un’estensione totale dell’Homunculus leggermente inferiore: 6,5 × 10¹⁷ cm, cioè circa sette decimi di anno luce, pari a 6.500 miliardi di chilometri, che è come dire oltre 43.300 unità astronomiche. Questa misura è confermata anche da uno studio del 2006 di Nathan Smith, che riporta come raggio massimo della nebulosa 21.690 unità astronomiche: un valore che corrisponde quasi perfettamente alla metà del diametro polare proposto da Davidson. Per confronto, il Voyager 1, l’oggetto di fattura umana attualmente più distante dalla Terra, si trova a settembre 2015 — dopo circa 38 anni di viaggio — ad “appena” 132,6 unità astronomiche dal Sole: circa 19,83 miliardi di chilometri, un misero 0,3 per cento del diametro dell’Homunculus, dando per buono il valore riportato da Davidson.

La nebulosa agli occhi dei moderni telescopi

L’aspetto recente della nebulosa Homunculus è perfettamente visibile in due magnifiche, spettacolari immagini, prodotte rispettivamente dal telescopio spaziale Hubble della NASA e dal Very Large Telescope dell’ESO in Cile.

Eta Carinae al centro della nebulosa Homunculus, in una celebre immagine acquisita dal telescopio spaziale Hubble, pubblicata nel 1996. Cortesia: Jon Morse (University of Colorado) e NASA
Eta Carinae e Homunculus, ripresi con le ottiche adattive NACO del Very Large Telescope dell’ESO (elaborazione finale di Yuri Beletsky e Hännes Heyes). L’immagine fu pubblicata nel 2008. Cortesia: ESO

Oltre a una miriade di dettagli che mostrano l’enorme complessità delle volute che formano i due lobi cavi della nebulosa, le immagini di Hubble e del Very Large Telescope evidenziano un disco disomogeneo di materiali nella zona equatoriale, alla congiunzione dei due lobi, che gli astronomi chiamano skirt: è una specie di tutù che copre i “fianchi” dell’omiciattolo che Gaviola vide nella nebulosa. Questa struttura, la cui formazione è difficile da spiegare in termini meccanici, forma un complicato anello di getti e pennacchi, che potrebbe essere la conseguenza di un’espulsione di materia dalle zone equatoriali di Eta Carinae piuttosto che da quelle polari.

La datazione dell’Homunculus

Grazie alla disponibilità di immagini della nebulosa distribuite su un arco di cinquant’anni, Nathan Smith e Robert Gehrz pubblicarono nel 1998 uno studio in cui ricostruirono con prove indiziarie la storia dell’espansione dell’Homunculus, con l’idea di verificare se ciò che vediamo oggi è effettivamente l’esito della Grande Eruzione di metà ’800.

L’aspetto della Nebulosa Homunculus nel 1945, nel 1972 e nel 1995. Credit: N. Smith, R. D. Gehrz

I due astronomi, attraverso una serie di adattamenti, resero comparabili tra loro punto a punto immagini della nebulosa acquisite tra il 1945 e il 1995 con tecniche e strumenti molto diversi. L’esito della comparazione fu l’individuazione di una serie di strutture all’interno dell’Homunculus, identificate dalle sigle visibili nel quarto riquadro, che erano già discernibili in embrione nelle immagini del 1945 e del 1972. Ciò permise loro di calcolare la velocità di espansione di ciascuno degli elementi siglati e di creare una tabella, nella quale l’origine di ognuna delle strutture della nebulosa veniva datata con un margine medio di errore di 6 o 7 anni.

Dall’analisi di Smith e Gehrz emerse che, mentre l’origine del lobo dell’omuncolo più vicino al nostro punto di osservazione era in ottimo accordo con le date storicamente note della cosiddetta Grande Eruzione, le strutture nel lobo più lontano (da NW1 a NW5) erano invece in “ritardo” di alcuni anni. Gli autori spiegarono questa discrepanza come un effetto della contaminazione delle emissioni provenienti dal lobo remoto della nebulosa da parte di addensamenti appartenenti al disco equatoriale, interposti rispetto al nostro punto di osservazione. Conclusero che era plausibile che la data di espulsione di entrambi i lobi fosse la medesima e cioè quella calcolata per il lobo meridionale: l’anno 1848 con un margine di errore di circa 7 anni.

Emerse inoltre dai loro dati che l’anello equatoriale, il “tutù” dell’omuncolo, era significativamente più giovane della nebulosa bipolare e che la sua creazione coincideva pressappoco con le date dell’eruzione minore, storicamente osservata a partire dal 1890.

La ricostruzione indiziaria di Smith e Gehrz fu però contraddetta, poco tempo dopo, da un articolo pubblicato nel 2001 su The Astrophysical Journal, tra i sei autori del quale vi erano Jon Morse come primo firmatario e quel Kris Davidson già più volte citato.

La tecnica di datazione usata in questo nuovo studio era analoga a quella di Smith e Gehrz: misurare lo spostamento delle varie strutture della Nebulosa Homunculus, confrontando la loro posizione punto a punto su immagini scattate a distanza di anni, partendo dall’assunto che la velocità di espansione di ciascun elemento si sia mantenuta costante nel tempo. Ma, mentre Smith e Gehrz avevano preferito usare immagini di fonti ed epoche molto diverse per avere una base temporale ampia — cinquant’anni — da cui estrapolare la data di origine della nebulosa, Davidson e colleghi preferirono ridurre la base temporale a vantaggio dell’attendibilità del confronto.
Si servirono a tal scopo delle migliori e più recenti immagini disponibili dell’Homunculus, cioè quelle prodotte dal telescopio spaziale Hubble nel 1994, 1995 e 1999.

Usando una complicata serie di accorgimenti e un software ad hoc per sovrapporre con la massima precisione possibile le immagini di Hubble, ottennero la spettacolare vista riportata di seguito, che mostra in modo immediatamente comprensibile, grazie all’alternanza dei toni chiari e dei toni scuri, l’espansione della nebulosa tra il 1995 e il 1999.

Immagine dinamica dell’espansione della Nebulosa Homunculus tra il 1995 e il 1999. Credit: Jon Morse et al.

Anche senza una preconoscenza di carattere astronomico dell’oggetto, osservando l’immagine si ha la netta impressione di guardare l’esito di un’esplosione, in cui i due principali getti di materia — i lobi internamente cavi dell’homunculus — continuano a espandersi, con velocità tanto maggiori quanto più sono lontani dall’origine dell’esplosione (Eta Carinae, la cui posizione è indicata dalla crocetta bianca appena visibile al centro).
Ciò che emerse a livello scientifico dal nuovo studio è sintetizzato dal grafico seguente.

Credit: Jon Morse et al.

L’analisi degli spostamenti tra il 1995 e il 1999 delle numerose zone monitorate (circa cinquanta solo nei due lobi), raggruppate in quattro categorie, mostrava che l’intera nebulosa bipolare, compreso l’anello equatoriale, sembrava aver avuto origine nel 1847, con un errore medio oscillante tra i quattro e i sei anni. Osservando il grafico, si nota che la linea tratteggiata che riporta al 1890 è vuota, mentre tutti gli indicatori si dispongono intorno alla linea che riporta al 1847. In altre parole, il nuovo studio diceva che la Grande Eruzione di metà ’800 aveva formato non solo la nebulosa bipolare ma, in qualche modo ancora non ben compreso, anche lo strano anello di getti equatoriali che separa i due lobi.

Forma e struttura tridimensionale dell’Homunculus

Un successivo studio di Nathan Smith, pubblicato su The Astrophysical Journal nel 2006, utilizzò i dati dello spettrografo Phoenix montato sul telescopio Gemini Sud, per ottenere una dettagliata mappa della forma e della struttura tridimensionale dell’Homunculus. Tra i principali risultati ottenuti dall’analisi degli spettri, vi fu la scoperta che le pareti esterne dell’omuncolo erano formate da un “velo” di idrogeno molecolare (H2) estremamente sottile e omogeneo. Ciò poneva un vincolo ben preciso sull’andamento della Grande Eruzione, descritto da Smith nelle conclusioni del suo lavoro:

… la più importante fase di perdita di massa durante l’eruzione deve essere durata 5 anni o meno. Il corrispondente tasso di perdita di massa è così elevato che la luminosità meccanica avrebbe superato in quel periodo di gran lunga la luminosità da radiazione, il che implica che la Grande Eruzione fu più un’esplosione che un vento.

Lo studio della distribuzione dell’idrogeno molecolare portò Smith a un’altra notevole conclusione:

La distribuzione di H2 rende possibile una nostra prima stima della dipendenza della velocità, della perdita di massa e dell’energia cinetica della Grande Eruzione dalla latitudine. Circa il 75% della massa e più del 90% dell’energia meccanica furono rilasciate a latitudini comprese tra 45° e i poli [di Eta Carinae].

Questa scoperta aveva conseguenze anche sul modello teorico che descrive la meccanica della Grande Eruzione:

Questa distribuzione di massa in base alla latitudine esclude un modello in cui la forma bipolare della nebulosa sorga da un’esplosione altrimenti sferica, vincolata dalla presenza di un preesistente toro circumstellare. L’energia cinetica dei materiali espulsi dai poli esclude un modello in cui essi siano stati deflessi verso i poli da una stella compagna, perché la compagna putativa non avrebbe potuto fornire l’energia richiesta. Ciò significa che i materiali espulsi furono diretti verso i poli dall’esplosione stessa. Un evento di fusione non può essere escluso con facilità, ma è improbabile.

Sintetizzando il discorso di Smith, possiamo dire che non sappiamo esattamente quale forza o insieme di forze abbia condotto Eta Carinae alla devastante esplosione di metà ’800, ma quel che è certo (o quasi) è che la forza dell’esplosione fu diretta essenzialmente verso i poli della stella, dando origine alla nebulosa bipolare che oggi possiamo ammirare nelle immagini di Hubble e di altri grandi telescopi.

Uno studio del 2008 a firma di Mairan Teodoro, Augusto Damineli e altri aggiunse l’ulteriore dettaglio che entrambi i lobi dell’Homunculus appaiono bucati ai poli. I buchi hanno un diametro approssimativo di 600 miliardi di chilometri e sono profondi all’incirca 650 miliardi di chilometri, cioè quanto le circostanti “pareti” dell’omuncolo. La posizione dei buchi, entro 5 gradi dai poli della nebulosa, suggerisce che l’espulsione di materia da Eta Carinae durante la Grande Eruzione, benché sia avvenuta essenzialmente in direzione dei poli della stella, non abbia interessato le latitudini circumpolari da 85 gradi in su.

Posizione e spessore apparente dei fori ai poli della Nebulosa Homunculus. Credit: M. Teodoro et al.

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Michele Diodati
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Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.