Muro di parole

Intervista a Vanni Santoni da Fantastico! #4

Fantastico!
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9 min readFeb 22, 2021

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Visto che sono indeciso se partire con le domande all’autore o all’editor, la prendo da più lontano, sperando di non tirarti per il colletto su argomenti non graditi. Il 2020 ha segnato in maniera violenta la scomparsa dei corpi nella costruzione della collettività, costringendoci ad utilizzare il digitale per la socialità, per sentirsi all’interno di qualcosa più ampio delle nostre singole vite, case, faccende. Entrambi abbiamo vissuto felicemente il mondo dei rave, del ballo e di quel rito catartico che rappresenta per la comunità. Quanto edonismo comunitario abbiamo perso nella nostra società in questi anni?

Moltissimo, moltissimo. È importante ricordare che i primi rave non subivano alcuna repressione, per la semplice ragione che non c’è niente di vietato in un gruppo di persone che si riuniscono per ascoltare musica e ballare. Non ne subirono per almeno cinque anni in UK, fino al famoso processo per il mega rave di Castlemorton del 1992 che innescò la serie di eventi che portò, nel 1994, all’approvazione del Public Order and Justice Act, una legge che per la prima volta vietò i raduni in base al tipo di musica che vi veniva suonata - un caso con un solo precedente: il regolamento del ministero della cultura nazista contro il foxtrot, che a loro dire «stimolava istinti bestiali»; non ne subirono per altri sette in Francia (la legge Mariani è del 2001) e anche da noi non si cominciò a vedere una reale repressione almeno fino al 2005, repressione che peraltro in Italia ha sempre avuto contorni - lei sì - illegali, dato che il modus operandi che pian piano si affermò fu quello di denunciare per occupazione di terreno tutti i partecipanti identificati ben sapendo che sarebbero stati poi assolti, ma intanto intimidendoli con la denuncia e il processo.
Questo inasprimento si deve naturalmente al consueto panico moralista scatenato dai media ogni volta che emerge un fenomeno giovanile nuovo e “dal basso” - è accaduto col rock, con gli hippie, col metal, col punk, coi giochi di ruolo, coi fumetti horror, coi videogiochi, addirittura col jazz (pensa che la parola raver venne usata per la prima volta dal Daily Mail per il Festival di Beaulieu del 1961 per gli adolescenti infiammati dai gruppi jazz) - ma anche alla progressiva perdita di spazi di libertà dovuta all’effetto incrociato della retorica del decoro e della conquista privatistica degli ambiti di incontro e aggregazione: ben prima dei rave era normale avere festival liberi che duravano anche due settimane, come in Italia l’On the road di Pelago o i ritrovi alla Valle della Luna, per tacer del fatto che le piazze delle grandi città erano sempre piene di ragazzi con chitarre, djembè e bottiglie di vino.

Questa recente privazione può rimettere in discussione il bisogno di godere che forse era andato svanendo?

Sarebbe bello, ma temo di no. Le privazioni e le chiusure portano solo a nuove privazioni e chiusure. Sono le rivendicazioni e le riappropriazioni a creare, o ripristinare, spazi di libertà.

La prima cosa che ho letto a tuo nome è stato proprio Muro di casse. Ce lo siamo consigliati tutti in quel giro e devo ringraziarti pubblicamente. Il rave è un mondo che è stato spesso mitizzato, ma soprattutto perseguitato, diventando un esempio di come il godere sia inviso alle autorità. L’evasione estatica di un rave è diversa da quella di un buon libro, ma devo dire che entrambe le sensazioni richiamandole a memoria, mi fanno sentire come possibile una via di fuga, di crescita. Da qui un pensiero sciocco che vorrei condividere con te, senza voler essere un complottista orwelliano: sarà mai che questa incapacità sistemica nel sollecitare ed incuriosire alla lettura sia dentro quel filone di negazione del piacere e della fuga che appassiona così tanto il tardo-capitalismo?

È un punto interessante: in effetti in Italia si fa sempre fatica a presentare la lettura come un godimento. Le nostre (di solito fallimentari) campagne di promozione della lettura mettono quasi sempre l’accento sugli aspetti formativi della faccenda. Non si dice «Leggi, è ganzo», si dice, o si lascia intendere più un «Dovresti leggere». È curioso, visto che qualunque lettore fortissimo è diventato tale quando è incappato in un libro che lo ha esaltato. Per questo credo che la chiave reale per la promozione della lettura siano le scuole, e lì la disponibilità di molti libri tra cui scegliere liberamente, al di là di quelli previsti dal programma.

Ho iniziato chiedendoti del desiderio perché, dopo un periodo di ambizioni eterogenee tra cui voler fare lo scrittore di professione, ho affrontato un percorso con me stesso fatto di domande relative ai miei desideri, scoprendo che in fin dei conti la mia soddisfazione coincideva più spesso con la mia attitudine: lavorare sulle parole altrui, costruire percorsi condivisi. Non che un libro non sia la costruzione di un percorso, però è vero che spesso viviamo all’ombra dei nostri miti e di ambizioni che ci posizionano in società. Pensi sia sufficiente guardare all’impegno profuso per validare la propria ambizione artistica?

Domanda complessa, perché esistono molti tipi di ambizione artistica, molti modi per fare arte e molti differenti canali di validazione. È chiaro che il solo impegno in teoria non basta, dato che un’opera d’arte deve passare dal riconoscimento che giunge dalla sua fruizione, ma dall’altro lato sappiamo bene come ci siano stati fior di artisti che hanno continuato a lavorare nell’oscurità, di fatto “auto-validandosi” o ottenendo un riscontro positivo solo da una piccola cerchia di colleghi, finché il loro valore è stato riconosciuto da tutti dopo la morte o quando erano molto anziani. Allo stesso modo la storia di ogni arte è piena di figure di primo piano che per decenni sono state riconosciute solo dagli addetti ai lavori e dal pubblico più avveduto, così come altre che hanno avuto un enorme successo di pubblico e poi sono finite dimenticate. E naturalmente c’è anche chi ha successo ed è effettivamente bravo, e moltissimi che non trovano riconoscimento perché i loro lavori non valgono niente. Se ne desume, quindi, che ognuno può e deve fare come gli pare, purché ci metta tutto il suo impegno. Non dico questo per facile retorica “lavorista”, ma perché la vera ricerca artistica - e quindi i risultati, che siano riconosciuti o meno - non può prescindere da un coinvolgimento totalizzante. Altrimenti è un hobby: non c’è niente di male negli hobby, ma non sono la stessa cosa.

Vengo quindi al tuo recente La scrittura non si insegna, che già dal titolo si pone in maniera chiara nel paradosso di voler indicare un tuo metodo. A me è capitato in passato, quando lavoravo nello scouting musicale, di partecipare a conferenze in cui farcivo i presenti di miei teorie e dieci minuti dopo al bar pensavo che in fin dei conti era tutta fuffa (a mio favore devo ammettere che molti gradivano quel che dicevo). È un libro che nasce da una tua inclinazione al bisogno di avere metodo o è a sua volta un’imposizione metodologica? Non so se mi sono spiegato…

Il “metodo” del mio pamphlet sulla scrittura può essere riassunto in una frase: «leggi moltissimo e scrivi tutti i giorni», il che se vogliamo è banale, ma si sa che ovvietà e saggezza a volte si tengono per mano. È leggibile come un contro-metodo solo perché gli scaffali delle librerie sono piene di risibili manuali in cui si promettono formule magiche per imparare a scrivere narrativa, quasi sempre dividendo per “moduli” i vari aspetti e le varie componenti di un romanzo o di un racconto, il che è assurdo dato che tutto prende forma in contemporanea e attraverso interazioni profonde tra stile, forma e struttura.
La scrittura non si insegna nasce, molto semplicemente, dalla richiesta da parte di minimum fax di mettere su carta i punti salienti dei miei corsi, che si erano guadagnati una certa fama nell’ambiente per l’approccio eterodosso e per la mole consistente di letture che assegnavo agli studenti. Questo, a sua volta, nasce dal lavoro che ho fatto su me stesso per acquisire, più che un metodo, una mentalità. Non si può insegnare a scrivere, ma si può insegnare a ragionare come uno scrittore.

La cosa che mi appassiona dei libri più tecnici e metodologici è che l’autore può guardarsi indietro e decidere di riaprire quel cantiere, aggiornandolo a quello che ritiene più valido qualora lo ritenga necessario. Non pensi sarebbe bello poterlo fare anche con i libri di fiction?

C’è chi lo ha fatto, ad esempio Giuseppe Genna che ha licenziato ormai quattro versioni del suo Assalto a un tempo devastato e vile, aggiornando ogni volta il testo. Esperimento interessantissimo. Da parte mia posso dire che le tre edizioni di Personaggi precari uscite negli anni sono molto diverse nei contenuti, ma essendo un libro che nasceva da selezioni di testi brevi facenti parte di un archivio molto più grande che continuava a crescere mentre uscivano le varie edizioni, è un’operazione certamente meno radicale, più simile a un semplice aggiornamento.

Ti faccio l’ultima domanda seria, poi vorrei chiudere con un paio di cose più leggere. Nello scorso numero, chiacchierando con Fabio Stassi di minimum fax, abbiamo discusso anche del bisogno di tornare ai personaggi, alla loro centralità e al bisogno di innamorarsene e far innamorare il pubblico. Ci siamo un po’ persi dentro “la grande storia”. Come si mette assieme un buon personaggio secondo te? C’è un personaggio che potresti dire essere il tuo preferito?

Come detto sopra, non credo nelle formulette: un buon personaggio letterario emerge scrivendo, non lo si pianifica prima, e la sua “bontà” non è scindibile dal contesto in cui lo si colloca (inclusi gli altri personaggi), dal modo in cui sono scritte le sue azioni, dalla struttura che si sceglie poi per quel testo, eccetera eccetera. Ho i miei preferiti tra i personaggi dei miei libri passati, ma si sa che i preferiti dell’autore non sempre corrispondono a quelli più amati dai lettori; inoltre tendo sempre a guardare avanti e, quindi, a fare in modo che il mio personaggio preferito sia sempre uno di quelli del romanzo che sto scrivendo. In questo momento sono alle prese con Cleo, al secolo Cleopatra Mancini, la protagonista di un libro ancora abbastanza in embrione, il cui percorso è abbastanza emblematico: nata in Muro di casse come personaggio-funzione, quindi dotata di tratti minimi definiti in base al solo scopo che doveva assolvere - fornire, dialogando con la voce narrante, una lettura sociologica e materialista del fenomeno dei rave - ha chiesto spazio: prima si è presa una novella (Emma&Cleo, uscito nell’antologia L’età della febbre pubblicata da minimum fax nel 2015) e ora, con mio grande stupore, è diventata la protagonista del romanzo che sto scrivendo. Mi pare , pertanto, che la letteratura - se è onesta o almeno prova a esserlo - sia sempre, anche nei libri più “programmatici”, un processo di esplorazione di possibilità, nonché di continua costruzione e risoluzione di problemi, e per questo non possa prescindere dal lasciare che i personaggi nascano da soli, e poi dal dar loro un certo grado di libertà.

Quanto c’è, se c’è, di estatico nella solitudine imposta dal mestiere dello scrivere?

Niente! Scrivere è fatica e lavoro e capocce che sbattono sul muro finché non se ne cavano i ragni, nulla a che vedere con l’estasi, che invece si può a volte raggiungere leggendo.

Il tuo muro di casse preferito?

Ce ne sono tanti. Affettivamente forse quello dei Tekno Mobil Squad al Livello57 a fine anni ’90: quante serate, quando si partiva in treno dal Valdarno per Bologna; oppure quello Oblyk/D’Froké al teknival di Pinerolo del 2007 per l’esperienza non solo estatica, ma letteralmente mistica che ho vissuto lì davanti; o ancora quello Kernel Panik/Acid Drops a Torino, per tacere dei vari Tequinox. O quelli delle feste Hekate e Desert Storm e Tomahawk all’Osmannoro, molto amore anche per i vari linkup Mad Factory/THC/Undergroundsystem, ma forse no, forse il mio muro di casse preferito è uno dei tanti muri anonimi, magari piccoli o fatti suonare alla bell’e meglio, che tuttavia, comparendo nei luoghi più improbabili, immancabilmente li trasfiguravano.

di Alberto bebo Guidetti (in Fantastico! #4 inverno 2021, pag. 11)

Vanni Santoni classe 1978, dopo l’esordio con Personaggi precari, ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza, 2011), la saga di Terra ignota (Mondadori, 2012–17), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza, 2017 candidato al Premio Strega), I fratelli Michelangelo (Mondadori, 2019). Scrive sul “Corriere della Sera”. Nel 2020 è uscito per minimum fax il suo saggio La scrittura non si insegna.

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