NFT ovvero arte e collezionismo gettonati
Come le blockchain realizzano la scarsità artificiale alimentando desideri reali (e un mercato redditizio).
Un collage digitale dell’artista Peeble, “Everydays — The First 5000 Days”, venduto a un’asta di Christie’s a 69 milioni di dollari. Una semplice figura pixellata generata automaticamente venduta a circa 7,5 milioni di dollari (nella criptovaluta ether). La musicista e artista Grimes ha guadagnato centinaia di migliaia di dollari vendendo la sua collezione di opere digitali. Il CEO di Twitter Jack Dorsey ha messo all’asta il suo primo tweet, raggiungendo quotazioni da milioni di dollari. Carte collezionabili dei giocatori NBA basate su blockchain hanno generato ricavi per 230 milioni di dollari.
Questo boom dell’arte digitale e del collezionismo ha un nome: NFT, Non Fungible Token. Approfondiamo l’argomento, cercando di capire genesi, filosofie, opportunità e problemi legati a questi “gettoni” basati su blockchain.
Cosa rende unica un’opera d’arte? La risposta è apparentemente semplice. Il fatto di essere…unica. Un quadro di Klee o una scultura di Giacometti sono un’originale e non duplicabile espressione fisica di un pensiero creativo. L’unicità crea valore.
Esiste anche una versione “debole” dell’unicità, la scarsità. Le opere grafiche in pittura, i multipli in scultura sono esempi di oggetti che racchiudono valore non solo per la fama dell’artista ma anche per il fatto che sono appositamente realizzati in tiratura limitata. Sia pur pensati per “democratizzare” l’arte e per dare a tutti (o quasi) “la possibilità di arricchire la propria cultura visiva”, come sosteneva Bruno Munari, questi oggetti soddisfano anche il piacere di possedere qualcosa di esclusivo.
Non solo l’arte coltiva la scarsità “artificiale”: il design, la moda, la musica, l’industria audiovisiva creano edizioni limitate o speciali per appassionati, fan, collezionisti o persone che vogliono “distinguersi”. La fotografia è un altro esempio: ce ne serviremo in seguito per spiegare alcuni meccanismi che entrano in gioco nell’attribuzione di valore di oggetti apparentemente simili.
Nell’era digitale, dove la replicabilità e la duplicabilità “ad infinitum” sono la regola, gli artisti che creano opere pennellando pixel si sono ingegnati per renderle “uniche” e desiderabili.
Una svolta si è avuta con la creazione della tecnologia blockchain e dei token non fungibili o NFT, Non Fungible Token.
Cosa sono gli NFT?
Un bene fungibile è un bene inter-scambiale con altri dello stesso tipo: il denaro è un bene fungibile, una moneta da un euro è uguale — per scopo e valore — a tutte le altre monete da un euro. Un quadro d’autore non è un bene fungibile perché non duplicabile o sostituibile con un altro: ogni bene è unico. In realtà esiste una componente soggettiva che risulterà importante per spiegare gli NFT. Un francobollo può essere considerato banale e intercambiale per qualcuno, ma unico per un collezionista.
Per ampliare il concetto al mondo digitale, un bene non-fungibile è anche uno specifico dominio internet. Questo esempio costituisce però una sorta di eccezione, perché in generale gli oggetti digitali sono facilmente duplicabili: pensiamo a un’immagine jpg di cui possiamo fare un’infinità di copie identiche.
Possedere un’immagine digitale è quindi un concetto labile così come l’attribuzione certa dell’immagine (o del video, dell’mp3 o di qualunque altro artefatto basato sui bit). Questo è stato sempre un limite per l’arte digitale o per la creazione di oggetti collezionabili virtuali (“collectibles”): valore e possibilità di compravendita ne sono compromessi.
Le blockchain, come quella alla base dei bitcoin, sono registri distribuiti, decentralizzati e immutabili in cui vengono memorizzati dati che rappresentano criptovalute, transazioni ma anche altri asset digitali (puri o rappresentativi di asset fisici) identificati da token, gettoni.
Nel 2017, la blockchain pubblica Ethereum ha visto nascere uno standard specifico e aperto, l’ERC721, che permette di creare token non fungibili. Possiamo immaginare uno di questi token come un contratto — anzi uno smart contract — che implementa un certificato di autenticità e di proprietà associato a un certo bene digitale (o fisico).
Con questo sistema si riesce a creare unicità o scarsità anche per gli oggetti puramente digitali, rendendoli collezionabili.
Immaginiamo di essere un’artista che crea un’opera digitale come una gif animata. Attraverso una piattaforma dedicata, procede al “minting” (conio) di quest’opera, affiancando indelebilmente al file dei metadati che ne garantiscono la paternità e l’unicità. Il token risultante, il “certificato”, potrà essere venduto, per esempio attraverso un’asta. Chi se lo aggiudica ne diventerà proprietario.
Attenzione però. Il valore dell’opera ora risiede nel token. Possono esistere copie di quella GIF, ma è l’NFT che certifica l’unicità di quella particolare versione. Se un altro collezionista (o un museo) vuole proprio quell’opera “firmata”, deve acquistare quel NFT dal proprietario. Oltretutto, visto che la catena di proprietari sarà memorizzata nel token, quella GIF potrà acquisire più valore nel corso del tempo perché, ad esempio, per un certo periodo è stata nella collezione digitale di Lady Gaga.
Con lo standard ERC721 e con altri che sono nati in seguito è possibile anche generare tirature limitate e questo li rende perfetti non solo per opere artistiche ma per ogni tipo di oggetto da collezione, come le assai redditizie figurine (digitali) dei calciatori della spagnola Sorare.
Un’altra caratteristica che rende questi token particolarmente interessanti è la possibilità di codificare nel contratto una percentuale a favore dell’artista/creatore per ogni vendita successiva: ragion per cui gli NFT sono sotto osservazione tra gli operatori dell’industria musicale e dell’audiovisivo, proseguendo un percorso di esplorazione dell’utilizzo della blockchain di cui avevo iniziato a scrivere tre anni fa.
La scarsità artificiale alimenta la desiderabilità (naturale)
A prima vista questo sistema di generazione algoritmica di scarsità (e quindi di desiderabilità) di un’opera digitale può suscitare più di una perplessità: come può risultare appetibile un insieme di bit simile a molti altri solo perché dei metadati (altri bit) lo certificano in qualche modo “speciale”?
Pensiamo però a un paio di scarpe da basket. Un modello uguale a migliaia di altri ma con una differenza: un certificato che le accompagna dichiarando che sono state indossate in una certa finale NBA da Michael Jordan.
Facciamo un esempio più sofisticato, la fotografia. A partire dai negativi possono ottenersi molte copie di una certa fotografia. Ma alcune copie valgono più di altre. Perché? Perché magari una firma o un certificato assicurano che quelle sono le prime copie, sviluppate direttamente dall’artista.
La vena di assurdità che può emergere in un mondo dell’arte (e del marketing) ossessionato dall’autenticità era comunque già sfruttata da Andy Wharol decenni fa. In un processo di tokenizzazione ante litteram invitava il pubblico a portare qualsiasi oggetto nella sua factory, in modo che potesse essere certificato come “Wharol work”.
Nel caso degli NFT, si tratta di un differente esercizio di astrazione, sempre collegato al desiderio di molti di possedere qualcosa di raro.
Un collettivo chiamato Injective Protocol ha voluto, in maniera provocatoria, estremizzare il concetto di valore che un NFT garantisce a un’opera ad esso collegata. Acquistando e poi bruciando una stampa di Banksy certificata attraverso un NFT, il collettivo ha sostenuto che ora il valore dell’opera fisica distrutta è stato interamente trasferito nel token (aggiornamento: l’NFT, che certifica un’opera che non esiste più, è stato venduto per 382.000 $).
In questo momento, inoltre, la rarità si manifesta anche nella consapevolezza di sperimentare l’infanzia di questo collezionismo; si presuppone che i primi NFT acquisiranno maggior valore nel tempo, come i primi dagherottipi o le prime Bibbie stampate con il sistema Gutenberg. I CryptoPunks, tra i primi oggetti digitali collezionabili, sono semplici figure di 24x24 pixel generate algoritmicamente. Nati nel 2017 da un’idea dei Larva Labs, usano un token ERC720 modificato che ha ispirato il successore ERC721. Hanno quindi un valore “storico” e la vendita del cryptopunks di cui abbiamo scritto all’inizio potrebbe essere legata a questo fenomeno.
Per le bizzarre dinamiche psicosociali che possono attivarsi, peraltro, c’è chi non esclude che un’opera digitale acquisti tanto più valore quanta più gente decida di averne una copia. Tornando alle scarpe da ginnastica, il fenomeno “Lidl” vi ricorda qualcosa? Questo meccanismo in cui molte persone vogliono possedere quello che già hanno molte altre persone credo si chiami “moda” (alle volte “psicosi”).
Per tutte queste ragioni, comunque, si sta assistendo nelle ultime settimane a un boom nel volume di mercato degli NFT e nelle vendite all’asta con cifre a 6 o sette zeri.
Dal 2017, secondo il sito cryptoart.io, sono stati venduti quasi 122.000 opere d’arte digitali certificate via NFT (non si tiene conto dei collectibles) per un controvalore di più di 338 milioni di dollari.
Anche altre blockchain, come Eos, Neo e Tron stanno rilasciando i loro token NFT per incoraggiare gli sviluppatori a realizzare applicazioni e marketplace.
Vediamo più nel dettaglio qual è il processo che associa token NFT e artefatto digitale.
Dov’è la mia opera digitale? On-chain, off-chain
L’opera e i metadati associati possono essere memorizzati nella stessa blockchain (on-chain) durante il minting. In questo caso il token e l’opera sono permanentemente “fusi” nel codice e disaccoppiati dal ciclo di vita e dal destino ultimo di ogni applicazione, sito o piattaforma correlati. Una cosa importante per un asset “artistico”, che ambisce prevalentemente ad avere un lungo arco temporale di vita.
In più i metadati possono cambiare in accordo con la logica in evoluzione della blockchain.
Certo, pensandoci, il fatto che l’artefatto digitale sia replicato su tutti i nodi della blockchain (a causa della sua natura distribuita) lascia spazio a qualche ulteriore considerazione sul concetto di unicità o scarsità.
In realtà questa soluzione non è praticabile, se non per immagini estremamente semplici e “leggere”.
Perché? Usare Ethereum come sistema di storage è costoso. Per memorizzare un kilobyte occorrono 640k gas, dove il “gas” è un’unità di misura legata al valore dell’ether: attualmente un kilobyte costa 120 euro circa. Memorizzare un MB costerebbe quindi 120.000 euro!
Gli artefatti generativi di Autoglyphs, un altro progetto dei Larva Labs, sono tra i pochi esempi di NFT con opera on-chain. I loro cryptopunks citati precedentemente sono invece memorizzati su un server proprietario.
Le piattaforme dedicate agli NFT preferiscono la soluzione off-chain. L’opera è memorizzata al di fuori della blockchain. L’NFT contiene, come “puntatore”, l’URL del file dell’immagine.
Questo sistema origina tutta una serie di problemi. Innanzitutto l’URL può cambiare, per i motivi più diversi. A chi tocca aggiornare il puntatore? Al creatore? All’attuale proprietario? Lo storage esterno può essere una cloud, un server centralizzato, un servizio come Google Drive o Dropbox o addirittura un server casalingo. Se succede qualcosa e il file con l’opera viene modificato o cancellato, cosa succede? Nel secondo caso rimane un NFT senza più un’opera associata, come un certificato di proprietà di un dipinto andato distrutto in un incendio. A chi tocca la responsabilità della custodia dell’opera? Qual è il controllo che il proprietario dell’NFT ha sull’opera, se questa risiede su un server centralizzato di proprietà di una società (come nel caso dei famosi Cryptokitties?) Praticamente nullo, secondo alcuni pareri. Domande e dubbi che terranno a lungo occupati avvocati e regolamentatori.
Una soluzione più in linea con la filosofia delle blockchain risiede nell’IPFS o in altre reti di archiviazione decentralizzate.
L’IPFS (Inter Planetary File System) è un protocollo e una rete peer-to-peer per l’archiviazione e la condivisione di dati in modo distribuito.
Su Internet ogni oggetto, come un sito, è rintracciabile tramite un indirizzo; su IPFS la ricerca si basa sul contenuto: non “dove” ma “cosa”. Un file è identificato dalla sua impronta digitale (in entrambi i sensi…), cioè da una funzione chiamata hash che, a partire dal contenuto, ne crea un identificatore univoco composto da una stringa di lunghezza fissa. Basta cambiare un solo bit nel file per modificare completamente la stringa. Non possono esistere due file identici (con lo stesso hash) su IPFS e questo lo rende ideale per gli NFT.
Anche con alcuni limiti che verranno probabilmente superati con l’avvento del tanto atteso Filecoin (versione migliorata di IPFS) questa soluzione è più in sintonia con le filosofie di decentralizzazione e disintermediazione veicolate da blockchain e NFT.
Al momento solo Foundation adotta lo storage delle opere certificate NFT con IPFS.
Non è tutto oro…
Le altre piattaforme specializzate in criptoarte, tra cui NiftyGateway, SuperRare, Rarible, KnownOrigin o in collectibles come OpenSea adottano il modello off-chain su server o cloud esterni, anche se non è sempre facile avere quest’informazione: l’opacità e la trasparenza opzionale rappresentano una delle criticità presenti in questo mondo tokenizzato.
Quelli citati sono marketplace per la compravendita: un utente aggiunge un “item” digitale, questa viene certificata attraverso il minting con un NFT e quindi messa in vendita di solito con un’asta. Chi se la aggiudica può poi rivenderla, alimentando un mercato secondario.
Tutto semplice? Sì e no. Gli utenti devono aver dimestichezza con le criptovalute, con ether in particolare, quindi saper utilizzare almeno i wallet come Metamask. Solo Nifty Gateway, al momento, accetta pagamenti con le carte di credito.
Ho usato la parola “utente” e non artista intenzionalmente: mentre diverse piattaforme operano una selezione tra chi vuole garantire con NFT opere digitali, altre, come Rarible, permettono a chiunque di certificare qualsiasi cosa, compresi per esempio tweets e colori, o peggio, opere prodotte da altri o sotto copyright.
Questo aspetto è un segnale che indica come questo settore abbia bisogno di essere regolamentato in qualche modo, come accade quando il nuovo, nel digitale, passa da nicchia a mainstream (o quasi). Il caso delle ICO, l’equivalente delle offerte pubbliche di acquisto nel mondo blockchain, protagoniste in anni passati di truffe e contenziosi, dovrebbe essere di monito.