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Il peso dell’anima di Papers, Please.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
7 min readJun 22, 2020

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Una marcia marziale accoglie il giocatore che avvia l’applicazione e i caratteri squadrati che compongono “Papers, Please” rimbalzano sullo schermo, al ritmo dato dalle note musicali; la palette cromatica è virata al grigio, con sprazzi di rosso, un cremisi che ricorda le coccarde sulle divise inamidate, lo scarlatto che risplende sul simbolo di Arstotzka, la macchia coagulata del dissidente sull’asfalto della frontiera Grestin.

Papers, Please ha già instaurato il proprio dialogo con il giocatore; lo sta già calando nel ruolo di Ispettore di dogana, decisore più o meno libero del destino dei tanti esempi di umanità che si accalcheranno al confine. Ma cosa c’è di libero nel dover raffrontare numeri, sigle, nomi e immagini, sotto l’egida delle capillari norme impartite dal regime? In effetti, con il tempo si diventa piuttosto efficienti nel dominare con lo sguardo il coacervo di dati che ci vengono esibiti dai richiedenti. Si acquista un automatismo dei comportamenti quasi impeccabile.

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Il foglio con le foto dei ricercati del giorno va lì a destra, ben oltre il margine per non occupare troppo spazio; la chiave che apre la guardiola dell’arma lì sopra, ben distinta in modo da essere subito apprensibile; il libro mastro con le istruzioni posto sul centro sinistra, segnalibro sulla pagina iniziale, cosicché si possa immediatamente raggiungere tutte le altre sezioni alla bisogna; spazio centrale libero, dove si potranno mettere in ordine preciso i documenti esibiti dal richiedente: il certificato di vaccinazione a sinistra, al centro il passaporto, a destra il permesso d’entrata. Qualora fosse un richiedente lavoro, anche il permesso ad hoc, ancora più a destra. Siamo pronti per un’ennesima giornata di lavoro sul luogo di confine, sul luogo in cui i destini degli uomini collidono.

Ci vuole tempo per prenderci la mano a districarsi fra tutti quei documenti e le insidie che possono annidarvisi. Papers, Please non è brutale, i nostri primi giorni alla dogana sono introduttivi e poche sono le informazioni a cui dobbiamo badare; con il passare del tempo e delle complicazioni che lo scenario politico-sociale porterà in dote, la nostra attenzione sarà sollecitata da una mole sempre maggiore di variabili e di dati da processare. L’autore, lo statunitense Lucas Pope, conosce i procedimenti che regolano i nostri riflessi condizionati. Con il passare delle ore, laddove prima a un determinato stimolo susseguiva una risposta di pochi secondi, ora, come ligi cani di Pavlov, eseguiamo le operazioni — “apprendimento”, direbbe qualcuno — con la solerzia di un automa: ingranaggi ben oliati nella macchina burocratica del nostro Paese.

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Nel 2018, su Youtube è stato caricato Papers, Please — The Short Film, diretto da Nikita Ordynskiy e scritto da Nikita Ordynskiy, Liliya Tkach e dallo stesso Lucas Pope.

Come è possibile che una ripetizione di azioni apparentemente così prive di attrattiva possa assorbire il giocatore in un loop? I processi mentali che sovrintendono questa assuefazione dell’utente ineriscono il successo stesso di quel tipo di opere interattive rivolte alla riproduzione del reale: la vasta pletora di simulatori, capaci di catturare un’ardimentosa nicchia di giocatori, è lì a testimoniarlo. Non è questa la sede per affrontare un discorso serio e consapevole sulle ragioni della capacità, da parte di questi esponenti videoludici, di penetrare in una fetta di pubblico; sebbene l’esempio di un prodotto recente, ampiamente discusso per queste e altre ragioni, testimoni il contrasto di percezione fra un pubblico generalista e una nutrita ma minoritaria schiera di persone.

Il videogioco ha saputo trovare, nella sua pur precoce storia, una propria fisionomia comunicativa, emancipandosi da claustrofobiche escatologie ludiche e mirando, invece, a suscitare nel consumatore uno spettro di coinvolgimenti emotivi ben più vasto. Papers, Please tiene sempre vivo l’interesse del giocatore, è vero: non abdica al fine di divertire l’utente.

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La gran mole di variabili, via via crescenti, a cui il doganiere dovrà porre attenzione contribuisce a tenere vivo l’interesse del giocatore; la necessità ulteriore di dover mantenere una certa efficienza, col fine di procacciare un quantitativo di danaro sufficiente per poter mantenere la propria famiglia, spinge a non aver tempo di “pensare di star facendo ancora la stessa cosa”; infine, “eventi di trama” conferiscono un senso di progressione alla partita, contribuendo a dare al giocatore la sensazione di star portando avanti, nonostante la monotonia del proprio compito, una storia.

Ma a fronte della pur convinta volontà di intrattenere il giocatore, Lucas Pope ha la consapevolezza di pretendere dal proprio videogame qualcosa in più. Nell’equoreo susseguirsi di quei giorni, a vidimare documenti, una certa assenza comincia ad annidarsi negli occhi del giocatore. L’eguale avvicendarsi di volti, atti e azioni riflette lo straniamento incipiente nella mente del giocatore: i gesti si ripetono, e le storie diventano parole, le nascite dei numeri, gli individui una statistica.

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Quasi subdolamente, Papers, Please trascina il giocatore in una condizione di straniamento via via crescente, mediante una frantumazione di qualsiasi tipo di filtro empatico, e irretendolo in una reiterazione di gesti, anticamera dell’alienazione conosciuta dall’uomo nell’epoca post-moderna.

Si respira in ogni momento l’ingrigita disperazione di K. (de Il processo di Franz Kafka) di fronte alla stolida indifferenza dell’uomo di fronte all’uomo, delle “ragioni senza ragione”, della macchina dello stato di fronte alle urla dell’individuo isolato.

Pope ha dunque l’intuizione di utilizzare il gameplay loop del proprio titolo al fine di replicare lo scollamento dalla realtà tipico dell’uomo inserito in una “catena di montaggio”. Qualche anno dopo i ragazzi di Giant Sparrow hanno ripreso, con un grado di esplicitazione ancora maggiore, il succitato procedimento. Alludo, naturalmente, a What Remains of Edith Finch, videogioco della floridissima annata 2017; e mi riferisco al celebre episodio di Lewis Finch.

Similmente al doganiere di Papers, Please, Lewis (impiegato in una fabbrica di inscatolamento del tonno) è inserito in un contesto nel quale qualsiasi forma di personalismo è eliminata. Il suo compito è di agguantare il tonno e decapitarlo, uno dopo l’altro: semplici gesti, netti, meccanici, ripetuti incessantemente. Il cadenzato ritmo della scure calante sul pesce incanta il giocatore, mentre l’alienazione dell’uomo si espande — letteralmente — davanti ai suoi occhi, generando un escapismo che pervade sempre più la mente di Lewis (e dell’utente).

Ritorna, quindi, con What Remains of Edith Finch la brillante analogia fra una certa “routineria” congeniata in alcuni tipi di gameplay (si potrebbe parlare a lungo del ruolo e del significato di fenomeni come il grinding e il farming) e forme di desensibilizzazione alla “cattività” burocratico-industriale della nostra epoca (l’immagine della catena di montaggio di epoca fordiana ritorna ancora oggi nello scenario lavorativo, pur in forme rivedute ed edulcorate).

Ma Papers, Please non vuole unicamente sottolineare questo straniamento kafkiano, bensì problematizza l’agire del giocatore, spezzando l’automatismo delle sue azioni e sottoponendo allo stesso la necessità di compiere un bilanciamento di valori. La sofferenza altrui funge da strumento attraverso cui Pope rompe l’incantesimo, e al doganiere vengono addossate responsabilità ulteriori rispetto a quelle previste dalla propria mansione.

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È nel momento in cui, ad esempio, al confine si presenta un padre a cui è stata assassinata la figlia, chiedendoci di lasciar passare l’assassino (un criminale ricercato per cui abbiamo l’obbligo di chiedere l’arresto) cosicché lo stesso possa compiere il più primordiale dei gesti vendicativi, che “lo scacco” di Papers, Please si palesa. Il peso morale delle nostre decisioni dovrà costantemente misurarsi, da una parte, con la necessità etica di svolgere il ruolo per il quale siamo pagati (e tanto più siamo pagati quanto più “celeri” siamo nel fugare i nostri dubbi), dall’altra con l’impellenza di procacciarsi uno stipendio adeguato per provvedere alle basilari necessità della propria famiglia. È nell’incontro-scontro fra logiche e doveri contrapposti che Papers, Please infrange il ritmo monocorde dal quale il giocatore-ispettore è stato risucchiato.

Guardie che ci offrono danaro in base a quanta gente abbiamo deciso di arrestare (e quel danaro ci serve, ieri mancava il riscaldamento a casa); un contrabbandiere che abbiamo imparato a conoscere ci chiede di chiudere un occhio stavolta (e ci offre molto danaro, danaro vitale per dare da mangiare a nostro figlio); il quale proprio oggi ci ha fatto un disegno, che vogliamo appendere nella guardina, anche se oggi passerà il rappresentante del Ministero, che probabilmente ci multerà per aver introdotto nel luogo di lavoro oggettistica a esso estranea; intanto un gruppo sovversivo intento a rovesciare il regime di Arstotzka ci chiede dei favori, a costo di mettere a repentaglio la vita del doganiere e della sua famiglia; ma abbiamo un numero limitato di “errori” a giornata, e tanti crediti ci vengono decurtati in base a quanti ne commettiamo…

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L’anima di Papers, Please fa capolinea proprio negli attimi di incertezza in cui si scornano esigenze personalissime e lo sguardo disperato dell’ennesimo profugo in fuga da dolore e miseria. Pope sembra suggerire che sia proprio l’intrusione dell’umano, in ogni sua accezione, a segnare la recisione del nastro di Moebius in cui un compito ingrato ci ha trascinato. L’atavico dissidio fra Legge e Morale — rielaborato soventemente nella cultura occidentale sin dai sublimi versi dell’Antigone di Sofocle — frena allora la nostra mano prima di vergare i destini di un uomo con l’inflessibile rigore di un timbro: verde o rosso, un’esistenza decisa da un colore.

Un macigno quello portato in dote da Papers, Please; un macigno contenuto in poco più di quaranta Megabyte di memoria.

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.