Riprogramma La Tua Mente

Jacopo Ranzani medita quotidianamente da anni e ci spiega perché dovremmo farlo tutti

Fabrizio Rinaldi
Feelmaking
20 min readFeb 27, 2015

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Illustrazione di Dario Crisafulli.

Se un tempo parlare di meditazione poteva essere inusuale e suonare ‘esotico’, oggi l’argomento è diventato sorprendentemente popolare.

I CEO meditano, i designer meditano, i giornalisti del Time meditano, i tuoi follower meditano. Insomma questa pratica antica sembra aver raggiunto la ‘massa critica’ e superato i confini culturali dell’Oriente, scrollandosi dalle spalle connotazioni religiose o esoteriche, generatrici di fraintendimenti.

Io ho meditato frequentemente in alcuni periodi della mia vita, meno in altri, ma da quando ho iniziato a farlo ho sempre riconosciuto l’importanza e il fascino di questa pratica. Talvolta ho sviscerato l’argomento con alcune letture o lunghi video su YouTube, ma mi sono poi reso conto di voler approfondire ulteriormente, fare chiarezza sull’argomento e condividere con altri quanto appreso in questa ricerca.

Ho quindi chiesto all’amico Jacopo Ranzani di chiacchierare con me online su questo argomento, per poi condividere i nostri (ma soprattutto i suoi) pensieri con i nostri seguaci e con chiunque si trovi a passare da queste parti.

Fabrizio Rinaldi: Insomma Jacopo, sembra proprio che stiamo imparando a prenderci cura della nostra mente, e in un momento di grandi evoluzioni tecnologiche e non solo, questa cosa mi conforta. Cosa sta succedendo?

Jacopo Ranzani: l’aumento di popolarità per una pratica così antica indica un bisogno che si sta facendo sempre più pressante: vogliamo stabilità, equilibrio, e iniziamo a diventare consapevoli di quanto sia importante prendersi cura della propria psiche, oltre che del proprio fisico. Purtroppo questa necessità va ad inserirsi in un contesto in cui le persone, abituate ad avere tutto e subito, vogliono soluzioni rapide ai loro problemi e preferiscono quindi ricorrere a “pillole della felicità”, piuttosto che imbarcarsi in un percorso lungo e faticoso; ironicamente questo atteggiamento è figlio delle stesse nevrosi che si cerca di risolvere. Fortunatamente nelle ultime decadi le neuroscienze hanno fatto passi da gigante nel comprendere le meccaniche del nostro cervello, rendendo al contempo le recenti scoperte accessibili ad un vasto pubblico; la parola chiave in questo contesto è “neuroplasticità”, ossia la capacità del sistema nervoso di modificare la sua stessa struttura tramite input dati dall’esperienza. In sostanza: siamo in grado di “riprogrammare” il nostro cervello.

Tale caratteristica è essenziale per apprendere nuovi concetti e consolidare abilità: se oggi dovessi iniziare a giocare a tennis, il mio cervello si organizzerà di conseguenza rafforzando sempre di più le connessioni sinaptiche utili nel contesto di una partita. A distanza di un anno la mia capacità di coordinazione sarà senza dubbio maggiore rispetto ad ora e ciò andrà a beneficio anche di altri aspetti della mia vita quotidiana.

Analogamente, la pratica meditativa fa si che il nostro cervello acquisisca l’abitudine ad operare in modo diverso: sedendo immobili ed eseguendo ripetuti esercizi di consapevolezza e/o concentrazione coltiviamo abilità in grado di agevolare diversi aspetti della nostra vita. Molti studi hanno dimostrato che la meditazione può essere di grande aiuto nel combattere disturbi quali ansia e depressione; tutta questa pubblicità positiva sta spingendo sempre più gente verso queste pratiche e in molti si dicono più che soddisfatti dei risultati.

FR: Parlando di meditazione si rischia di divagare e parlare anche di molto altro. Hai sfiorato l’argomento “neuroplasticità” e mi piacerebbe prima o poi approfondirlo. Mi viene in mente un un libro decisamente pseudo-scientifico, ma ricco di spunti interessanti, ovvero Cambia l’abitudine di essere te stesso di Joe Dispenza (da cui ho tratto la citazione qui sotto). Dunque non vale solo l’idea che ciò che siamo definisce ciò che pensiamo, ma anche e soprattutto il contrario.

Per creare qualcosa di diverso rispetto al mondo in cui sei abituato a vivere, devi cambiare quotidianamente il tuo modo di pensare. D’altra parte, se ti ostini a pensare sempre nello stesso modo, continuerai a creare le medesime circostanze, tali da suscitare in te le stesse emozioni, che il tuo pensiero rispecchierà perfettamente.

La meditazione, insomma, aiutando a combattere i circoli viziosi del pensiero, si inserisce perfettamente in questo processo di riappropriazione della mente, e quindi della propria vita. Al di là di questi miei ragionamenti, ti chiedo: qual è il tuo rapporto con la meditazione?

JR: Il mio rapporto con la meditazione è cambiato più volte e sta tutt’ora mutando, quindi mi risulta molto difficile tracciare l’evoluzione di ciò che è iniziato come un esperimento senza pretese ed è arrivato ad essere l’elemento stabilizzante di ogni mia giornata. All’inizio ciò che mi spingeva a ritagliarmi il tempo per sedere ed osservare il mio respiro era lo stato di relax che mi pervadeva al termine di ogni sessione, ma con il passare dei mesi mi sono reso conto che la pratica stava trasformando la mentalità con cui affrontavo le mie giornate e aumentando in modo significativo la qualità delle stesse: è incredibile il modo in cui tutto cambi nello spazio di una percezione.

FR: Capisco perfettamente cosa intendi dire. Anche nel mio caso una delle conseguenze di introdurre la meditazione tra le mie abitudini è consistita nell’adottare un diverso modo di vivere le situazioni quotidiane: più serenamente, più pienamente. Un cambiamento più che benvenuto consiste anche nel modo diverso in cui la meditazione fa vivere lo “starsene con le mani in mano”. Si può non fare niente, non muore nessuno. Anzi, nell’era della produttività forse la rivoluzione è proprio il saper tornare ad uno stato in cui non ci sono “to-do”, progetti, ambizioni o responsabilità almeno per qualche breve momento. Liberarsi dal “cosa devo fare dopo” che ci attanaglia costantemente, che significa poterlo poi vivere più lucidamente fuori dalla parentesi della meditazione.

JR: Esatto! Bisogna però affrontare la pratica nel modo giusto e non vedere le sedute come l’ennesimo to-do che depenniamo dalla lista della giornata. Purtroppo — specie agli inizi — è facile cadere in questo e altri tranelli: anni e anni di condizionamenti mentali non se ne vanno in un battito di ciglia. Non bisogna nemmeno fraintendere il concetto di “vivere nel momento” facendo scelte irresponsabili: pianificare aspetti della propria vita è necessario, le ambizioni sono un’utile strumento e ci sono circostanze in cui la preoccupazione (e tempestiva azione) è necessaria; vanno però evitati gli eccessi, le ossessioni. Personalmente ho trovato nella meditazione un ottimo modo per ricalibrare la mia prospettiva, di modo da non trovarmi in balia di pensieri ed emozioni come troppo spesso mi è capitato in passato.

Con il tempo sono diventato sempre più consapevole del modo in cui opera la mia mente e dei circoli viziosi in cui è molto facile incappare, alcuni dei quali arrivano a minare la stessa pratica: è il caso di spendere due parole su motivazione, obiettivi e aspettativa. La motivazione è importante per tutto ciò che facciamo, se questa viene a mancare è difficile mantenersi sul percorso scelto e meditare non fa eccezione. È importante però non identificare la nostra motivazione con un obiettivo preciso: volendo raggiungere un preciso stato mentale ci si mette nelle peggiori condizioni possibili per ottenerlo, dal momento che sarà più difficile mantenere le condizioni migliori per lo svolgimento della pratica (attenzione sul presente, equanimità). Va da sé che desideri e aspettative sono da trattare come pensieri qualsiasi, non bisogna dar loro alcuna importanza se non si vuole incappare in alti livelli di frustrazione.

L’aver picchiato più volte la testa contro questi ostacoli mi ha spinto ad apprezzare molto l’approccio del Buddismo Zen: è meglio lasciarsi alle spalle ogni ideale e aspettativa, poiché il rischio è quello di rincorrere un fantasma. L’errore in cui sono incappato, nel tentativo di rincorrere il mio “equilibrio ideale” è stato teorizzare un set di regole a cui attenermi e impegnarmi per essere spontaneo; non credo ci sia bisogno di precisare il perché sia un controsenso. A scuotermi sono state le parole di un utente di Reddit che non finirò mai di ringraziare; le riporto di seguito:

Per favore smettila di confondere gli insegnamenti su come dovresti meditare con quelli sul modo in cui dovresti vivere la tua vita quando NON stai meditando. Tutta quella roba Zen è ottima per suore e monaci ed è perfetta anche per te solo quando te ne stai seduto a meditare. Il resto del tempo è solamente un pesce morto su una corda appesa al tuo collo. È maleodorante e ti trascina giù. Butta via quel dannato pesce.

La pratica (se pratichi) darà da sola i suoi frutti, non ha bisogno che tu sia d’accordo, non serve il tuo aiuto o la tua comprensione.

Ecco La Prima e Ultima Regola: tutto ciò di cui hai bisogno affinché la pratica funzioni, è praticare e tentare di essere gentile verso te stesso e verso gli altri. Scegli pochi obiettivi e lavora sodo per raggiungerli. Finché i tuoi obiettivi e ciò che devi fare per raggiungerli non andranno in conflitto con La Prima e Ultima Regola, le cose andranno bene.

Se vuoi un certo tipo di lavoro o carriera, imponiti obiettivi che siano allineati con queste cose e mettiti a lavoro. Se vuoi trovare un amore, scegli obiettivi che portino a fare di te un buon amante, quindi apri gli occhi e il cuore per non lasciarti sfuggire la persona giusta quando ti verrà vicina.

“La pratica (se pratichi) darà da sola i suoi frutti”. Questa frase è da incorniciare: gli effetti che si sperimentano non sono placebo, bisogna solo avere pazienza, disciplina e seguire le istruzioni.

FR: Terrò sicuramente a mente La Prima e Ultima Regola. Io non medito tutti i giorni, ma sto cercando di farlo più frequentemente e a lungo. Ho iniziato col percorso di 10 giorni di Headspace, mentre adesso preferisco la meditazione non guidata. A volte a occhi chiusi, a volte aperti, a volte mi concentro sul corpo, altre sul respiro, altre sull’ambiente. Esercito la mia attenzione, insomma, a scivolare sul presente, lasciando la presa su passato e futuro.

Avendo meditato quotidianamente per oltre un anno, la tua esperienza è decisamente più solida. Che tipo di pratica fai e quali sono i risultati?

JR: Ho iniziato anche io con Headspace, ma la mia curiosità mi ha portato a documentarmi circa le varie pratiche meditative e le filosofie da cui ha avuto origine, al pari delle varie ricerche scientifiche in merito. Prendo quindi la domanda un po’ alla larga, al fine di rispondere nel modo più completo possibile.

Il tipo di meditazione che sta prendendo piede in questo periodo è tipico della tradizione buddista ed è stato ribattezzato “mindfulness”, in quanto non esistono adeguati termini nelle lingue occidentali in grado di descrivere l’attività svolta durante una seduta; se però si vuole comprendere a pieno queste tecniche, a mio avviso è indispensabile parlarne utilizzando il linguaggio proprio del contesto che ha dato loro i natali.

Esistono davvero tantissimi tipi di pratiche contemplative, anche solo all’interno della tradizione buddista, ma che io sappia tutte si fondano sul più basilare degli esercizi: l’allenamento della concentrazione, una pratica che va sotto il nome di “Samatha”. Ho detto “concentrazione”, ma forse non è il termine più adatto, dal momento che la qualità che si vuole sviluppare è un tipo di attenzione continua e senza sforzo. In cosa consiste questo tipo di pratica? Essenzialmente si deve cercare di fissare la propria attenzione su un dato oggetto: può essere davvero qualsiasi cosa, dalla fiamma di una candela ad un cartoncino colorato, ma tradizionalmente si predilige l’osservazione del proprio respiro. Ci sono ovviamente ragioni spirituali che sottendono tale scelta, ma il motivo principale è molto pratico: il respiro è sempre disponibile e rappresenta un’àncora per il momento presente.

Tutto quello che si deve fare quando si pratica Samatha è dunque osservare il proprio respiro e nient’altro. Quando si viene distratti da pensieri o altre sensazioni, basta ristabilire gentilmente l’attenzione; è estremamente semplice, ma — come tutte le cose semplici — può risultare davvero difficile. Per fortuna con il tempo la capacità di mantenere un’attenzione continua si rafforza e l’esercizio, da frustrante che era, può diventare estremamente piacevole.

Per affinare sempre di più la propria concentrazione si dovrebbe spostare nel tempo il punto del proprio corpo che si osserva per monitorare il respiro: all’inizio in genere è l’addome, poi diventano le narici, per finire poi a concentrarsi sul pezzo di pelle che intercorre tra il naso ed il labbro superiore.

Questo esercizio può portare diversi effetti benefici, la tradizione buddista istruisce anche su come raggiungere diversi stadi di concentrazione, i quali vengono descritti da chi li ha provati (sì, sono realmente possibili) come qualcosa di inconfondibile, mille volte meglio del migliore orgasmo che si possa avere. Non ho compiuto ricerche approfondite riguardo il fondamento scientifico di queste esperienze, ma sembrerebbero correlate ad una de-regolazione della corteccia prefrontale analoga a quella che dà origine al fenomeno conosciuto come sballo del corridore.

Una volta che si è raggiunto un discreto livello di concentrazione si può passare, se lo si desidera, alla tecnica principale: Vipassanā, chiamata dagli anglofoni “insight meditation”. Per introdurre questo tipo di pratica è utile ricorrere ad una metafora. Immagina che la mente sia una pozza d’acqua increspata dal vento e resa torbida dai sedimenti che vengono sollevati da ogni tipo di agente esterno. Praticando Samatha la pozza viene portata in uno stato di quiete e i sedimenti si depositano, rivelando un’acqua cristallina, a questo punto si usa la meditazione Vipassanā per scrutare il fondale e vederne chiaramente la composizione.

L’attenzione che è stata diligentemente allenata, in questa seconda pratica viene messa all’opera per indagare la realtà. Ci sono vari approcci a questo tipo di contemplazione, ma tutti mirano ad una comprensione intuitiva di tutto ciò che compone la nostra esperienza. Personalmente uso una tecnica che ricorda da vicino ciò che la tradizione Zen indica con il nome “Shikantaza”: osservo tutto ciò che attraversa lo spettro della mia coscienza (sensazioni, emozioni, pensieri, ecc). È qualcosa che ritengo estremamente arduo da fare senza aver prima allenato almeno un po’ la propria concentrazione, soprattutto perché bisogna essere in grado di capire la differenza tra “pensare” e “osservare un pensiero”.

Ciò che in occidente viene oggi chiamato “mindfulness” lo vedo come un misto tra le due tecniche illustrate e ha come scopo principale la gestione di pensieri ed emozioni.

Dopo questo lungo, ma doveroso preambolo posso dire che la mia routine attuale è composta da 30 minuti di Vipassanā al mattino e 20 minuti di Samatha alla sera. Ovviamente può capitare (e capita) di non riuscire a fare entrambe, ma fino ad ora sono stato in grado di meditare almeno una volta al giorno.

Parlare di risultati può essere difficile, vista l’andatura in genere claudicante dei progressi che si ottengono tramite la meditazione. Per far capire ciò che intendo voglio citare la seguente storia Zen:

Uno studente andò dal suo maestro di meditazione e disse: “La mia pratica è orribile! Mi sento così distratto, mi fanno male le gambe, mi addormento continuamente. È un disastro!”

“Passerà”, rispose il maestro.

La settimana successiva, lo studente tornò dal suo maestro e disse: “La meditazione è fantastica! Mi sento consapevole di tutto, così in pace, così vivo! È meraviglioso!”

“Passerà”, rispose il maestro.

Mi vedo dunque costretto ad approssimare una media tra alti e bassi della mia pratica per poter illustrare i benefici duraturi che sono riuscito ad ottenere.

  • Penso molto meno. Il volume di quel tipo di pensieri incentrati su me stesso, il cui scopo è occupare i “tempi morti” rimuginando sul passato o anticipando eventi futuri, è diminuito in modo notevole. Quando mi capita di scivolare in vecchi percorsi mentali, lo noto molto in fretta e tendo automaticamente a tornare all’esperienza che sto vivendo, non perché io me l’imponga come obiettivo, ma perché il continuo rimuginare mi sembra di poco interesse, talvolta addirittura fastidioso.
  • Sono più consapevole dei miei impulsi, cosa che mi porta a gestirli meglio. C’è una grande differenza tra l’esplodere di rabbia e il notare l’irritazione crescere nel mio corpo. Inoltre scopro sempre più spesso che il vero motivo di alcuni miei atteggiamenti non è così evidente come sembra di primo acchito. In sintesi, vedo la (mia) realtà più chiaramente.
  • Sono molto meno attratto dalle forme di gratificazione istantanea. Attività quali bere alcolici, spendere ore su Internet senza motivo, usare in modo compulsivo WhatsApp, masturbarmi, videogiocare e mangiare schifezze non hanno più l’attrattiva del passato; è come se percepissi la loro inutilità di fondo. Spesso dopo aver svolto le summenzionate attività mi ritrovo con un grande disagio, come se le mie percezioni si fossero offuscate.
  • Sono molto più consapevole del ruolo che la paura gioca nella mia vita. Riesco spesso a scoprire quando le scelte che sento l’impulso di compiere sono in realtà meccanismi difensivi volti a mantenere lo status quo; ciò mi consente di evitare il più possibile scelte dettate dalla paura, uscendo quindi dalla mia comfort zone (con tutti i benefici che ne derivano). Questo punto credo sia una naturale conseguenza dei precedenti tre e mi sta dando un grande aiuto per contrastare la procrastinazione.
  • Il mio locus of control è più interno rispetto a prima. Mi capita sempre meno di lamentarmi di fattori esterni per giustificare i miei errori, ma allo stesso tempo non mi scaglio in demoralizzanti autocritiche. Ciò che è successo è successo, meglio affrontare le conseguenze del caso e concentrarsi sul passaggio seguente.
  • Mi accorgo di quanto spesso finisca per dispensare giudizi e, come reazione, la loro frequenza diminuisce giorno dopo giorno. Questo vale sia per critiche ad altre persone, sia per critiche a me stesso.
  • Ho capito che non sono una brava persona, ma non importa. Un conto è lanciarsi in speculazioni filosofiche e concludere che l’essere umano è inguaribilmente egoista, un altro è toccare con mano questa verità imparando a conoscersi davvero. Sulle prime è stato scioccante realizzare fino a che punto io sia egoista, ma poi ho imparato a distanziarmi dai miei pensieri e ho notato che meno giudico me stesso, meno giudico gli altri; meno giudico gli altri, più mi rendo conto che molti atteggiamenti che mi danno fastidio sono gli stessi che ho anche io: siamo tutti sulla stessa barca. Accettare il mio egoismo, invece di condannarlo, è stato ciò che mi ha permesso di accogliere anche quello altrui e aumentare la mia empatia. Guardare negli occhi il proprio Ego è il modo più efficace per ridimensionarlo, senza bisogno di fare alcuno sforzo; è tuttavia una lezione che sto ancora assimilando.

Al di là dei punti appena elencati, la più grande differenza tra il me stesso di due anni fa ed il me stesso attuale che posso con sicurezza attribuire alla sola meditazione è una profonda fiducia nella mia capacità di superare qualsiasi condizione avversa. Online ho trovato una massima che riassume alla perfezione questa rinnovata consapevolezza: “The only way out is through it”.

FR: Panoramica a dir poco perfetta. È chiaro che si tratta di una pratica che al contempo è potente e non costa fatica, ma come ci si avvicina in modo semplice e senza attrito a questa disciplina? Si scarica un’app, si legge un libro? Nonostante quanto appena raccontato, per molti può comunque risultare difficile prendere questa nuova abitudine.

JR: Abbiamo già menzionato “Headspace” e credo sia doveroso farlo di nuovo: la loro applicazione è fatta davvero bene e consente un approccio graduale alla pratica, declinandola in modo da essere particolarmente efficace per affrontare le diverse problematiche con cui tutti noi ci scontriamo su base quotidiana. È un eccellente inizio, ma suggerirei di sganciarsi progressivamente dalle meditazioni guidate, anche soltanto per abituarsi a sedere in silenzio e a non far dipendere la propria pratica da un’applicazione.

Un altro modo eccellente per avvicinarsi alla meditazione è leggere un buon libro a riguardo. “Search Inside Yourself” è l’ideale per il suo approccio pragmatico: l’autore descrive come effettuare i tipi di meditazione da lui suggeriti (praticamente tutti quelli che conosco), parallelamente ad esercizi atti ad implementare nella vita quotidiana le qualità che si cerca di coltivare tramite la seduta giornaliera; è una lettura informativa anche per quanto riguarda le ricerche scientifiche sulla materia trattata: l’autore — un (ex)ingegnere che lavora a Google — cita i risultati di diversi studi e suggerisce anche ulteriori letture integrative.

Ci tengo comunque a precisare che l’aspetto essenziale è sempre la pratica: tutto quello che serve davvero per iniziare è una postura comoda e l’attenzione fissa sul proprio respiro.

Nel caso sorgano dubbi logoranti o si vogliano indicazioni specifiche, credo sia buona cosa rivolgersi alla community /r/Meditation su Reddit (presso la quale sono piuttosto attivo) o magari, se l’interesse per questa disciplina dovesse aumentare in modo significativo, attivarsi per cercare un insegnante.

FR: Divagando leggermente, diverse ricerche sostengono che l’uomo tenda alla depressione dell’io, non all’esaltazione, e quindi a dare maggiore peso agli ostacoli e alle incertezze, meno alle conquiste. In un certo senso, una pratica come quella della meditazione, che invece porta in uno stato di quiete, felicità e accettazione, sembra in qualche modo innaturale per l’uomo, dunque una sua conquista. D’altro canto mi vengono in mente le persone che per un motivo o per l’altro tendono naturalmente all’esaltazione dell’Io e alla tranquillità. Persone che, almeno apparentemente, vivono la vita giorno per giorno e si godono il momento. Queste persone, se consigliassimo loro di meditare, probabilmente si farebbero una risata, visto che in un certo senso sperimentano già i frutti di un “atteggiamento meditativo”, lasciando che la vita scorra liberamente, non imbrigliata nel vortice dell’introspezione.

Che ruolo ha la meditazione in una vita tranquilla e priva di ansie — se esiste qualcosa del genere?

Ecco un altro estratto da Cambia l’abitudine di essere te stesso di Joe Dispenza:

Sembra che la natura umana sia tale da ostacolare qualsiasi cambiamento, fino a che le cose non peggiorano tanto da non riuscire più ad andare avanti. Ciò vale sia per gli individui sia per le società. Aspettiamo che sopraggiunga una crisi, un trauma, una perdita, una malattia o una tragedia e solo allora ci domandiamo chi siamo, cosa stiamo facendo, in che modo stiamo vivendo, cosa stiamo provando e in cosa crediamo, e iniziamo il cammino verso un vero cambiamento.

JR: Argomento complesso, provo a fornire una risposta il più possibile esaustiva.

Ciò che siamo è dovuto in gran parte dai nostri geni: i tratti fisici e comportamentali prevalenti sono quelli che hanno superato la prova del tempo, sono ciò che ha fatto sopravvivere la nostra specie. Le emozioni fanno parte dunque del set di strumenti affinati dalla selezione naturale per spingerci ad agire in modo consono alla diffusione del nostro patrimonio genetico. Volendo appiattire — a scopo esemplificativo — lo spettro di sensazioni da noi provate, possiamo essenzialmente trovare tre atteggiamenti di base: attrazione, repulsione e indifferenza.

Perché diamo così tanto peso alla negatività (repulsione)? Perché è utile avere ben chiaro ciò che assolutamente non deve accadere: l’emozione repulsiva più forte è senza dubbio la paura e svolge un ruolo chiave nella nostra sopravvivenza.

Il nostro cervello è però molto più complesso di quello di qualsiasi altro animale e presenta una modalità di funzionamento che è stata chiamata “Default Mode Network”. Quando la nostra attenzione non è impegnata in un determinato compito vengono attivate specifiche aree del cervello, le quali — ottimizzando tempo ed energia — vanno ad allocare le risorse disponibili verso qualcosa che merita la nostra considerazione. Come risultato ci troviamo spesso ad analizzare i problemi presenti nella nostra vita e veniamo trascinati, senza quasi rendercene conto, in una spirale di negatività.

Questi automatismi sono stati utili per la nostra evoluzione, ma non hanno avuto il tempo di adattarsi al modo in cui la nostra società è oggi strutturata: la paura è vitale per la sopravvivenza, ma quando viene applicata a dei modelli mentali si trasforma in ansia; il Default Mode Network permette di svolgere più attività contemporaneamente, ma incoraggia pensieri ossessivi.

Questa problematica è esacerbata dallo stile di vita odierno, ma non è qualcosa di peculiare della nostra epoca: le religioni prima e la filosofia poi si sono spesso preoccupate di risolvere i conflitti dell’animo umano. Il Buddismo da questo punto di vista è interessante perché, dopo aver postulato che la vita è sofferenza/insoddisfazione, fornisce una serie di istruzioni pratiche per superare la condizione di partenza, la principale delle quali è proprio la meditazione.

Possiamo dire quindi che le pratiche meditative elaborate dal Buddismo sono completamente contro-intuitive, poiché i nostri schemi comportamentali si sono evoluti in una direzione antitetica rispetto a ciò che ci si allena a fare durante una seduta. Non le definirei però come “innaturali” perché sfruttano le potenzialità del nostro cervello per migliorare la nostra vita, in modo del tutto analogo a ciò che fa la scienza in ogni aspetto del nostro vivere quotidiano. Sia la meditazione che la scienza sono conquiste culturali al servizio della nostra specie.

Chiaramente persone diverse hanno problematiche ed esigenze differenti, ma fatico ad immaginare uno scenario in cui meditare non apporti alcun sostanziale beneficio, soprattutto in un’epoca come quella odierna, in cui l’attention-span delle persone è ai minimi storici. Inoltre non pensare che se una persona agisce prevalentemente in modo spontaneo, questa sia libera da condizionamenti: abbiamo tutti delle problematiche, nessuno escluso. Le pratiche meditative sono strumenti utilissimi per liberarci da un po’ di zavorra e penso sia importante diffonderle tra la popolazione.

Tuttavia ritengo che prima di promuoverle acriticamente come panacea di tutti i mali (cosa che non sono) debbano essere comprese a fondo; ciò significa finanziare studi rigorosi e superare il complesso di superiorità diffuso nella cultura occidentale andando ad informarsi su ciò che è scritto in alcuni sūtra. Al netto di mistica e superstizioni si può risalire ad importanti casistiche e utilizzarle per comprendere meglio gli effetti di una pratica intensiva. Ricordiamo che l’obiettivo del Buddismo è l’Illuminazione: date le recenti scoperte riguardo gli effetti tangibili che la meditazione ha sul cervello, non possiamo permetterci di escludere a priori eventuali esperienze ad alto potere trasformativo.

Queste pratiche non sono state pensate come un semplice anti-stress: le si può usare come strumenti di crescita personale, ma se si va a fondo (magari frequentando dei ritiri) si scopre che un diverso modo di usare i propri sensi muta la comprensione della realtà circostante. Per questo ritengo sia importante continuare a condurre ricerche in merito e istruire la popolazione in modo adeguato su benefici ed eventuali rischi di una pratica intensiva. Sono estremamente entusiasta della meditazione, ma non voglio fare opera di evangelizzazione, voglio diffondere informazioni in modo completo e ciò significa anche ricordare che se qualcosa è abbastanza efficace per dare benefici, lo può essere altrettanto per causare danni.

In riferimento alla tua ultima domanda, mi ricordo di aver letto da qualche parte una citazione in cui qualcuno asseriva che se venisse insegnato ad ogni bambino di 8 anni come meditare, ci libereremmo delle guerre nell’arco di una generazione. Non sono altrettanto ottimista, ma basandomi su varie letture e sulla mia esperienza, mi sono convinto che pratiche incentrate su armonia ed equilibrio quali meditazione e yoga possano essere estremamente terapeutiche e funzionali ad una vita più gratificante ed una società più armoniosa.

L’armonia è ciò che cerchiamo di raggiungere, con mezzi più o meno efficaci, ma una volta ottenuta non si mantiene da sé: è qualcosa che va costantemente coltivato perché l’equilibrio lo si può perdere in qualsiasi momento, entrando quindi in crisi. Come ha ben detto Joe Dispenza nel passaggio da te citato, le crisi hanno un ruolo fondamentale nell’innescare grandi cambiamenti, la sofferenza è il principale motore del mondo e non è causata tanto da accidenti esterni, quanto da disposizioni interne a noi.

Molte delle persone che si avvicinano alla meditazione lo fanno perché stanno soffrendo e vogliono cambiare qualcosa nel loro modo di vivere; credo che la natura di questa sofferenza non sia da ricercarsi nella società, ma sia congenita nell’uomo e ha la sua origine nell’insoddisfazione cui siamo tutti soggetti, indipendentemente dalla personalità di base. Non credo sia indispensabile ricorrere alle pratiche meditative per vivere in modo sereno, ogni persona ha le sue peculiarità e se qualcuno trova congeniale, ad esempio, lo sport, chi sono io per dire che sta sbagliando e farebbe meglio a trovare tempo per sedersi ad osservare il proprio respiro?

Credo che tutti, anche chi conduce una vita “tranquilla e priva di ansie”, possano trarre benefici dalla meditazione, ma non credo (più) che tutti debbano essere spinti a percorrere questa strada. Ci sono altri percorsi che possono risultare altrettanto terapeutici e che forse risultano più facilmente percorribili da alcune persone; può sembrare strano sentire queste parole da chi fino a qualche mese fa consigliava di meditare per risolvere ogni problema, ma voglio sottolineare che la cosa davvero importante è come viviamo le nostre vite.

Sedere 30 minuti al giorno può trasformare il modo in cui vediamo noi stessi e gli altri, ma se non proviamo a portare la chiarezza coltivata in questo modo nella vita di tutti i giorni, che senso ha? Puoi raggiungere stati estatici capaci di rendere la tua concentrazione inamovibile, ma se invece di applicare i frutti della pratica rimani seduto a goderti le alterazioni del tuo stato di coscienza, cosa ti distingue da un tossicodipendente?

C’è un motivo se lo Zen definisce la pratica meditativa come “nulla di speciale”: non c’è reale distinzione tra la seduta ed il resto della tua giornata, ciò che conta davvero è l’atteggiamento mentale. Può sembrare un cavillo filosofico, ma è davvero molto importante tenerlo a mente di modo da non rendere la meditazione un attaccamento tra tanti. In modo esemplare un maestro Zen ha detto:

Se incontri il Budda per strada, uccidilo! Tu che cerchi la Verità, fai lo sforzo di liberarti da ogni immagine mentale! Non procedere cieco come una talpa! Ascolta le mie parole: Non c’è nessun Budda, nessun insegnamento, nessuna disciplina! Cosa stai cercando così incessantemente nella casa del tuo vicino? Non capisci che stai adottando verità altrui? Cosa cerchi che manca in te stesso? Cio che hai nel momento presente è della stessa sostanza di cui è fatto il Budda.

Nell’ottica Zen — che io ho sposato — la meditazione non è altro che uno strumento tramite cui realizzare che per vivere serenamente non si ha bisogno di nulla in più di ciò che si ha, nemmeno della meditazione in sé. Semmai bisogna spogliarsi di alcuni superflui strati protettivi accumulati nel corso degli anni, quegli strati si irrigidiscono e si moltiplicano quando si prova a strapparli via con forza, ma se ci si limita ad osservarli ed accettarli ecco che diventano più leggeri e morbidi, fino a cadere spontaneamente.

Quando si parla di certi argomenti le parole diventano spinose e le modalità del loro impiego variano considerevolmente a seconda della chiave di lettura, per questo viene sempre enfatizzata l’importanza della pratica: la meditazione funziona indipendentemente dal credere o meno negli effetti che vengono sponsorizzati.

Non resta che iniziare, 10 minuti al giorno; a meno che non si abbia troppo poco tempo, nel qual caso è meglio praticare per 1 ora al dì.

Puoi contattare gli autori su Twitter: Fabrizio, Jacopo.

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Fabrizio Rinaldi
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