Cyberpunk 2077: Chasing a Dream

Scorci della Night City che poteva essere.

Lorenzo “Dyni” Sarno
Frequenza Critica
14 min readDec 21, 2020

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Partiamo subito affrontando l’elefante nella stanza: la mia esperienza con Cyberpunk 2077 è stata relativamente tranquilla. Questo non vuol dire, ovviamente, che non abbia incontrato bug, anzi — ho visto di tutto e di più, dal mio personaggio che attraversa la stanza a velocità supersonica alla mia moto che vola fino alla mia posizione in cima a una torre radio. Quello che intendo con “tranquilla” è che, sopportando un framerate ballerino e con un po’ di abuso di salvataggi rapidi, non ho incontrato nessun bug che abbia seriamente compromesso la mia partita e, salvo un paio di dialoghi minori, la mia esperienza ruolistica e di gameplay è rimasta intatta. Posso dire, insomma, di aver completato il gioco senza intoppi fatali. Di conseguenza lo scopo di questa recensione non sarà parlare degli innumerevoli bug (di cui siete sicuramente già a conoscenza), ma piuttosto del gioco in sé, che ho completato dopo una settantina di ore affrontando la maggior parte delle quest rilevanti.

Messa da parte questa premessa, entriamo insieme nella città dei sogni e vediamo quanti di questi si sono avverati in questi sette lunghi anni di sviluppo.

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Nonostante non abbia sicuramente bisogno di presentazioni, diamo comunque una rapida introduzione per pura formalità. Cyberpunk 2077 è l’ultima fatica di CD Projekt RED, creatori di The Witcher, e prende la forma di un gioco di ruolo d’azione in prima persona basato sul mondo di Cyberpunk 2020, gioco da tavolo creato da Mike Pondsmith nel 1988. In Cyberpunk 2077 vestiremo i panni di V, personaggio completamente personalizzabile (che nel mio caso era un “lui”) che si avventurerà nella città dei sogni, Night City, con obiettivi banalmente descrivibili come fama e ricchezza, per poi ritrovarsi in una situazione fuori controllo dopo una rapina andata male, che metterà in pericolo la sua vita e lo porterà ad esplorare tutti gli angoli della città cercando un modo per restare vivo, affrontando gang e corporazioni, silenziosamente o apertamente, condividendo l’esperienza con la compagnia virtuale di Johnny Silverhand, musicista e rivoluzionario con le fattezze e la voce di Keanu Reeves (forse non la scelta più azzeccata per il tipo di personaggio, ma comunque un piacere vederlo in forma videoludica).

A livello di gameplay l’esperienza si traduce in un gioco di ruolo open world che combina tutti gli elementi moderni che ci aspettiamo da un’avventura in prima persona di questo calibro: sparatutto, stealth, guida e altri sistemi si mischiano fluidamente come ci aspettiamo da titoli AAA simili. Mentre l’esperienza open world è apparentemente simile a giochi dello stesso filone, però, l’effettivo design di missioni e situazioni è, naturalmente, guidato da regole ruolistiche che danno a Cyberpunk un’impronta che ricorda vagamente Deus Ex: statistiche, potenziamenti ed equipaggiamento ottenuti apriranno strade ad approcci diversi, permettendo a ogni giocatore di esprimere il proprio stile di gioco, che sia puramente stealth, puramente azione o un misto, combinando abilità fisiche con altre più creative, come per esempio le capacità date dall’hacking, che permette di controllare dispositivi e nemici remotamente. Insomma, la descrizione più semplice ed efficace sembra essere proprio “Deus Ex open world”: un mondo cyberpunk gigantesco da esplorare, con multiple opzioni per affrontare le situazioni sia attraverso il gameplay che nei dialoghi, graziati dal writing per cui CDPR è diventata famosa attraverso The Witcher. Una combinazione che, sulla carta, risulta immediatamente appetibile e accattivante, ma che si rivela presto essere poco più di una promessa mantenuta a metà, le cui mancanze si cominciano a notare poco dopo aver mosso i primi passi in Night City.

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Già, Night City. Partiamo dalla città dei sogni, a cui arriviamo dopo aver creato il personaggio e completato una delle tre introduzioni a nostra disposizione (la cui importanza ruolistica è abbastanza insignificante, come approfondiremo poi). Appena svincolati dalle missioni tutorial siamo liberi di accedere al primo quartiere e, dopo la fine del primo capitolo, all’intera città, le cui zone si dividono in tematiche diverse, dal lussuoso centro corporativo alle deserte Badlands al di fuori della città. L’impatto visivo è sicuramente accattivante, complice l’ottima varietà visiva e quello stile marcatamente cyberpunk che non vediamo abbastanza spesso, ma non ci vuole molto prima che la magia cominci a svanire, mostrando la fragilità del sistema che tiene insieme i pezzi.

Il primo problema che si nota controlli (o, meglio, volante) alla mano è il sistema di guida, praticamente inutilizzabile con mouse e tastiera, visto che i mezzi svoltano a velocità assurda alla più leggera pressione dei pulsanti. Con un pad le cose vanno meglio, ma le moto sbandano comunque fuori controllo alla prima pressione del freno, rendendole frustranti da utilizzare. Problema forse minore nel complesso, ma vista la quantità di eventi sparsi in giro per la città navigarci attraverso può risultare a tratti fastidioso. Non aiuta che, perso l’impatto iniziale, Night City si mostra per quello che è: uno sfondo decorativo e poco interattivo, cosparso di attività ripetitive e sistemi poco funzionali. È capitato più volte di passare affianco a un arresto in corso (parte degli eventi citati poco fa) ed essere attaccato dalla polizia, nonostante il fatto che mi fossi allontanato da un pezzo dalla scena del crimine. Le forze dell’ordine in generale appaiono dal nulla quando ricercati (per esempio dopo aver aperto il fuoco contro qualcuno o aver rubato una macchina) e perdono interesse molto rapidamente, rendendo il sistema di criminalità molto superficiale, così come la maggior parte di quello che vedremo navigando le strade della città: arresti, assalti e guerre tra gang riempiono le strade di Night City, ma nessuno di questi eventi spicca come qualcosa di più di un riempitivo dimenticabile.

Queste attività riempitive non sono, naturalmente, il cuore del gioco, ma costituiscono il grosso della mappa. Escluse queste la città non ha molto da offrire, salvo le quest più grosse e diverse subquest chiamate “lavoretti”, divise tra omicidi, furti, sabotaggi e così via. Queste sono, al di fuori delle missioni principali, la fonte principale di soldi per V, con i quali potrà comprare nuovi abiti, armi e potenziamenti. Completare quest e lavoretti porterà, inoltre, a salire non solo di livello, ma anche ad aumentare la propria “reputazione da strada”, elemento promosso molto da CDPR prima dell’uscita ma che, in conti pratici, si rivela essere semplicemente un modo per sbloccare l’accesso a nuove sottomissioni e oggetti. Un altro aspetto superficiale, così come i lavoretti stessi, che spesso si risolvono in pochi minuti e non si sviluppano più a fondo di un paio di stanze, con storie minimaliste e dimenticabili. Insomma, superficiale sembra essere la parola perfetta per descrivere Night City: bellissima da vedere, ma insignificante da “vivere”.

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Ma cosa vuol dire “vivere” Night City, in questo caso? Come si gioca Cyberpunk 2077 una volta scesi dal mezzo, che sia affrontando la storia principale o semplici subquest?

A primo impatto, la premessa di Deus Ex open world sembra essere una descrizione adeguata del gioco. La maggior parte delle missioni (ma non tutte) possono essere affrontate in vari modi a seconda dell’equipaggiamento, delle abilità e dallo stile di gioco del giocatore. Entrare sparando e strisciare senza toccare nessuno sono entrambi approcci viabili, e diverse statistiche permettono accessi da punti diversi. Avere molta forza permetterà di forzare alcune porte, mentre avere buone conoscenze tecniche ne aprirà altre. Strumenti elettronici come le telecamere possono essere aggirati, distrutti o hackerati per essere riutilizzati a nostro favore, e l’hacking in particolare è uno degli strumenti più intriganti del gioco, permettendo un sacco di abilità interessanti come il poter disabilitare la vista dei nemici temporaneamente, o attivarne le granate in remoto per farli esplodere insieme ai loro compagni più vicini. Per chi preferisce un approccio più tradizionale non c’è comunque mancanza di ferri del mestiere più tradizionali: a pistole, revolver e mitragliette si affiancano strumenti corpo a corpo come le lame da braccio e il monofilo, e le armi da fuoco si dividono in più categorie, includendo le armi “smart”, capaci di tracciare i nemici attraverso i muri curvando i proiettili.

Qui è dove, normalmente, arriverebbe il “ma”. Invece, sorprendentemente e con l’esclusione del bilanciamento delle armi da fuoco, il sistema di base di Cyberpunk 2077 è davvero solido. Il gunplay è soddisfacente, gli hack permettono molte azioni creative a prescindere dallo stile di gioco, lo stealth offre diverse opzioni con attacchi letali e non letali, silenziatori e i già menzionati hack, e mentre l’IA avversaria non brilla certo per competenza, il level design delle singole stanze e la disposizione dei nemici al loro interno sono fatti con abilità sorprendente considerata la mancanza di esperienza del team in questo genere. Preso nel suo atto più puro, il gameplay di Cyberpunk non è davvero male. Manca della raffinatezza del Deus Ex a cui deve chiaramente l’ispirazione, ma ha di sicuro qualcosa da dire e, dato un contesto più grande, potrebbe offrire un’esperienza di gameplay forse non memorabile, ma molto vicino a quel livello.

E ora arriva il “ma”.

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Il “ma”, in questo scenario, è diviso in due parti, di cui una ormai familiare.

La prima, seccante ma forse meno grave (o comunque più sopportabile), è l’instabilità del sistema. Per descriverlo in maniera semplice, Cyberpunk 2077 sembra sempre a un passo dal rompersi. Non mi riferisco solo agli ormai famosi bug, anche se di sicuro non aiutano — mi è capitato un paio di volte di dover ricaricare per risolvere quest rotte — , ma il gioco in generale ha un livello di cura e raffinatezza così basso da far sembrare S.T.A.L.K.E.R. un prodotto di Naughty Dog in confronto. Stendere qualcuno con un KO da dietro fa muovere la telecamera a scattoni, hitbox e collisioni sono così imprecise da rendere il combattimento corpo a corpo un’esperienza incredibilmente frustrante, a volte è difficile capire se si è nascosti o visibili, il gioco fa fatica a tenere traccia delle scelte ruolistiche minori portando a dialoghi incoerenti, e in generale non sembra esserci alcun tipo di misura di sicurezza per impedire situazioni disastrose. Una quest richiedeva di entrare in una macchina per concludere la missione, ma il veicolo in questione era stato distrutto in uno scontro su cui non avevo alcun controllo; la mia unica opzione disponibile era ricaricare e correre il più veloce possibile per evitare il disastro. I bug si possono risolvere, ma questi problemi vanno più a fondo e richiederebbero la riscrittura di interi sistemi, motivo per cui credo che la generale instabilità del gioco resterà così com’è anche dopo le patch che (si spera) risolveranno i ben noti problemi di cui tanto si parla e legge in questi giorni.

La seconda parte del “ma” si ricollega invece all’ormai caratteristica superficialità che sembra permeare il titolo. Mentre le meccaniche sembrano essere tutte al loro posto, lo stesso non si può dire dei livelli e del quest design. Mentre, come menzionato prima, il design delle aree dimostra competenza, quello che manca è un’esperienza più profonda: la maggior parte delle quest non si sviluppano per più di una o due stanze, portando a un’eccessiva diluizione del ritmo e danneggiando attivamente la sperimentazione. Quella promessa di un gameplay profondo e variegato viene mantenuta solo a piccoli bocconi, lasciando il giocatore sempre in cerca del prossimo pezzo d’azione, senza quasi mai dargli l’occasione effettiva per andare oltre la premessa iniziale, perdendosi in infinite quest formate interamente da una stanza e tre nemici, dove entrare e sparare in testa a tutti i presenti risulterà più efficace di qualunque alternativa più elaborata. Il risultato è un core loop che non riesce a esprimersi, limitato in una quantità impressionante di situazioni, e che fa desiderare quelle poche occasioni in cui è finalmente libero di dare tutto quello che ha, in livelli grandi che danno la possibilità di dare sfogo a quello che ha da offrire. Quando succede, il gameplay di Cyberpunk 2077 è ottimo. Ma non succede abbastanza spesso.

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Quello che è forse più sorprendente è come questa superficialità finisca per intaccare anche la parte più ruolistica del gioco. V è, a tutti gli effetti, un personaggio già fatto e rifinito, nonostante il poterne scegliere sesso, aspetto e background; le situazioni dove è effettivamente possibile scegliere opzioni di dialogo che influenzano effettivamente gli eventi sono pochissime, e quelle occasioni dove potremo usare le abilità del personaggio o l’origine scelta all’inizio sono quasi sempre rilegate a scelte secondarie, che approfondiscono e chiedono informazioni piuttosto che compiere effettivamente una decisione. Le scelte più importanti sono praticamente quelle delle “romance”, e anche lì le opzioni sono davvero poche. La relazione con Johnny Silverhand è forse l’aspetto più approfondito, ricordando vagamente quella tra Geralt e Ciri in The Witcher 3, ma mentre quella determinava parti importanti della trama qui il risultato è molto più approssimativo al di fuori di un certo risultato specifico che non interesserà alla maggior parte dei giocatori.

Anche a livello di gameplay la parte ruolistica è sorprendentemente semplicistica, forse per via del fatto che molte missioni forzano un certo approccio: le opzioni base stealth e la maggior parte delle armi non hanno nessun tipo di requisito o di scaling, permettendo anche al più scarso dei V di maneggiare revolver e fucili d’assalto con precisione — l’unica caratteristica che determinerà il risultato è il danno dell’arma stessa. Lo skill tree in sé risulta discretamente banale, con diverse abilità che si limitano a offrire più danni o più critici. Ho orientato il mio V verso lo stile da netrunner, con qualche punto su stealth e armi da fuoco, e per la maggior parte non mi sono mai sentito limitato. Alcune armi richiedevano più punti in Body per essere usate appieno e alcune porte richiedevano conoscenze tecniche che non avevo per essere aperte, ma sono gli unici esempi che mi vengono in mente dove le mie mancanze hanno effettivamente compromesso il mio progresso. Mentre questo rende sicuramente l’esperienza molto più scorrevole, è chiaro che chi si sta avvicinando a Cyberpunk 2077 cercando una profonda esperienza ruolistica potrebbe rimanere molto deluso.

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Finora l’immagine dipinta da Cyberpunk 2077 non è il massimo. A leggere la recensione fino a qui quello che ne si può trarre è un gioco superficiale, con una buona base e non molto costruito sopra.

Questo quadro è incompleto. Perché, se Cyberpunk sbaglia spesso, a volte centra il bersaglio. E, quando lo fa, lo fa in maniera spettacolare.

Non ho ancora parlato, per esempio, del writing. Questo è sempre stato uno dei punti di forza di CDPR, e questo gioco non fa eccezione. Fin dal primo minuto i veri protagonisti dell’avventura non sono Night City e i suoi toni ammalianti, ma i personaggi. Da Jackie, il nostro compagno di disavventure nelle prime ore di gioco, a Johnny Silverhand, la voce nella nostra testa dalle intenzioni poco chiare. Da Misty e i suoi tarocchi a Panam e ai suoi nomadi. Da Viktor a Judy, da Rogue a Takemura, tutti i personaggi che accompagneranno V durante la sua avventura sono caratterizzati da personalità magnetiche e scritti con la perizia a cui siamo abituati dall’epopea di Geralt di Rivia. La storia in sé si sviluppa in maniera forse non troppo memorabile, ma sono i singoli momenti a definire l’immagine complessiva in questo caso. E non è in mezzo agli inseguimenti mozzafiato o alle drammatiche imboscate della main quest che il gioco si definisce — è nelle Nuvole, in un momento di riflessione offerto da un’IA, cercando di capire dove sta portando questo disperato tentativo di sopravvivere. È in un motel abbandonato, chiamando un numero da cui non si può avere risposta. È su un tetto con il medaglione di un vecchio amico, decidendo con chi andare a scatenare l’inferno. Nonostante alcune storie non vengano approfondite a dovere, l’avventura principale di Cyberpunk va a segno e resta a lungo dopo aver chiuso il gioco.

E non si sta parlando solo di storia — anche il gameplay trova la sua dimensione in alcune missioni, dando finalmente la possibilità di scatenare quel potenziale a cui le meccaniche ambiscono dal primo avvio. Che sia liberando corridoi stretti o infiltrandosi in complessi di grosse dimensioni, il gioco riesce a regalare qualche soddisfazione. L’hacking in particolare, come preannunciato, dà davvero una marcia in più al tutto: accecare i nemici per strisciarci oltre, forzarne uno al suicidio mentre si elimina il compagno con due colpi di revolver, e ovviamente il grande classico del convertire le torrette per allearsi con il giocatore — a prescindere dall’approccio scelto, le opzioni sono innumerevoli e si mescolano in maniera pratica e fluida. Nonostante alcuni sistemi (come il corpo a corpo) siano oltre ogni speranza, quando il gioco dà l’occasione di farsi valere, c’è molto da apprezzare nel gameplay di Cyberpunk.

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Alla main quest si affiancano diverse sidequest estese e, mentre non sono tutte di qualità eccelsa, vale comunque la pena giocarle, visto che approfondiscono i personaggi più intriganti e a volte offrono interessanti occasioni di gameplay. È affrontando queste storie che si vede quella qualità che ormai ci aspettiamo da CD Projekt RED, e le ore passano veloci mentre ci perdiamo nelle atmosfere di Night City, che sia aiutando a risolvere un omicidio o scoprendo un complotto politico. Per un attimo, i problemi del gioco sembrano scomparire.

E poi ritornano, inevitabilmente. Per ogni buona quest ce n’è una dimenticabile. Per ogni area ben dettagliata e ricca di opportunità ce n’è una minuscola e superficiale. Nella storia principale come (più frequentemente) nelle sidequest, quelle occasioni in cui si intravede quella qualità ci fanno sperare per il meglio, per poi tornare rapidamente con i piedi per terra affrontando le parti meno memorabili. C’è una mancanza di costanza che permea l’esperienza, e fa desiderare qualcosa in più che il gioco non è capace di offrire.

Non aiuta che anche le quest promettenti spesso non vanno dove si spera. Alcune finiscono con scelte interessanti che concludono immediatamente la storia, lasciando col dubbio sullo sviluppo. Altre partono con premesse immediatamente interessanti e poi si affievoliscono andando avanti. È difficile distinguere cosa vale la pena affrontare e cosa no, e raramente il gioco riesce a tutti gli effetti a mantenere il potenziale intravisto all’inizio. Ma ogni tanto ci riesce, e quelle volte in cui la promessa viene mantenuta sono esperienze da conservare a lungo dopo aver finito il gioco.

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Ed è quella promessa che fa male più di tutto. Perché, nelle fin troppo rare occasioni in cui Cyberpunk 2077 riesce a mantenere le aspettative, il risultato è qualcosa a cui è difficile resistere. È quella miscela di quello che ci aspettiamo da CD Projekt RED con la formula di un tipo di videogioco che non vediamo abbastanza spesso, e che i ragazzi polacchi dimostrano, in alcune occasioni, di saper affrontare. E, quando la miscela funziona, è forse vicino alle assurde aspettative che aveva il gioco. Ma, più frequentemente, il risultato diventa frustrante, perché c’è abbastanza da apprezzare Cyberpunk 2077, ma non abbastanza da amarlo, e non riesco a non pensare che, con un altro paio d’anni di sviluppo per rendere l’esperienza più equamente sviluppata su tutti i campi, il gioco sarebbe potuto essere davvero quello che ci aspettavamo. Così com’è, purtroppo, Cyberpunk 2077 lascia una brutta sensazione di amaro in bocca, non per quello che è ma per quello che poteva essere.

Un po’ come V, siamo stati tutti attratti e ammaliati dalle promesse della città dei sogni. E, un po’ come V, vedere quei sogni dal vivo non poteva mai corrispondere a quello che ci aspettavamo, ma ci va abbastanza vicino da persuaderci a rimanere, a cercarci qualcosa in più, fino a rimanere scottati, più e più volte cercando di realizzare quel sogno. Quel sogno che, naturalmente, non esiste, o almeno non completamente. E non è il fatto che il sogno non esista a pesare sull’anima — bensì il fatto che era così vicino ad esserlo che, per un lungo attimo, ci abbiamo creduto davvero.

E, a volte, andarci vicino fa più male che mancare completamente.

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Lorenzo “Dyni” Sarno
Frequenza Critica

Non so scrivere e passo tre quarti del mio (illimitato) tempo libero giocando ai picchiaduro. Non sono capace neanche a quelli.