A Painter’s Tale: montagne, cornici e marginalità
I tanti significati dietro alla storia di Curon.
Possibilmente da leggere dopo aver giocato ad A Painter’s Tale: Curon, 1950.
Logiche di pianura e di montagna, ieri come oggi
«Il turismo ed il progresso non devono cancellare il montanaro, ma aiutarlo a vivere meglio, attraverso al potenziamento della sua economia e dei prodotti tipici, valorizzati ed apprezzati per la loro genuinità e qualità». Queste sono alcune delle parole che aprono il libro Lassù gli ultimi. La vie des montagnards, di Gianfranco Bini e Sandrino Bechaz. Giocando ad A Painter’s Tale: Curon, 1950 il mio primo pensiero è andato a questo libro. È un volume bellissimo, talmente intriso di serena maestosità che mi sento intimorito, ogni volta che torno a sfogliarlo. Mi fa provare un sentimento di nostalgia per qualcosa che non ho mai effettivamente vissuto, e di cui ho sempre percepito solo pallidi riflessi: la vita del montanaro. Forse è perché contiene con così tanta forza il senso della fine di un mondo alpino che è sempre meno “montanaro” e sempre più sullo stile della Settimana Bianca de Il Pagante. Può essere che sia proprio per questo senso di struggimento che, nell’unica occasione in cui ho parlato del videogioco Anna — anch’esso legato all’ambiente e alle tradizioni alpine — l’ho fatto parlando di tutt’altro (chi fosse interessato può trovare l’articolo qui e qui).
Ne è passata di acqua sotto i ponti dai resoconti del Grand Tour, quando ricchi viaggiatori inglesi descrivevano con timore e disprezzo le montagne, ai loro occhi tremendi ammassi di rocce e di ghiacci, mentre superavano il passo del Moncenisio. Si è poi passati alla visione romantica della montagna, il sublime bello e terribile dei monti, percepiti come un qualcosa da contemplare o da sfidare. O magari entrambe le cose insieme. Fino ai tempi più recenti, in cui «ad acquistare importanza sono stati gli aspetti ludici, ricreativi, edonistici, dove la montagna diventa sinonimo di “benessere”, di “relax” e di “comfort”: fun e pleasure, secondo gli slogan delle stazioni sciistiche» (Franco Brevini, Simboli della montagna, il Mulino, 2017, p. 205).
Ma torniamo ad A Painter’s Tale. In questo caso ci ho pensato un po’ di più del solito, a Lassù gli ultimi, perché sento questa comunanza di intenti (tanto più alla luce del corredo fotografico che accompagna i titoli di coda), seppur declinata in modi differenti e legata ad aree differenti dell’arco alpino. C’è in entrambi i casi il desiderio di offrire testimonianza viva di un mondo spazzato via dagli interessi del potere. Un potere estraneo, di pianura, ciò che è “globale” (il senso del progresso) che minaccia e inghiotte ciò che è “locale”. In tal senso la storia di A Painter’s Tale è anche molto più universale di quanto possa apparire, mentre ha avuto forse il vantaggio e al tempo stesso lo svantaggio di trovarsi impastoiato in tutta un’altra serie di discorsi recenti su Curon, che vanno dalla serie televisiva per Netflix a varie leggende urbane di stampo sovrannaturale. Per cui se ne è parlato, ma relazionandolo fin troppo a prodotti e discorsività con cui spartisce poco o nulla.
Dal videogioco emergono bene quelli che potremmo definire gli appetiti, o le brame, della pianura nei confronti della montagna. E noi non ce ne rendiamo conto, ma la logica che sposiamo è spesso proprio quella della pianura. Vuoi perché è lì che c’è il “progresso”. Vuoi perché è lì che c’è la maggioranza, che quindi — questo è il ragionamento che fu dietro alla storia di Curon e a tante altre storie — si sente in dovere di danneggiare pochi per il bene di molti. Vuoi perché è dove viviamo. Una volta mi capitò di leggere dei post di alcuni statunitensi — suppongo abitanti di qualche metropoli — che si chiedevano quale fosse il senso dell’andare in montagna. E in effetti non ha alcun senso, per le logiche della pianura, andarci, soprattutto se non si possono trovare lì «ostriche e champagne», come canta Il Pagante. Andare cioè in montagna dopo averla trasformata in un doppione sopraelevato della pianura. C’è però anche chi, dalla pianura, prova desideri più contemplativi e meno distruttivi della montagna. Come il protagonista di A Painter’s Tale, per esempio. Oppure si pensi al desiderio che muove Bilbo Baggins quando dice «I want to see mountains again, Gandalf, mountains, and then find somewhere where I can rest» ne La Compagnia dell’Anello.
Un videogioco sulla montagna?
Mi rendo conto, arrivato a questo punto, di avere dato per scontato un fattore che invece non è proprio così ovvio: il fatto che A Painter’s Tale sia un videogioco che parla della montagna e, se sì, in che modo. Non è che sia proprio scontato. A Painter’s Tale offre uno spaccato di vita alpina, lontana però dagli alti pascoli e — ancor più su — dalle vette rocciose e innevate. Alla fine è un elogio dei montanari onesti e laboriosi, nel suo insieme. E su questo si potrebbe aprire tutta un’altra lunghissima tradizione. Il fatto però che A Painter’s Tale sia un videogioco, e non un altro prodotto mediale, non può lasciare indifferenti. L’esperienza della montagna nei videogiochi è quasi sempre un qualcosa di molto differente.
Direi che tale esperienza, nei videogiochi, è caratterizzata principalmente da due fattori: la guida verso la lontananza e la fatica della verticalità. Nel primo caso, la montagna condivide questo ruolo con altre strutture visivamente rilevanti che si scorgono da lontano e che offrono una promessa di raggiungimento. Il primo Dark Souls è un ottimo esempio di mondo interconnesso in cui, tramite scorci che non risultano mai troppo evidenti è possibile farsi un’idea di quel che si andrà a esplorare. È un accrescimento del desiderio di vedere nuovi ambienti e aiuta anche a coerentizzare il mondo di gioco nel suo insieme, invece che proporlo come una serie di livelli fra loro scollegati. Oppure, in un videogioco come Brothers: A Tale of Two Sons, le montagne in lontananza rappresentano un punto di arrivo che vediamo subito all’inizio dell’avventura, come in realtà avviene in numerosi altri casi: penso anche solo a The Legend of Zelda: Breath of The Wild con quel suo sguardo d’insieme sulla pianura e sui monti distanti, appena Link esce dalla caverna. E poi c’è l’ascesa, la fatica. La montagna non è tale senza un pendio da dover risalire con difficoltà. Death Stranding rappresenta in tal senso un’esperienza emblematica, ma anche l’appena citato Breath of the Wild con la particolare tecnica di arrampicata di Link ha regalato momenti memorabili. Journey fa di entrambi gli aspetti citati dei fondamenti del suo sistema: la fatica del viaggio verso la vetta e la montagna come guida. Di recente ho avuto modo di sottolineare anche l’importanza di quella prima duna che risaliamo in Journey, prefigurazione del viaggio futuro al pari dell’alto colle dantesco di Inf. I.
Qui in A Painter’s Tale la montagna è la cornice. Della valle e del territorio esplorabile. O perlomeno lo è dal punto di vista delle vette, cioè quell’elemento della montagna che siamo abituati a considerare rilevante in termini videoludici. Non è una questione di altitudine (è difficile calcolare, in molti videogiochi, a che altezza ci troviamo sul livello del mare) ma di percezione dell’altezza, per cui una montagna relativamente bassa come quella di A Short Hike è percepita come molto più ‘montuosa’ rispetto a un qualche altopiano che magari si trova ben più in alto sul livello del mare. Curon si trova a 1500 metri circa sul livello del mare. Più o meno come la frazione Periasc nella quale è ambientato il videogioco Anna. Ci sono rilievi più bassi di così che vengono definiti montagne, ma effettivamente quando si pensa a entrambi questi videogiochi emergono ben più discorsività sulla memoria e la tradizione locale che sulla “montagna”. Probabilmente anche perché — appunto — nei videogiochi ci siamo abituati a una concezione differente di montagna con cui rapportarci.
La cornice, il dipinto, la foto
Pur capendone il senso, non vado matto per l’aspetto ‘cubettoso’ dei personaggi di A Painter’s Tale. In primo luogo perché il pensiero si rivolge inevitabilmente verso Minecraft e non sono sicuro che tale accostamento automatico faccia bene a questo videogioco. In secondo luogo perché il cubo (ma anche il parallelepipedo) è una forma che compare poco, in montagna. Persino nelle case ci sono sempre certi elementi che vanno a modificare il parallelepipedo alla sua base.
È semmai una forma che troviamo, per ovvie ragioni, in chi vuole rappresentare la montagna. Da questo punto di vista, come dicevo, capisco il senso della scelta (al di fuori di altre probabili ragioni di comodità rappresentativa a fronte di un determinato investimento di risorse). A Painter’s Tale è una storia di pittura e la pittura prevede sempre una cornice, un bordo, un margine, un qualcosa di quadrato o rettangolare che delimita un dentro e un fuori. E se guardiamo i dipinti e i bozzetti presenti nel gioco, i personaggi raffigurati non hanno quell’aspetto ‘cuboide’. Così come le foto di Gianfranco Bini in Lassù gli ultimi occupano una pagina rettangolare, ma al loro interno prevalgono di gran lunga altre forme. E noi giochiamo A Painter’s Tale su uno schermo rettangolare, che fa da cornice alla nostra esperienza, e attraverso il quale ci caliamo in un avatar ‘cuboide’, il quale imbriglia un paesaggio in una ulteriore cornice rettangolare, quella del suo dipinto. È tutta una concatenazione di entrate (nel mondo di gioco) e di uscite (si estrapola una immagine da un paesaggio) e tra l’altro, a proposito delle prime, ho avuto modo di scrivere qualcosa in un’altra occasione, in riferimento ai videogiochi FromSoftware.
Come detto, ne comprendo la logica e sotto certi aspetti trovo che sia funzionale, ma — al di fuori del gusto personale — mi pongo alcuni interrogativi. La cornice (dello schermo, del dipinto, della foto…) è un accompagnamento in entrata, può essere posta in risalto per sottolineare che stiamo temporaneamente entrando in un contesto differente dalla realtà in cui siamo collocati. E qui in A Painter’s Tale già abbiamo una serie di cornici nella cornice, come i quadri, e soglie nelle soglie, come lo specchio d’acqua del lago che ci trasporta nel passato. Forse c’erano già abbastanza richiami all’esperienza pittorica — nei termini di selezione e rapporto interno/esterno che stanno alla base di un dipinto — senza dover ricorrere alle teste cubiche. Soprattutto considerando quanto siano interessanti i dipinti interni al gioco, che fanno a meno di questa cubicità come già dicevamo.
Un’altra cosa alla quale non ho potuto non pensare, giocando ad A Painter’s Tale, sono le opere di Dino Buzzati, per il quale le montagne hanno sempre avuto un ruolo fondamentale (richiamo qui giusto a uno dei tanti studi sul tema). Buzzati non si limitava a descrivere le montagne, ma le dipingeva anche, cogliendole soprattutto nei loro elementi più misteriosi, anche oscuri, seppur accennati. Penso per esempio a uno dei suoi finti ex voto, legati all’immaginario miracolo della difesa dai tre ronfioni. A un primo sguardo non li vediamo neppure, questi ronfioni, ma sono lì presenti, in agguato, come è giusto che sia. Perché in alta montagna è tutto sovraesposto (non abbiamo alberi o altri impedimenti allo sguardo) ma al tempo stesso è tutto occultato e avvolto da un mistero che non può essere penetrato fino in fondo.
Così come in Poema a fumetti, quando «alla sera nel rifugio si udì un tetro rombo di frana. Ma fuori non c’è che il silenzio delle montagne illuminate dalla luna» (Mondadori, 2010 [1969], p. 127).
O ancora, nello stesso testo, nel ricordare «quando laggiù sulla cengia sconosciuta che sembra perdersi nell’apicco guizza allontanandosi una esile strana figura, la quale tosto svanisce» (Ivi, p. 130). Sono alcune di quelle esperienze che ci ricordano il mistero ultimo della morte, come canta Orfi, il protagonista di Poema a fumetti. Quei momenti in cui, per un istante, sembra che il velo della realtà si stia per sollevare, e che dietro a essa ci sia qualcosa, ma la rivelazione piena non arriva mai.
Ho apprezzato che anche in A Painter’s Tale ci sia almeno qualche cenno similare a questo mistero ultimo, che fra le montagne sembra più propenso a dischiudersi. Penso in particolare al quadro della sirena velata dipinto da Karl. Sono tutti elementi quotidiani, ma trasfigurati. La sirena stessa è Ida, utilizzata come modello per questa creatura acquatica. E non so se fosse voluto, ma anche la luna stessa sembra essere il suo riflesso al centro di un tremulo specchio d’acqua, invece che essere collocata nel cielo notturno. Che sia un segnale visivo di quel passaggio fra due epoche differenti che sta alla base del videogioco? Del resto è proprio attraverso un vortice d’acqua che il protagonista raggiunge la Curon del 1950. Il tutto con queste montagne, che Karl amava dipingere, come ci viene detto nel gioco, con questa loro cresta il cui andamento è ripreso quasi alla perfezione dalla sirena velata, che ne può in qualche modo rappresentare il segreto: quel velo sottile e semitrasparente che divide la natura delle cose dal loro legame col mistero, in certi luoghi interstiziali come i monti nel silenzio della notte.
Per andare a concludere
Il videogioco come memoria viva di microcomunità, di storie locali. Questa è un’interessante declinazione che diversi prodotti videoludici italiani stanno assumendo, anche grazie all’operato di IVIPRO, che in questo caso era coinvolta in prima linea. Il valore di A Painter’s Tale in quest’ottica è indubbio, esso va a inserirsi in questo filone e lo rafforza. Varrebbe poi la pena ragionare su quanto un simile filone possa eventualmente costituire una sorta di specificità italiana o meno. Con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporterebbe, come i riferimenti a realtà locali, ‘minori’, della storia italiana del tutto incomprensibili per il pubblico internazionale, al quale pure molti videogiochi mirano.
Direi che A Painter’s Tale soffre molto meno di questo rischio, sia per il suo intento più dichiaratamente didascalico, per il quale non vengono date per scontate conoscenze pregresse, sia per il suo legame con un contesto che risulta comunque relativamente noto e iconico — o, almeno, lo è più di altri — anche solo per le varie dicerie sul campanile nel lago. Certo, Curon non è la tanto nota Venezia o la Firenze del Rinascimento, ma è anche giusto così, far emergere storie locali significa avere il coraggio di farlo per davvero, non di ripresentare il già noto. L’Italia ha questa effettiva ricchezza di storie locali e microcomunitarie ed esse potrebbero costituire una via verso cui andare sempre più a specializzarsi, creando una ‘corrente’, una ‘scuola’ di videogiochi più o meno indipendenti che possano raccontarle, andando anche oltre i confini della già nota italianità della pasta, della pizza e della mafia.