Ventilatore

Cercare il senso

Fantastico!
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5 min readFeb 8, 2021

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Il sonno mi tirava per i capelli, intontita dall’erba e dall’orgasmo, lo sentivo salire lungo la nuca, piegarmi il collo e affondare lento nelle orecchie. La vista sfuocata, tentavo di oppormi al sonno, chiudevo le palpebre e un attimo dopo le riaprivo, per inseguire ancora l’attimo magico: il momento in cui il reale si sperde e tutto è pace. Invece di abbandonarmi alla notte, volevo restare in attesa per sentirmi cadere all’indietro. La nuca calda stretta nella morsa del cuscino e la quiete, tutta quella quiete che non è di questo mondo.

La via era lunga, dritta, non c’era una rotonda, né una curva, proseguiva a perdita d’occhio, un rettilineo di asfalto che portava fuori città. Ai lati le case, con le finestre, le luci e i balconi ad affacciarsi sulla via. Una vecchia al primo piano stendeva le lenzuola bianche, venivano giù dritte e tese nell’aria gelida. Quattro gradi e lei stendeva sui fili, speranzosa che un raggio di sole benedicesse il bucato, dopo la confessione in lavatrice. Ego te absolvo a peccatis tuis. Cammino lungo la via e gli edifici lentamente rimpiccioliscono, si allargano, si abbassano, l’asfalto lascia spazio alla terra battuta, nuvole di polvere si sollevano al passaggio dei motorini. I fili per stendere si trasformano in fili della corrente, sospesi a mezz’aria, fissati alla bell’e meglio ai pali. All’angolo un chiosco sudicio vende ceviche. Fidati del naso. Fidati solo del tuo naso. Mi sfilo per un attimo la mascherina, ma un colpo di vento la porta via, la inseguo, mi manca il fiato. È l’asma, no, è il covid, no stronza, sei a 3000 metri. C’è così tanta luce. Faccio per tornare sui miei passi, ma un gregge di pecore staziona in mezzo alla strada, sono così buffe. E puzzano, puzzano terribilmente. La polvere che sollevano si deposita sul vello. Non riesco a passare, c’è così tanta luce. Mi schermo gli occhi con la destra, mentre interrogo il pastore con lo sguardo: l’atacameño è arso dal sole, stringe gli occhi e alza le spalle.
Dietro di lui il chioschetto col ceviche. Due ragazze bevono una birra dall’altra parte della strada. Il sole cala lentamente, mentre aspetto che le pecore si ritirino. Se ne andranno, devo solo aspettare, contare le rughe dell’atacameño. Pochi denti, ma tante rughe. Poi abbasso lo sguardo e fisso le sue mani ruvide, aride, come la terra che ribolle sotto i piedi.

In un angolo buio della stanza, su una sedia, campeggia un ventilatore. È gennaio, ma c’è un ventilatore in camera. Le lenzuola sono sfatte, i vestiti ammonticchiati sul baule sotto la finestra. Il calorifero è ancora caldo. Che ora è? Fisso il pavimento, le piastrelle fredde delle case vecchie, faccio il giro del letto, dalla parte opposta rispetto alla porta c’è una grossa macchia scura, il figlio sulla soglia dice: «Non si è accorto di nulla. Vede, è stato tutto così improvviso».

A qualche chilometro da qui i geyser sbuffano contro il cielo. Il mio stomaco brontola, voglio solo una birra ghiacciata e del ceviche da mangiare in piedi al bancone, poi tornerò a casa. Attraverserò la piazza, passerò sotto i rami del grande albero, terrò la chiesetta bianca sulla destra e poi pedalerò fino a casa. Fino a casa.
Stento a riconoscerla. Mi confondo, spesso la confondo. Cammino sul bordo della bottiglia, mi sento tirare da un lato e dall’altro. Né carne, né pesce. La casa sta in mezzo, come me, ondivaga e confusa. Sono di nessuno, come il deserto, gli oceani e le montagne. Luoghi da cui gli umani sono banditi. Unisco spazi tra loro confinanti, ma resto sempre sul limite estremo, ed esterno. Non mi addentro nel territorio, perché non ne faccio realmente parte. Vivo di odori e suoni che riconosco come familiari, ma non mi appartengono mai per davvero. Sono di nessuno, mentre cerco le chiavi per aprire l’ennesima serratura e fingere ancora che sia casa. Nel deserto, la notte, l’orizzonte smette di sfrigolare, si fa di ghiaccio. Una lingua di piacere che si muove lesta nell’intercapedine delle ore del tramonto e dell’alba, a tingere di rosa la terra.

Il ventilatore è sulla sedia. È rimasto lì, immobile, per mesi. Sarà stato usato per l’ultima volta forse ad agosto o settembre, con l’ultimo caldo d’estate. I bambini a contare i passi in cortile “un due tre stai là”, la finestra aperta e il ventilatore che ronzava e girava, da destra a sinistra, da sinistra a destra, consegnando i rumori della città, il vociare della vita là fuori. Come una radio collegata al caseggiato. Nella scala A qualcuno non vuole fare i compiti, mentre qualcun altro esce sbattendo la porta, un monito lo insegue lungo la tromba delle scale. Verso le sette di sera era tempo di mettere su la cena. Allora si alzava, spegneva il ventilatore e, trascinandosi appresso le ciabatte, apriva lo sportello del frigorifero: la lucina a illuminare il tinello, mentre il giorno andava a svanire dietro l’ombra scura di un altro condominio. Da quando te ne sei andata non trovo più i tuoi capelli nel lavandino. Componevano strani disegni sulla ceramica bianca. Li guardavo annoiato. All’epoca le piastrelle del bagno erano ancora linde, erano nuove.
Ora sono sbeccate, scolorite. Il tempo si è portato via i colori e l’aria d’estate gira solo quando accende il ventilatore.
Ma il ventilatore è fermo da troppo tempo. Un’opera d’arte statica che regge solo ore vuote.
Ho cercato un senso, non l’ho trovato.
Sulle sue pale sono caduti mesi, ore, minuti, secondi di polvere e silenzio. È immobile come le cose eterne.
Non appartiene più a questo mondo fatto di tempo, scadenze, richieste. Il ventilatore non verrà più acceso.
La pala giace inerte dietro la grata. Alla base un tasto è più consumato degli altri: velocità 2, a metà strada tra l’indolente vorticare del tasto 1 e il turbinio del 3.
Ho cercato il senso, non l’ho trovato.

Portami a casa, facciamo l’amore, ma lascia poi che il sonno mi tiri i capelli da dietro.

di Urfidia

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