Ammobiliarsi
Amore e Psiche
In casa è il caos e mi accorgo che la notizia di questo matrimonio si sta ancora
depositando nel mio corpo, da qualche parte in uno spazio incolto tra fegato e
pancreas. I parenti della sposa formicolano tra corridoi e stanze. Intercetto sua madre con lo sguardo mentre ripone un mazzo di fiori anonimo in un bicchiere di cristallo pieno d’acqua. Lo stringe come reggesse tra i palmi una reliquia.
Riconosco anche la voce di suo zio, che domanda concitato dov’è Elena,
scansando torsi ben vestiti.
Mi sembra di stare ai margini di un paese in guerra, tra braccia febbrili che
bruciano raccolti e scorte, stipando le case di tritolo, mentre alta si leva una
voce: «Siamo in ritardo! Dov’è Elena?»
Quando Elena me l’ha detto aspettavo il bus sotto la pioggia. Nella destra
impugnavo l’ombrello, nella sinistra stringevo il cellulare, che tenevo vicino
l’orecchio.
«A luglio mi sposo».
Mi ricordò quando, cinque anni prima, annunciò con tono fermo: «Ho deciso di comprare una libreria da mettere in cucina». E forse in fondo non c’è poi molta differenza tra lei che si sposa e un mobile che viene sistemato in una stanza.
Sono sicura che al riparo dell’ombrello rimasi in silenzio, e che di nuovo mi
disse: «a luglio mi sposo».
In seconda battuta, pensai all’ultima volta che ci eravamo sentite, sei mesi
prima. Mi parlava piano, sottovoce, perché lui, gallese, aveva studiato lo
spagnolo per un anno mentre era in università.
«Quindi vedi, crede di capire anche l’italiano. E questa cosa può portare a
fraintendimenti, poi si litiga e a me non va».
Non le avevo risposto niente. C’era troppa ossitocina in quella relazione per
sbatterle in faccia la dura verità. Il suo ragazzo era un coglione.
«A luglio mi sposo», mi ripeté ancora. «Non dici niente? Come ti senti?»,
incalzò. Un mio amico una volta mi ha detto: «Laura, la gente lo fa. Alcuni
perché ci credono, altri perché si fa. Qualcuno secondo me anche per arredarsi casa. A tutti si dice auguri».
E quindi tirai via il fiato alla pioggia e le dissi: «auguri».
«Ascolta Laura, ho dato un’occhiata ai tavoli del ricevimento…» la madre di
Elena si materializza davanti a me mentre me ne sto appoggiata allo stipite della porta del bagno. Mi poggia una mano sulla spalla con delicatezza e mi parla con falsa premura, «…sai, un tavolo a L non può essere organizzato a caso.
Bisogna pensare alle basi conversazionali, ai punti di snodo. Non posso avere
all’angolo una persona riservata come te, o è come avere un Frecciarossa che deraglia a Firenze. Se sei d’accordo ti farei spostare da un’altra parte».
Mi sorride e il suo sorriso sembra una paresi facciale. La guardo vuota.
Intorpidito e zoppo si fa largo nella mia testa il pensiero che le cose stiano accadendo intorno a me e senza di me. Di nuovo un coro di voci si alza: «dov’è
Elena?». Dov’è Elena che deve andare all’altare barocco? Dov’è Elena che
poserà le labbra su quelle di un uomo gallese che pensa di conoscere l’italiano
dopo un anno di spagnolo? Che lo bacerà davanti a un corpo esanime e
sanguinante appeso coi chiodi alla croce? Sbatto le palpebre mentre la vedo,
Elena. Stretta nell’abito da sposa la guardo alienata oltre la spalla di sua madre.
Mi viene incontro con i gomiti alzati mentre con le mani tiene su la gonna. Le
ricordo quelle mani, quando scavavano sotto la mia maglietta.
«Scusami, te la rubo un secondo», dice a sua madre. Poi mi spinge nel bagno e
si chiude la porta alle spalle. Il suo seno discreto si abbassa e si alza
rapidamente.
«Veloce Laura, che c’è poco tempo. Ti ricordi?»
«…di cosa?» le rispondo esitando.
«Di noi, Laura, di noi dio cristo. Di chi altro? Del sesso, delle camicie per terra,
la marmellata a colazione, di quando mi scrivevi quelle poesie del cazzo in cui
io ero Psiche e mi stringevo a te che eri Amore».
«Sì, mi ricordo», mi guarda con gli occhi pieni e io non posso credere che tutto
questo stia succedendo davvero. «Ma ricordo anche le urla e quando non ci
sopportavamo e tu mi stavi stretta e io ti stavo stretta e stavamo male. Ricordo
anche quando abbiamo litigato perché tu volevi un bambino e io no e il giorno
dopo mi hai detto che avevi deciso di comprare una libreria da mettere in
cucina. In quel momento ho scoperto che non ti capivo più, che non ti riconoscevo guardandoti per strada, che eri stata dentro ogni cosa e poi da
nessuna parte, tutto all’improvviso».
Scorgo dell’umido tra le sue ciglia, ma il respiro si assesta lento e la mia mente
inizia a coniare un pensiero che non condivido.
«Devo andare», mi dice prima che possa aggiungere qualunque cosa, e fa per
voltarsi.
«Ma sei sicura di voler proprio sposare lu…» mi spingo verso di lei ritrovandomi davanti al naso il suo indice alzato. I suoi occhi brillano, e negli
occhi brilla il tritolo ammassato nelle case dei paesi in guerra. Mi convinco di
vedere la cornea protettiva, pure se è trasparente, di percepire il diametro
dell’iride che cambia con l’illuminazione, di vedere i muscoli che si muovono, i circuiti nervosi che rilevano i miei colori, i tratti del mio volto. La guardo così e capisco di desiderarla ancora.
«Non dire un cazzo. Sono la sua Diana cacciatrice.»
Mi fissa solo un altro attimo in silenzio mentre questo nostro dramma si
consuma all’attenzione di un lavandino, un bidet e un gabinetto che assistono
muti e fermi, paralizzati sullo sfondo.
Poi Elena si volta.
E va a sposarsi e ad ammobiliarsi casa.
di Sarah Cipullo
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