Come l’acqua

Ammetto che sto arrancando

Fantastico!
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3 min readOct 19, 2020

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Cammino su un sentiero ciottolato in mezzo ad un bosco. Nel silenzio sento il suono del picchio, costante.
Qualche secondo di pausa e ricomincia, con il sottofondo del gracchiare delle rane lungo il ruscello. Dalla cavità profonda del terreno in mezzo al bosco sale un vento fresco che mi fa rizzare i peli sulle braccia.
Cammino, il sole fende le fonde degli alberi e regala qualche calda carezza. La mia testa è vuota, il mio corpo è un buco nero. Non mi sorprende osservare l’ambiente circostante senza veramente guardarlo, mi sento parte di quello che mi circonda.
Il buio si alza lasciando intravedere dalla finestra una luce pallida e lisa dalla notte, un panno lasciato fuori all’umidità per molti giorni. Mi alzo con gesti automatici, inciampo un paio di volte andando verso il bagno.
Ogni gesto che compio, ogni passo che faccio diventa automatismo, ma lo stesso non vale per il pensiero.
Le scelte, anche quella di ignorare una zanzara sono inequivocabilmente intoccabili.
E tutti i giorni miliardi di persone prendono scelte. Scelte per essere più felici, scelte che sono compromessi, scelte coraggiose. Scelte tristi.
Non importa cosa succede fuori, quando quello che ti muove viene dalle viscere.
La mia ferita è stata l’apice di un periodo lungo di frustrazione e stanchezza.
Ammetto che sto arrancando.
Ma non ho paura perché ci sono scelte che possono rivelarsi belle nel loro piccolo. Ogni momento doloroso porta nel ripiego delle sue tasche una sorpresa, qualcosa di imprevedibile, di incalcolabile. Ecco.
Non posso calcolare tutto quello che mi accade e mi accadrà, ma di questo non ho paura.
Tutto crollava a quel punto, piaghe che dovevano rimarginarsi.
Ora ho capito che posso prendermi cura di me. Ora che mi dico che ce la posso fare, ad infrangere il vetro ed essere libera. Libera dai giudizi, dai discorsi delle persone, dai loro gesti e dalle loro parole. Mi raccolgo sola, ad ascoltare cosa succede tra gli anfratti delle mie viscere. Cerco di lenire, di procedere con
attenzione massaggiando la cicatrice che porto con me da una vita con delicatezza. La pomata un po’ mi brucia. Ma ora posso muovermi, sentire il vento che mi accarezza il viso di nuovo. Il sapore di EN, che mi ha bruciato la lingua, è scomparso. Chiuso in un cassetto.
Guardo il mio orto, le piante di pomodoro alte quasi due metri che si appoggiano lievi sui pali a spirale.
C’è ancora qualche frutto, piccolo e maturo. Cadono se non si raccolgono in tempo, la pioggia li gonfia d’acqua e li rende rossi. Cerco anche io di assorbire tutto il calore del sole.
Mi affondo. Con le mani nella melma e il corpo immerso nell’acqua. È scuro e non riesco a distinguere le forme che mi circondano. Tutto è avvolto da un pulviscolo verde. Il mio cuore sobbalza e si ferma.
Prendo il coraggio di vedere il fondo, di osservare quello che c’è, immergere le mani e raccogliere pezzi dalle forme più inconsuete.
Torno a galla. Respiro. Porto con me sulla superficie quello che ho trovato.

di Rebecca Azzolin

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