Consapevolezza è libertà

di Arianna Capulli, da VIVA un quindicinale di Fantastico!

Fantastico!
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4 min readMay 8, 2022

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Ieri ho avuto l’opportunità di fare una diretta su Instagram con Costanza Cappelli (@la_connie), che abbiamo deciso di titolare “L’uso consapevole dei social”. Un argomento vasto, me ne rendo conto. Provo a riassumere quanto detto, corredato da alcune riflessioni, che non possono, per la natura del tema, essere esaustive.

Uno strumento assolve le sue funzioni. La funzione principale dei social network (seppur con diverse modalità piattaforma dipendenti), quella per la quale sono stati pensati (sicuramente non l’unica, a non voler essere ingenui) è favorire la condivisione, l’interazione, il confronto. È fondamentale conoscere lo strumento, conoscerne limiti e vantaggi, rischi e implicazioni relative al suo utilizzo. Lo strumento è unico per tutti, per milioni di persone nel caso dei social network. Non è pensabile questo si adatti, nelle sue funzionalità, a ognuno di noi. È possibile però adattarsi allo strumento, rinunciando alla pretesa di controllarlo (e con lui le persone che creano e pubblicano contenuti), imparando casomai a gestirlo.
Stigmatizzare i social network ci deresponsabilizza e questa rinuncia all’atteggiamento proattivo ha delle ripercussioni sul modo in cui li utilizziamo quindi su quello che proviamo.
Raccontava Costanza Cappelli, nel corso della diretta, di come a lei sia capitato di togliere il follow a persone che magari non avevano detto o fatto qualcosa di valutabile come universalmente sbagliato, ma che tuttavia, a lei, non era piaciuto. Utilizzare lo strumento consapevolmente ha a che fare proprio con questo: con la scelta. La scelta di utilizzarlo come riteniamo essere per noi più opportuno e meno dannoso, favorendo le nostre preferenze, rispettando le nostre esigenze, ascoltando i nostri bisogni.
Si sente sempre più spesso parlare di una tendenza al perfezionismo alla quale i social inciterebbero, soprattutto invogliando all’uso di filtri per cambiarsi i connotati e, onestamente, mi sembra questo sia così evidente da non giustificare quel condizionale. Mi domando: siamo sicuri però che i livelli di performance richiesti sui social (crea contenuti perché ci guadagni in visibilità, interagisci per fare engagement, cavalca la polemica perché anche questo genererà traffico, conta il numero di like per attribuirti valore) non siano equiparabili alla pretesa di una società, social a parte, che ci vuole sempre più performanti? Basterebbe leggere alcuni annunci di lavoro per verificarlo.

Del resto, se c’è una cosa che le polemiche degli ultimi giorni, da Kim Kardashian a Elisabetta Franchi, ci mostrano è proprio il fatto che quando guardiamo a quello che succede lì sopra e lo critichiamo con tutte le ragioni per farlo, stiamo criticando il dito che indica la luna. Domani ci sarà un altro dito a indicare la luna, ma la luna, quindi la matrice di quello che ci acceca mentre ci racconta che ci sta illuminando, resterà lì.

L’avvento delle stories temo abbia conferito ai social di Mark Zuckerberg un’aurea di verosimiglianza.
“Ti faccio vedere la mia vita e te la faccio vedere in presa diretta. Quindici secondi di realtà, di autenticità, di spontaneità”. Ma siamo davvero sicuri sia così? No e lo sappiamo, ma saperlo è possibile non basti perché, quando apriamo il social, magari nel tentativo di distrarci da uno stimolo interno e/o esterno che magari vogliamo ignorare o allontanare, non abbiamo sempre il tempo di indossare la lente del pensiero critico. Anche per questo motivo sentiamo parlare di dibattito polarizzato e polarizzante.

A tal proposito, un video che ho guardato di recente che mi pare descriva bene questo meccanismo:
Slavoj Žižek: Ideology with Sunglasses

Diviene quindi indispensabile farlo prima, prevenendo il rischio di distrarsi troppo fino a pensare che quello che vediamo è sempre la realtà, una realtà chiara, mai artefatta, in nessuna delle sue componenti. Un pensiero che spesso non è un pensiero consapevole, ma una lettura che il nostro cervello dà in modo analogico e non in modo analitico. L’atteggiamento critico è il presupposto per utilizzare il mezzo liberamente, esprimendo noi stessi, senza dover necessariamente rispondere alle aspettative di chi ci segue o a quelle che costruiamo nei confronti di noi stessi, per aderire a un modello predefinito. Non si può più dire niente (e posso anche, in parte, condividere l’appunto, se contestualizzato al rischio di essere sempre e costantemente fraintesi), ma si può ancora fare quello che non si dovrebbe poter fare. È una richiesta di performance anche doversi impegnare a non scivolare mai, per nessun motivo al mondo. Discriminare mentre si assumono persone non è scivolare, ma è commettere un errore grave, sul quale lo stato ha il compito di vigilare.

Consapevolezza non è perfezionismo. Consapevolezza è soprattutto messa in discussione.

Qui di seguito, uno stralcio di un articolo di Vice.

Secondo Jane Macfarlane, art director presso l’agenzia creativa The Digital Fairy, questo stile “anti-estetico” può essere visto come la progressione naturale del photo dump fatto con noncuranza — che è sembrato fiorire all’inizio della pandemia, quando le persone si sono messe a documentare la natura quotidiana delle proprie vite. “La pratica del foto dump è diventata la premessa dell’anti-estetica,” spiega. “Ha immortalato il casino delle nostre giornate e delle nostre vite, tutto ciò che non apprezzavamo prima della pandemia. In più, serve da strumento di falsa modestia: Persino gli scarti non filtrati della mia vita sono meravigliosi.

Come vedete, anche dietro la più benevola delle intenzioni, potrebbe celarsi il tentativo di portare il nostro giudizio verso un punto preciso, imposto dall’esterno.

Non lasciamo che sia uno strumento a scegliere per noi. Scegliamo piuttosto come utilizzare lo strumento. Domandiamoci: perché ho aperto Instagram o Twitter o Facebook? Cosa sto cercando? Come mi sento? Solo a quel punto, poi, agiamo. E, mi raccomando, monitoriamo il tempo di utilizzo.

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