Il nuovo marketing come “palinsesto narrativo” su cui scrivere le storie d’impresa

Intervista a Paolo Iabichino

Alessandro Giovanazzi
Learning Diaries
Published in
7 min readNov 19, 2018

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Chi è Paolo Iabichino?

È una domanda sfaccettata. Paolo Iabichino -Aka Iabicus- è il direttore creativo di Ogilvy Italia. Però è anche un docente, un autore, un giornalista, un papà; con una vita molto sollecitata. Mi piace essere riempito di stimoli, in particolare da parte dei più piccoli. Parlo dei miei figli, ma anche dei tanti ragazzi con cui lavoro e a cui insegno. E non lo dico per retorica, ma perché essere a contatto con chi farà questo mestiere dopo di te ti costringe a leggere ciò che fai non dal punto di vista di chi già sa, ma dal punto di vista di chi ha voglia di capire cosa diventerà.

Guardare al futuro serve a misurarsi continuamente col cambiamento, preparando i direttori creativi di domani, aiutandoli a fare questo mestiere ancora a lungo. Perché bisogna dirlo, non è detto che rimanga. Si tratta di un lavoro che si basa sull’intermediazione, quando invece la realtà sembra propendere decisamente verso la disintermediazione.

Da dove viene Paolo Iabichino?

Arrivo da una lunghissima gavetta da freelance, in un momento molto particolare. Negli anni ‘90 e 2000 nessuno voleva praticare il marketing online perché non era così creativo, non era così divertente e non pagava così bene. Io ho cominciato a mettere le mani lì molto semplicemente perché avevo bisogno di lavorare e c’era meno concorrenza. Quindi vengo anche da internet, sia professionalmente, che come abito mentale. Nel senso che la rete della prima ora mi ha insegnato la potenza delle connessioni, del networking sano (che non è Facebook). All'origine c’era uno stare insieme che era molto più motivato, molto più generoso, molto più arricchente. Io ho delle amicizie che risalgono a quegli anni, amicizie virtuali, sodalizi virtuali, che proseguono ancora oggi!

Tu hai un’opportunità rara, lavorativamente parlando. Hai la possibilità di incontrare delle storie incredibili e delle aziende che le vogliono raccontare. Che cosa ti colpisce di più di un’azienda che si vuole raccontare?

Molto spesso dietro le aziende che decidono di raccontarsi, ci sono i racconti delle persone che le guidano. Persone che hanno voglia, in un qualche modo, di trasferire il loro vissuto. E non lo fanno per motivi egotici. Si tratta di un’intenzione che non ho trovato solo nelle aziende imprenditoriali, guidate da una famiglia, ma anche da quelle guidate da manager, che però vivono in modo profondo la vita dell’azienda. È come se i manager e gli imprenditori, cominciassero a interrogarsi su quello che stanno facendo e perché lo stanno facendo.

Nasce quindi l’esigenza di interrogarsi sul capitale narrativo che c’è dietro ogni azienda. E lo scopo del marketing è di prendere questo capitale narrativo per capire se:

  1. è sano;
  2. è rilevante;
  3. può essere messo in scena;
  4. è credibile.

Poi, che la creatività possa mettere in scena queste storie, attraverso prodotti o servizi, è la cosa più affascinante che ci sia.

Spesso associamo il marketing a qualcosa di insincero, tanto da non dargli più retta. È possibile approcciare il marketing in modo differente, ma al contempo efficace?

Sì. È possibile. È necessario. È urgente.

Nel senso che effettivamente il marketing paga uno stigma. Lo stigma della manipolazione. Lo stigma della seduzione artefatta. Oggi siamo più che mai coscienti degli effetti provocati dall'aver “dopato” i bisogni, per aumentare i consumi, così come dalla necessità di fare una riflessione, anche molto ampia. E c’è già chi ci sta ragionando da tempo. Penso a Giuseppe Moricci, CEO di Bolton ed ex-presidente Europa di Barilla, che ha titolato il suo libro: “Fare marketing, restando brave persone”.

Insomma, va formandosi un marketing nuovo, più attento, più sensibile alle persone e ai comportamenti e forse meno preoccupato di creare il bisogno a tavolino. Un marketing concentrato sull'ascolto dei propri interlocutori e delle tensioni culturali.

È come se certe marche stessero cominciando a ritardare la “call-to-action” a scaffale. Il mandato principale non è più l’acquisto, ma piuttosto l’adesione al prodotto. Adesione al prodotto che è adesione al racconto, al tuo racconto. Quindi a un certo punto non è detto che io, cliente, ti compri (almeno non subito), però intanto siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Siamo sintonizzati perché mi hai raccontato una storia, la tua storia. Poi sarà molto probabile che io ti compri, ma questa non deve essere l’ossessione di chi fa marketing.

È un po’ come leggere un autore di libri che scrive un bell'articolo sul giornale. Rimani colpito da quello che scrive e da quel momento comincerai a seguirlo con maggiore attenzione.

L’esempio è perfetto. Perché c’è una componente di racconto che emerge prima, rispetto a quella del prodotto. Di fatto avviene uno spostamento perché tu, azienda, non vieni più letta come brand, ma come portatrice di pensiero. Ed è qui che bisogna innestare il discorso del personal branding. Il lavoro creativo è il cercare di far emergere chi guida l’azienda non dico allo stesso livello dell’azienda stessa, ma che venga considerato e riconosciuto come volano valoriale di quella marca/azienda.

Penso in particolare ad alcune realtà, spesso nella piccola e media impresa. Fare personal branding non significa mettere l’imprenditore o il manager su Facebook. Significa piuttosto fare in modo tale che quell'imprenditore (o manager) sia consapevole del portato mediatico che può avere e di come questo possa arricchire il racconto della marca. A un certo punto egli diventa come un autore, che produce contenuti editoriali, così da poter mettere in atto strategie che siano dei palinsesti narrativi, all'interno del quale poter scrivere la propria storia.

Quando ti trovi di fronte a un’azienda che ti chiede un servizio, cosa ti fa capire che ha quella marcia in più che renderà il progetto esaltante?

In realtà non te ne accorgi mai nel momento del brief. Il momento del brief non è la prova del nove. La maggior parte dei progetti sono potenzialmente esaltanti, o possono diventare tali, all'inizio. Per me la cartina di tornasole è il giorno della prima presentazione, quando tu hai obbedito in un qualche modo al tuo sentire, ti sei fatto carico di quel prodotto o di quel servizio e lo hai tradotto attraverso la creatività in qualcosa di esaltante. Gli hai messo dentro tutta l’energia, gli hai messo dentro il coraggio, la rottura di regole e di schemi.

Ed è lì che verifichi se il tuo committente sposa la linea di pensiero, condividendo con te rischi e opportunità.

Poi ciò che depotenzia il nostro lavoro è il brevissimo periodo, quando invece le campagne più esaltanti guardano al lungo periodo e disegnano scenari strategici a lunga gittata. Ma per poterlo fare c’è bisogno di tempo, di ritmi più lenti rispetto a quelli promozionali e tattici dell’acquisto immediato. Io posso costruire un racconto esaltante, nella misura in cui sfido creativamente l’interlocutore (il cliente), fornendogli un’opzione di senso. Ma per fare questo ci vuole serenità, coraggio, senso della sfida rispetto a qualcosa che nessuno sa, in fondo, come andrà a finire esattamente. Perciò deve essere una partita che si gioca in due. Un’alleanza fra chi scrive e la committenza. Le più belle storie di comunicazione degli ultimi anni sono nate da grandi sodalizi. Penso a Oliviero Toscani con Benetton, oppure al lavoro di Diesel con il suo direttore creativo, Bruno Bertelli. Sono delle alchimie in cui ci si affida l’uno all'altro e si sceglie di portare avanti un vero e proprio rapporto.

Come se la giocano le aziende italiane in quanto a valori e visioni, rispetto ai competitor stranieri? Quelle che riescono a crescere, perché ci riescono?

Banalmente, quelle che riescono a crescere, riescono a farlo perché hanno saputo capitalizzare su un patrimonio straordinario che è quello del nostro coté culturale. Un patrimonio che può essere esportato in modo molto importante, grazie all'inerzia narrativa che ereditiamo da chi è venuto prima di noi. Un patrimonio che ci deriva dal solo fatto di essere italiani.

Cosa diresti a un giovane ragazzo, appassionato, che esce da una scuola e che vuole fare del marketing la propria professione?

Gli chiederei di interrogarsi sul perché di questa scelta. Questo mestiere, fino a qualche anno fa, è stato investito di una fascinazione assolutamente velleitaria. Oggi, invece, anche se c’è ancora bisogno di competenze formate all'interno di scuole, ciò di cui c’è veramente bisogno sono le cosiddette “soft skill”. E non parlo del solito “lavorare in team”, mi riferisco a quelle inclinazioni che ti permettono di progettare in un determinato modo, o di disegnare strategie in un determinato modo. Quindi è importante interrogarsi sul perché questa persona voglia fare questo lavoro, dato che richiede un nuovo atteggiamento. E ci vuole una motivazione vera, che non è quella di diventare ricco e famoso, ma è quella di provare a cambiare le cose, provare a migliorare la vita delle persone, così come provare a migliorare il mondo in cui abitiamo. Chi troverà anche questo tipo di spinta, allora è sulla buona strada per un buon modo di fare marketing.

Altrimenti questa persona diventerà un bravissimo tecnico, un impiegato della comunicazione. Un impiegato del marketing. Cosa che può assolutamente andare bene, in realtà…

Senza grandi interrogativi, questa persona magari riuscirà pure ad andare a lavorare per la multinazionale iperblasonata, esattamente come una dignitosissima impiegata può raggiungere lo sportello delle poste o un dignitosissimo custode il suo posto da bidello. Anzi, paradossalmente queste persone avranno molte più possibilità di cambiare il mondo di chi passerà la vita a compilare powerpoint ed excel, senza veramente interrogarsi su cosa stia realmente facendo per migliorare, anche di poco, il metro quadro di mondo che gli è stato dato in sorte.

Scritto, con cura, da Alessandro Giovanazzi su Euristika!

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